La Donna e il suo nuovo cammino/Fratellanza e morale

Emmelina De Renzis

Fratellanza e morale ../Il nuovo orientamento della donna nella vita familiare sociale e politica ../Oggi e domani IncludiIntestazione 26 dicembre 2018 100% Da definire

Il nuovo orientamento della donna nella vita familiare sociale e politica Oggi e domani
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Fratellanza e morale

DI

EMMELINA DE RENZIS

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Gentili Signore,

Debbo assolvere oggi un compito, più che difficile, assai delicato. Perchè se in questo ciclo di conferenze, dopo una serie di letture che hanno trattato di problemi specifici concernenti la Donna, e relativi alla sua educazione, ai suoi rapporti con la scuola, al suo lavoro, ai suoi nuovi orientamenti nella vita familiare, sociale e politica, se ricade ora a me il tema: Fratellanza e Morale che può applicarsi a tutto il genere umano senza distinzione di sesso, io sento quanto sia arduo svolgere questo tema nei soli riguardi femminili. Parlare infatti della necessità di sviluppare fra le donne maggiore spirito di fratellanza, e d’infondere in esse più profondo senso morale, può parere quasi un volere affermare che negli uomini queste virtù sieno già forti e sviluppate, mentre Dio sa quanto l’Umanità — uomini e donne in ugual misura — sia ancora lontana da quello stato ideale in cui prossimo e fratello diventano termini sinonimi.

D’altra parte dalla casistica si deve salire alla filosofia; ed è naturale e giusto, che dopo avere studiato i varii problemi femminili specifici e pratici, si [p. 136 modifica] salga alla considerazione delle leggi e delle forze che sono comuni a tutti gli uomini, esaminandole dal lato della speciale portata che esse hanno sulle donne, per giudicarne la speciale ripercussione che possono avere sulle singole manifestazioni della vita femminile.

A dire il vero, se per parlare degli effetti bisogna trattare le cause, più che di Fratellanza e Morale mi converrà oggi discorrere di Amore e Realtà, perchè è appunto sul sentimento dell’Amore e sul senso della Realtà che mi pare debbano imperniarsi la Fratellanza e la Morale.

Fraternità o Morale, infatti, che cosa sono veramente per sè stesse? Esse si riferiscono ambedue al rapporto dell’uomo con il prossimo, e secondo il modo come sono intese, sono indice della valutazione che una data epoca dell’evoluzione dell’umanità fa dei doveri, ai quali quei rapporti devono ispirarsi e uniformarsi, e particolarmente di quelli attinenti alla solidarietà e alla sincerità umana.

Dalla illuminata e giusta comprensione del concetto di Fratellanza, di ciò che noi dobbiamo agli altri, del rispetto dei reciproci diritti, del sentimento che deve unire gli uomini fra di loro, scaturiscono infatti naturalmente delle chiare direttive per la Morale.

E un vero sentimento di fratellanza non può evidentemente sostenersi che su radici profonde, che sfuggono all’esame superficiale. L’amore per il prossimo, per essere realmente benefico ed efficace, deve di necessità essere basato sulla Verità. L’amore è la potenza animatrice e vivificatrice del mondo, eleva ed educa l’anima e può condurla alle opere più sublimi e ai più grandi sagrifizi, purché si basi sulla Verità. Perchè l’amore è arma a doppio taglio; se non poggia sulla Verità, se non si basa sopra una chiara e netta [p. 137 modifica] visione degli uomini e delle cose, può trasformarsi in forza distruttrice e demoralizzatrice.

Il primo appello alla Fratellanza, all’amore fra gli uomini per la loro comune origine, è venuto all’umanità dal Cristianesimo. All’uomo erano state prima insegnate la pietà, la compassione, l’amore, ma il concetto dell’uguaglianza fra gli uomini per la loro comune origine, l’amore per il prossimo come da fratello a fratello, come da pari a pari, proviene dal Cristianesimo. E non poteva essere diversamente, perché il Cristianesimo stesso si determinò nell’ora in cui l’uomo, attraverso sofferenze e dolori, aveva evoluto l’intelletto e la ragione, e formato la coscienza della propria Individualità. Fino allora infatti l’uomo, come individuo, non aveva acquistato personalità completa, ma era legato dai vincoli della consanguineità alla sua famiglia, alla sua tribù, per cui considerava i vincoli del sangue più sacri del diritto alla propria individualità; il padre comandava sul figlio come un superiore sul suo inferiore, vigeva sulla società una legge esteriore che doveva essere ciecamente seguita. Ma l’uomo è andato lentamente evolvendo la propria individualità e l’appello del Cristianesimo lo incitò a trascendere gli stretti limiti della famiglia e della tribù, sicché allargò il suo orizzonte, e il suo amore venne chiamato ad abbracciare non soltanto la sua razza, la sua nazione, ma venne chiamato ad abbracciare l’intiera umanità.

Il vero sentimento di fratellanza s’ispira a un profondo senso dell’Unicità dell’Universo, a quel senso che ha ispirato a S. Francesco il suo Canto del Sole, in cui il Santo si rivolge alla Luna, al Sole, alle stelle, all’Universo intero come a sorelle e a fratelli e sente con profondo amore la completa comunanza dell’uomo [p. 138 modifica] e delle cose tutte. Cosi come non potrebbe avere questo sentimento francescano l’uomo che si mettesse al di fuori delle cose, in opposizione ad esse, così nei riguardi della fratellanza umana gli antichi vincoli che sembravano buoni, creavano invece delle limitazioni, che contrastavano col senso di unicità dell’Universo a cui la nuova Fratellanza si deve ispirare.

E difatti, mentre prima il forte sentimento della parentela di sangue e di tribù coagulava e stringeva gli uomini in famiglie e nazioni, l’evoluzione della Individualità singola ha invece determinato fra uomo e uomo una corrente di sentimento divergente, al punto che questa divergenza sembra alle volte minacciare di condurre al disfacimento della società umana. Così però non è, perchè gli antichi vincoli di tribù e di famiglia, apparentemente buoni, in fondo costituivano delle barriere contro la creazione della grande famiglia umana, unica, in quanto impedivano il sorgere di ciò che vi è veramente di comune in tutti gli uomini, di quella verità che è nell’anima di tutti gli uomini e alla quale ogni uomo, più o meno inconsapevolmente, tende. Ed è questa comune ricerca, appunto, che costituisce il nuovo vincolo di fratellanza umana. Gli antichi vincoli servivano finché l’individuo non fosse abbastanza forte ed evoluto per discernere egli stesso questa più profonda verità. L’evoluzione di questa nuova corrente di sentimento spiega la presente trasformazione della famiglia, spiega perchè essa sembri ora andarsi disgregando, perchè la donna ora tenda a stabilirsi sopra un altro piede di fronte all’uo­mo. I vincoli formali della famiglia vengono meno di fronte a questa nuova forza morale dell’individuo, che poggia sul senso dell’Unicità del Creato, e sopra una nuova concezione dei doveri dell’Umanità, concezione [p. 139 modifica] però che ha prodotto a sua volta nuovi vincoli, nuovi doveri, nuovi ideali e nuovi apprezzamenti.

Nei tempi primordiali dell’esistenza l’uomo era in maggior comunione con la Natura di quello che ora non sia, le esigenze dell’esistenza hanno volto le sue facoltà verso la vita esteriore, materiale, ed egli è andato perdendo quella intima comunione, quella fine intuitiva percezione di ciò che palpita e vibra intorno a noi, di ciò che trascende la Realtà obbiettiva che ci circonda. La donna invece si è spinta meno avanti nella vita esteriore, nella materialità, ha potuto conservare il senso dell’Unicità del Creato e, per quanto questa virtù insita nella natura della donna non sia stata fin oggi educata sino a divenire organo cosciente della vita sua, basta tuttavia a renderla virtualmente meglio dell’uomo atta a sviluppare quel sentimento di Fratellanza, che deve servire di base e di guida alla vera morale. Essa ha conservato una capacità di comunione con la Natura e con lo Spirito, che invece nell’uomo si è sopita. Essa ha quell’elemento di maternità, di forza ricettiva dell’anima, che si lascia fecondare dal mondo spirituale, e a cui nel Faust viene accennato con l’espressione «l’eterno femminile». Questo eterno femminile è una facoltà ricettiva, che è insita nell’anima umana, nell’uomo però è attutita, sopita; ond’egli ne sente la mancanza, e nella brama di completarsi si arrabatta nell’attività esteriore, è irrequieto, agitato, e tormentato da perenni, dolorose e fatalmente infruttuose aspirazioni e vi è in questa sua esteriore ricerca di ciò che gli manca un aspetto di tanta ingenuità, direi quasi di tanta infantilità, che ogni donna, dinanzi alla debolezza e alla miseria dell’uomo che ama, sente destarsi in sè il naturale istinto materno e, sia egli figlio, fratello, marito o padre, stende su di lui uno stesso amore di compatimento e di maternità. [p. 140 modifica]Con questo amore la donna, che ha conservato in sè quell’affinità con Madre Natura, il profondo sentimento della comunanza di tutti gli esseri, e di tutto il Creato, e che perciò non è tormentata da tanta irrequietezza, ed è più passiva e più inerte, ridà all'uomo il contatto con la Natura, dalla quale le lotte per l’esistenza lo hanno staccato. In generale l’uomo infatti ha sviluppato le sue capacità mentali e per via di logica arriva alla visione sintetica dell’assieme, e cura meno i particolari. La donna, invece, per la sua natura intuitiva, è tratta a far minor uso della mente, e mentre non assurge che oscuramente alla sintesi per cognizione subcosciente, si ferma nella eccessiva considerazione dei dettagli.

Un essere completa dunque l’altro e, come ci si rivolge alla natura quando ci occorre di attingere nuova forza per l’organismo o per lo spirito esausto, così pure l’uomo deve poter attingere nuova forza per la lotta dell’esistenza della donna sua compagna. Ed essa, a sua volta, appunto perchè deve essere lo strumento per il quale la Natura dà la sua forza all’uomo, come la Terra ad Anteo, non deve con alcun elemento suo egoistico lasciare che diminuisca tale Divino Afflato. È un sacrifizio a cui la donna è tenuta, quello cioè della consacrazione della propria felicità per il bene e per l’elevazione dell’uomo; sacrificata del resto rimane soltanto la facile illusoria felicità del momento, poiché la finale gratitudine dell’uomo resta per la donna che lo avrà inalzato.

Per poter veramente dare questa forza all’uomo la donna deve perciò spogliarsi di ogni sentimento personale, e risalire alla Verità, di cui essa ha l’intima intuizione, e che a lui sfugge, come ho detto, nelle lotte e nell’agitazione dell’esistenza esteriore; essa non [p. 141 modifica] deve pensare a piacere, ma deve dimenticare sè stessa e, fisso lo sguardo nell’ideale che essa intuisce e intravede, deve additarne la via al suo compagno, e ispirarlo ed inalzarlo. Per essere vera ispiratrice dell’uomo, essa dovrà dunque sempre rimaner fedele alla Verità che essa intuisce, non dovrà mai sacrificarla, mai far appello all’altrui debolezza per raggiungere un proprio intento, mai falsare la sua o l’altrui natura con finzioni di qualsiasi genere.

«La donna nella sua relazione con l’uomo» ha scritto una valorosa scrittrice, Lucia Re-Bartlett, «deve stare con le cose che lo liberano, non mai con quelle che lo legano; ha da spingerlo alle cose di cui egli ha vero bisogno, anche se abbiano a distorlo da lei. Suo dovere ha da essere, non di rendersi indispensabile, ma piuttosto di rendere a lui indispensabile il possesso del suo proprio spirito e di tutte le forze innate più alte. All’impulso di darsi deve sostituire quello di rendere all’uomo sè stesso». La donna che agisca diversamente non è più vera compagna o ispiratrice per l’uomo, ma diventa per lui una catena che limita le sue possibilità, un peso che impedisce la sua ascensione.

Occorre pertanto che essa sappia veder chiaro in sè stessa, nelle proprie intenzioni, e acquistare una netta visione delle cose e della vita, per essere in grado di discernere l’Amore vero, disinteressato, da quello egoista, per arrivare a intendere la Verità.

Perchè sviluppare quel vero sentimento di Amore e approfondire quella conoscenza della Verità che, come ho detto, possono soli servire di base alla nuova concezione della Fratellanza e della Morale, altro non è, che una quistione di evoluzione di discernimento: Che cosa sono però veramente Amore e Verità? Come [p. 142 modifica] si fa per sviluppare il sano discernimento, così necessario per sceverare il vero dal falso? Può concepirsi un essere privo affatto di sentimento di amore?

Nè Creator nè creatura mai,


è Dante che parla,

fu senza amore o naturale o d’animo;
e tu ’l sai.

È natura, è vita l’amore, ed è in tutti; e di natura è uguale in tutti. Ma l’anima lo modifica, lo trasforma, e come un vetro imperfetto offusca e devia la luce, così l’anima inquina e pervertisce l’amore, volgendolo a mete errate. Errate in infiniti sensi e in infiniti modi, perchè vario è il livello dell’evoluzione da persona a persona, e perchè la Realtà, che all’uomo evoluto apparisce relativamente netta e precisa, si trasforma in quello meno evoluto in una caricatura di sè stessa. Ma in tutti è la favilla vivificatrice dell’amore, e ne fan prova continua le azioni degli uomini che ci stan d’attorno. Perfino l’egoista la possiede, ma egli volge la fiamma del suo amore su sè stesso, sulla sua persona, sulla soddisfazione dei propri godimenti, e come fiamma che in un ambiente senza uscita soffoca ed asfissia, così la forza di amore che tanto vivifica chi la rivolge verso il prossimo, arde e inaridisce l’egoista che la ritorce su sè stesso. Ma è pur sempre forza di amore! Nulla di più triste di un amore egoista o traviato! Perchè:

«L’animo che è creato ad amar presto,
Ad ogni cosa è mobile che piace,
Tosto che dal piacere in atto è desto».

Ma se il piacere è volto a mèta egoista, la forza d’amore si spegne, e all’ambita soddisfazione subentra amarezza e nasce quell’irrequietezza, quell’affannosa e [p. 143 modifica] continua ricerca di emozioni e di svaghi, che generano lo scontento, il senso di vuoto nella vita, di cui tanti oggi soffrono il tormento. Nè basta l’assenza di ogni elemento d’egoismo, nell’amore occorre anche discernimento, senza di che sono nuovi errori, e nuove sofferenze.

Ai semplicisti sembra molto facile fare il bene, esercitare la carità, sviluppare l’amore, raggiungere la pace universale. Invece è quanto vi ha di più difficile! Essi dimenticano che in ogni uomo che incontriamo, per quanto evoluto egli possa essere, e pieno di buoni propositi, la Realtà è colorata diversamente, per effetto della sua speciale razza e nazione, famiglia ed educazione, per le esperienze e le vicende attraversate, per l’indole e disposizione che gli è propria. Non pensano che per metterci a contatto col nostro prossimo occorre non ignorare le diversità di educazione, coltura e temperamento che dividono uomo da uomo, e che bisogna per virtù di discernimento saper superare queste, che non sono che superficiali differenze, per giungere all’intima sfera, alla sfera del cuore, dove ogni uomo sente in comune col suo simile. Si può dissentire in politica, in teorie sociali, in educazione, in tutto, e nondimeno essere fondamentalmente capaci d’inten­dersi, di trovare un punto di contatto sul quale incontrarsi. Basta aver sofferto pene e dolori che altri ha pure sofferto, potersi rallegrare per le medesime cose per le quali altri pure si rallegra. Un noto filosofo ha osservato quanto sia «difficile alle volte intendersi a proposito del mondo esteriore con persona che s’incontri in lontano paese, mentre invece riesce facile intendersi su ciò che il cuore sente e desidera. L’amore è cosa assai complicata, di cui nessuno dovrebbe ardir di dare la definizione, od osar di penetrar senz’altro [p. 144 modifica] l’essenza. Lo percepiamo, l’amore, ma nessuna definizione è atta ad esprimerlo. Una peculiarità di esso ce ne rivela però l’intima essenza. Nel campo dell’amore più l’uomo opera e più si arricchisce; più dà, e più riceve. Questa legge, che è contraria a ogni legge di natura, mostra come quella dell’amore sia sfera, che trascende il nostro mondo esteriore, e nella quale gli uomini sono fra loro assai più vicini che non sulla Terra. Nell’intima interiorità di ogni uomo, in qualsiasi parte della Terra egli si trovi, vive infatti qualcosa che può intendersi con noi». Ma per raggiungere questa intesa occorre che uno si spogli del suo speciale elemento egoistico, della colorazione personale dei suoi sentimenti, che si liberi dalle passioni, per acquistare quella serenità e quella calma, che gli permetta di prender parte, come fossero sue, alle gioie e alle pene altrui.

È questa verità appunto che viene spesso dimenticata nell’esercizio della carità, quale la si usa ai giorni nostri. Già la parola stessa «carità» associata all’esercizio della beneficenza costituisce di per sè un errore. Per conto mio vorrei veder abolita la parola «beneficenza». Non dovrebbe esistere. Il concetto di «beneficenza» implica oggidì in chi la esercita un senso di superiorità, di benemerenza di fronte al beneficato, che è in essenziale contradizione con lo spirito di Fratellanza che deve informare l’amore del prossimo. La carità è amore, non è beneficenza. La beneficenza è azione, la carità è lo spirito che deve animarla, senza del quale il mèro atto di donare non si eleva al di sopra della sua portata puramente materiale. E qui chi non ricorda le parole di San Paolo ai Corinti: «E avvegnaché io spendessi a nutrire i poveri tutte le mie facoltà e dessi il mio corpo ad essere [p. 145 modifica] arso, se non ho carità quello niente mi giova. La carità è lenta all’ira, è benigna; la carità non invidia, non procede perversamente, non si gonfia».

Nessuno infatti ha diritto di sentirsi meritevole di lode, nessuno ha diritto di provare un sentimento di intimo compiacimento per aver dato agli altri, che ne hanno bisogno, ciò che a lui esubera. Abbiamo diritto, non mai di compiacerci, ma di rallegrarci soltanto, se, penetrando nel cuore degli altri, abbiamo potuto con l’amore e la simpatia veramente portare aiuto e conforto a un’anima in pena; perchè allora il nostro aiuto è stato savio, non adulterato da sentimentalismi, ma diretto da una netta visione della Realtà. Quanto spesso non ha maggior valore una parola di amore e di conforto di qualsiasi aiuto materiale! I più strani traviamenti del senso morale si palesano qualchevolta in queste cosiddette opere di carità mondane, e non intendo neppur parlare della vanità a cui spesso servono di scusa, nè di quelle persone che si trovano a far parte di tutti i Comitati, che sono fonti inesauribili di geniali idee di aiuto e di carità in parole, ma che poi del lavoro vero di queste opere lasciano il carico completamente agli altri, limitandosi a raccoglierne gli allori. Intendo invece rilevare, come il miraggio del fine benefico spinga talvolta a informare l’opera di carità a uno spirito di falsificazione e d’inganno che, lungi dal suscitare negli altri uno spirito di amore, desta in essi risentimenti e disgusto, ed estingue ogni desiderio di fare il bene.

Io stessa mi ricordo, per esempio, quando ero molto giovane, di una signora che si credeva una colonna dell’alta società, che ogni qualvolta aveva da offrirmi qualche biglietto di beneficenza improvvisamente mi dava del tu. Essa credeva di commuovermi, [p. 146 modifica] ma, a dir il vero, non faceva che mettermi sull’avviso, e invece di sentirmi attirata a sentimenti di carità, prendevo divertimento a mettere la mia interlocutrice in imbarazzo! Si trattava in questo caso di una volgare, ma innocua astuzia a fin di bene, ma il fine caritatevole non può giustificare i mezzi quando, per esempio, si vede a una fiera di beneficenza un’elegante venditrice di cartoline illustrate da pochi centesimi farsi dare in pagamento biglietti da cinque, da dieci lire, o di taglio anche maggiore, offrendo di scambiarli, e poi vantarsi di aver finto di dimenticarsene, per tenersi l’intera somma, senza considerare neppure se si trattava di persone che fossero in grado di dare tanto. La carità deve essere essenzialmente genuina e sincera e non può concepirsi a base di artefizi. Non credo con questo di aver scoperto nulla di nuovo tanto è vero, che quattro secoli avanti Cristo Lieh-Tsu raccontava che: «la buona gente di Han-Tan aveva l’abitudine per Capo d’Anno di regalare al Governatore Cien-Tsu un certo numero di piccioni vivi. Questo dava gran soddisfazione al Governatore, che ricompensava liberamente i donatori. A uno straniero, che gli chiese il significato di questa costumanza, Cien-Tsu spiegò, che dare la libertà a creature viventi nel giorno di Capo d’anno era segno di spirito di benevolenza. «Ma», rispose lo straniero, «poiché la gente sa di questa idea di Vostra Eccellenza, si sforza senza dubbio di catturare il maggior numero di piccioni possibile, e molti in questa caccia dovranno restare uccisi. Se è veramente vostro desiderio che gli uccelli restino in vita, il miglior mezzo sarebbe di vietarne addirittura la cattura. Se bisogna catturare gli uccelli per poi liberarli, la bontà non vale a compensare la crudeltà». [p. 147 modifica]Il Governatore, assicura Lieh-Tsu, riconobbe che lo straniero aveva ragione.

Ma qui da noi, forse perchè all’estero avviene come in Italia, non è ancora venuto lo straniero che c’illumini sul modo di fare la carità. Anche quando non ricorra a trucchi e a piccoli inganni, la carità che specula su debolezze umane, che mette a prezzo un bacio a una signora, o che sfrutta gli snobismi e le ambizioni, per far acquistare a persone che aspirino di elevarsi socialmente, a furia di biglietti di beneficenza e di oblazioni, un preteso diritto a entrare in familiarità di rapporti con le Dee dell’Olimpo sociale, è una carità in essenziale contradizione con sè stessa. E strano a dirsi, accade spesso che quelle medesime signore, che si affannano in opere di carità e in lavoro cosiddetto sociale, vengono poi meno al più elementare dei doveri verso il prossimo, dimenticando, per esempio, di pagare puntualmente il lavoro che è stato loro apprestato, o di compensare gli educatori e gl’insegnanti dei loro figli. Travolte forse dal turbine della loro benefica operosità, esse si rendono colpevoli di siffatte dimenticanze, che, a parer mio, costituiscono più che un errore, un vero delitto, perchè se si concepisce già come mancanza al proprio dovere quella di non soccorrere il prossimo bisognoso, con quanto maggior scrupolo non si deve essere solleciti nel soddisfare debiti veri e propri. Può infatti questo modo di agire chiamarsi vero amore, vero sentimento di carità o di fratellanza? Questa confusione mentale sui veri moventi e sui veri scopi della carità è molto diffuso nella donna, la quale, specialmente in Italia, forse per­chè è stata meno in contatto con la realtà della vita, confonde sentimento e giustizia, carità e affari, in una matassa inestricabile e confusa. [p. 148 modifica]Un caso tipico di questa confusione lo si ha, per esempio, quando un’opera di carità viene elevata a ente commerciale e costituita in Società per Azioni, della quale un gruppo di signore si renda azionista. È già iniziativa assai benefica e molto lodevole, quella di organizzare lo smercio di prodotti di lavoranti bisognose su base commerciale. La bontà di un prodotto che risponda alla richiesta ne assicura senz’altro la vendita, e una società costituita a tale scopo può reggersi commercialmente su basi serie e concrete. Invece, non paghe di ciò, le fondatrici azioniste di tali società confondono talvolta l’utile opera commerciale con il consueto esercizio della carità: e se anche rinunziano annualmente ai dividenti delle loro azioni, il che è un atto di liberalità che dimostra il loro disinteresse, si sforzano d’intensificare artificiosamente lo smercio dei prodotti con vendite in alberghi, in fiere, e con l’assistenza di signore, come usa farsi nelle vere e proprie vendite di beneficenza. Così impostata l’impresa, il concetto della medesima rimane completamente falsato: in primo luogo, perchè non è giusto intensificare con l’idea della beneficenza gl’introiti di un’azienda i cui utili vanno a dividendo delle azioni, anche se gli azionisti volta per volta rinunziano ai profitti. In secondo luogo, perchè è economicamente errata la costituzione di un’impresa commerciale, che per reggersi abbia bisogno di ricorrere allo spirito caritatevole dei suoi clienti. Analogo errore commettono le signore caritatevoli quando, per eccesso di buon cuore, abituano delle operaie a paghe eccessive e non compatibili con il ricavato della vendita degli oggetti confezionati; ritenendo così di migliorare le condizioni economiche loro, creano invece per esse un disagio avvenire. È tutto effetto di confusione, frutto di [p. 149 modifica] sentimentalità, di sensibilità non educata, ingenua, ma che pur troppo può recare serie conseguenze.

Questa mancanza di sano criterio, di sana valutazione dei bisogni della vita, cioè della Realtà in tutti i suoi aspetti, non si potrà correggere che con lo sviluppo del discernimento e con la ricerca impersonale, disinteressata, della Verità assoluta.

Che cosa è però la Verità assoluta?

In un’enciclopedia ho trovato la seguente definizione: «La Verità assoluta è quella verità, che è in­dipendente da tutte le circostanze di tempo e di luogo ed avente l’universalità per carattere fondamentale. Ciò che inalza l’uomo al di sopra di tutte le creature non è già la grandezza nè la forza, ma sì il pensiero, l’essere egli capace di conoscere sè medesimo e ciò che è. Ogni verità è lume per l’uomo, poiché conoscere e possedere la verità è conoscere le cose quali sono realmente, è vederle senza illusioni, senza equivoco, senza che vi si frammischi nessun errore. L’opera delle generazioni successive è di sviluppare il fondo primitivo di verità che l’uomo ha ricevuto in retaggio dai suoi avi. La potenza e la grandezza del genere umano sono in ragione di questo capitale sempre crescente di verità, ch’esso trae dall’osservazione del mondo esteriore e dallo studio di sè medesimo».

Ora avviene che tutti dicono di cercare la verità, ma che i più, forse perchè il suo splendore è troppo abbagliante, se anche ne scoprono un lembo, si affrettano immediatamente ad attenuarla, a velarla coi loro ideali chimerici e sentimentali. Spaventati dalla tremenda forza e bellezza della sua scultoria nudità, l’accusano d’inverecondia, di brutalità, e si affrettano a camuffarla nelle convenzioni, simili in ciò ai timorosi che di pudiche foglie e di goffi panneggiamenti [p. 150 modifica] hanno talvolta voluto rivestire la nudità delle statue greche, quasi che la bellezza perfetta, fatta di proporzione e di armonia, non fosse di per sè stessa casta e pura.

Le convenzioni non vanno però disprezzate, hanno la loro utilità nel mondo. Esse rappresentano il primo grido di allarme della coscienza collettiva che si risveglia, sono il primo velo di pudicizia che la coscienza collettiva getta sulle proprie imperfezioni. Esse sono imperfette e ipocrite appunto perchè non corrispondono alla Realtà, perchè non sono il frutto dell’esperienza e del ravvedimento individuale, ma dimostrano tuttavia che la coscienza collettiva si è destata e ha inteso il bisogno di tracciarsi delle norme. Questo non è che un palliativo, e quanto più l’uomo si individualizza e si evolve, tanto più questo rimedio esteriore gli si palesa formale e inadeguato, come una vernice superficiale che non ha profondità, e una forza interiore spinge l’individuo a mettere invece in pratica quelle norme di condotta e di moralità, che la sua propria coscienza gli detta. È anzi proprio questo contrasto, fra quella morale generale, che Anatole France definisce «la somme des préjugés de la communauté» e la morale individuale, radicata nella coscienza dei singoli, che determina l’impulso evolutivo dell’etica umana.

Perchè, in pratica, non si conosce moralità assoluta, non vi è che moralità relativa, subordinata, cioè, allo stato di evoluzione del popolo e della massa, o allo stato di evoluzione dell’individuo. Vi sono dunque sempre veramente, parlando da un punto di vista etico ideale, al contempo due morali. Una, quella cosiddetta convenzionale, stabilita dalle leggi e dalle consuetudini dell’epoca in cui si vive, e rispondente al grado [p. 151 modifica] di evoluzione della massa in quel momento; l’altra, quella dell’individuo, il quale per essere fedele a sè stesso deve necessariamente seguire e adempiere quel­l’ideale e quel dovere che per lui rappresentano la più alta mèta, la verità. L’individuo ha un dovere verso la società, ma ha anche un dovere verso sè medesimo, verso ciò che egli crede il giusto e il vero; se dunque egli si trova di fronte a una situazione, in cui la morale convenzionale esteriore sta in contrasto con ciò che egli ritiene vero e buono, egli ha il dovere di agire in conformità della sua coscienza. E ha questo dovere, anche quando la sua azione individuale possa apparire nociva all’assieme della comunità, purché nella sua decisione non vi sia ombra di sentimento personale, di tornaconto o interesse personale. Ma l’uomo s’illude spesso di essere disinteressato e impersonale, e più s’illude la donna, cui la natura passionale vela maggiormente la serenità del giudizio, mentre solo l’abito di una ricerca profonda, obbiettiva, della verità fondamentale, può sviluppare il retto discernimento.

Perchè bisogna qui fare una distinzione delicatissima, ma essenziale. Bisogna distinguere il problema puramente morale da quello del giudizio, del discernimento. Dal punto di vista morale non si può im­putar colpa a un uomo per ciò che egli sinceramente sente, e la concezione diversa che Alfieri e il Procuratore del Re hanno del regicidio mostra come la valutazione etica di un omicidio sia quistione di fede. Ma è quistione di discernimento e di raziocinio vagliare l’obbietto della fede.

E l’uomo deve rendersi conto che per quanto larga e lungimirante la sua visione è pur sempre limitata e non può abbracciare l’intiera ragion d’essere delle cose; egli perciò ha il dovere di tenere in ­ [p. 152 modifica] considerazione la necessità contingente di certi vincoli e di certe leggi che reggono le collettività e le comunità umane e ha quindi anche il dovere di commisurare e di armonizzare la propria concezione profonda e illuminata del bene generale con le esigenze e le limitazioni dell’epoca in cui vive, senza di che sovverte invece di creare, e invece di un pioniere diventa un elemento di disordine e di demoralizzazione; per cui la società fa bene a difendere la compagine delle proprie istituzioni e a punire l’imprudente che trasgredisce troppo alle leggi che il senno dei secoli è andato lentamente accumulando.

Comunque non è dalle formule ciecamente imparate, ma dal proprio sincero ed educato convincimento, che convien trarre le norme della propria condotta, perchè nella supina acquiescenza alle leggi scritte non v’è germe di progresso, ma principio di ristagno, e sono invece i conati individuali che danno impulso al complesso della civiltà.

Kandinsky, in un libro sulla spiritualità nell’arte, rappresenta in modo originale ed efficace la graduale ascensione dell’umanità verso la conoscenza, verso la Verità. Egli rappresenta con una linea orizzontale il livello medio di evoluzione delle masse; da questa linea comune gli spiriti eletti, i pionieri, si vanno un dopo l’altro sollevando per raggiungere visioni più chiare della verità, per avvicinarsi ad essa. Questi singoli tentativi vengono rappresentati dal Kandinsky come tanti triangoli, che egli chiama «triangoli spirituali», vertici dei quali sono i pionieri che hanno spiccato il volo, che hanno puntato in alto, e che sollevatisi dalla volgare schiera segnano la mèta, che serve di faro alle masse. Il maggior patrimonio di verità che il pioniere ha conquistato viene lentamente [p. 153 modifica] e laboriosamente compreso e assorbito dalle masse stesse, e ogni volo del pioniere aiuta la collettività a progredire dì un passo verso la mèta finale. Il Kan­dinsky predice un’era felice in cui la verità completa verrà raggiunta, allora, egli dice, l’arte potrà manifestarsi in tutto il suo splendore. Egli chiama questo apogeo futuro di un’arte fondata sulla verità «l’arte monumentale» e graficamente ce lo rappresenta come una piramide, di cui la verità è il punto culminante, il vertice, verso cui da ogni parte tendono e convergono ugualmente le aspirazioni delle masse evolute, dell’intiera umanità. E difatti, come dice il Bataille nella prefazione di un suo dramma «C’est toujours par ce qu’elle contient de veritè qu’une oeuvre nouvelle choque ses contemporains; c’est toujours et seulement par ce qu’elle aura contenu de veritè, que cette oeuvre est appelèe à subsister dans l’avenir».

Per la ricerca di questa verità fondamentale, come abbiamo detto, occorre però un discernimento chiaro, spassionato, occorre essere padroni di sè stessi e delle proprie passioni. E queste si possono vincere soltanto se ci si dedica ad un esame profondo, accurato, continuo e metodico dei propri pensieri, delle proprie azioni e dei reconditi moventi delle medesime. Si arriva allora a strane scoperte, si va incontro a profonde umiliazioni! Se le passioni non sono vinte, esse offuscano la forza ricettiva della nostra anima, la quale non può allora più venir direttamente fecondata dal mondo spirituale che l’attornia. Una prova dell’influenza potente che le passioni imperfettamente domate possono ancora esercitare anche sulle Individualità più nobili ed elevate, ci viene data dall’estasi di quei Mistici, i quali, sebbene indubbiamente sinceri nel loro fervore religioso, parlano nondimeno delle loro visioni [p. 154 modifica] come di esperienze erotiche, descrivendole con espres­sioni di amore e di passione che san troppo di umano.

Ora, alla donna manca la spinta all’abitudine del­l’esame interiore, continuo, delle proprie tendenze, dei proprii istinti, delle proprie passioni. Sebbene dalla Natura essa abbia avuto la missione più grande e più nobile che si possa pensare, cioè la procreazione e, più ancora, l’educazione e la formazione del carattere morale dell’umanità che nasce, le condizioni sociali cui la donna da secoli è stata assoggettata le precludono tuttavia quelle possibilità d’iniziativa, che pur devono essere aperte e chi, come essa per la sua missione, deve essere pioniera di verità in ogni forma di sentimento o di azione.

A che pro dovrebbe essa infatti cercare nella propria anima nuove direttive, se la ferrea convenzione la costringe al rispetto di formule viete? Ameno che non abbia forte personalità, o non sia dotata di una volontà non comune, la donna, vistasi preclusa la retta via verso i dominii che per natura son suoi, cerca di acquistar potere e influenza per sentieri traversi, sicché in lei il buon seme rimane troppo spesso guastato, e germoglia leggerezza, vanità e finzione.

Se invece essa potesse arrivare a far tacere in sè gli istinti e le passioni, potrebbe anche penetrare con lo sguardo e vagliare i rapporti della verità e discernere in proposito. E come afferma un conoscitore delle occulte qualità dell’anima: «quando si arriva a discernere chiaramente una verità, la si può vagliare e giudicare col nostro Io, con l’intima nostra interiorità. E se così giungeremo ad acquistare una verità, potremo dire che questa verità, mentre è stata da noi acquistata nel modo più personale, è nondimeno quanto [p. 155 modifica] vi ha di più impersonale; perchè mentre da un lato ha radici in quanto vi è di più profondo in noi, perchè è dalla nostra profonda interiorità che viene giudicata, al contempo conduce fuori di noi, perchè è indipendente dal nostro arbitrio, e quella medesima verità, e con il medesimo aspetto, si deve trovare nel fondo dell’anima di tutti gli uomini. Perciò sulla base della Verità potremo intenderci con tutto il mondo che ci attornia».

La Verità dunque è il patrimonio comune a tutti gli uomini. La Verità è la grande Madre dalla quale tutte le coscienze umane traggono Vita, e nella quale si ritrovano, al di sopra di tutte le distinzioni di razza, di fede e di casta. La Verità dunque è l’essenza della Fraternità umana, e l’amore, fondato sulla Verità, è la forza che regge l’umanità. In quanto è sentito, questo Amore è Fratellanza, in quanto è legge, è Morale, e a seconda del vario modo in cui questa legge è compresa ed è sentita, nascono le varie morali. Il mondo così va considerato come un Tutto, di cui l’essenza è Realtà. A base di esso è la Verità assoluta, la quale come una gran luce centrale, è alla portata di tutti, purché con l’affinamento e la spiritualizzazione della mente e del cuore arrivino a dominare e a trasformare le passioni, che, trascinando nella materialità della vita, velano e offuscano lo ben dell’intelletto.

Di questo Tutto l’Amore è l’elemento vitale che, come il sangue che scorre nelle nostre vene, anima e vivifica l’Universo, e pure come il sangue, stabilisce vincoli di affinità e di fratellanza. Questo elemento attivo di vita è comune a tutto il Creato. Quando la conoscenza di questo fatto sarà penetrato non solo nella nostra mente, ma anche nel nostro cuore, quando saremo realmente pervasi e compenetrati di questo [p. 156 modifica] convincimento, potremo allora dire di avere stabilito quei saldi vincoli di solidarietà e di fratellanza umana che a tentoni andiamo ancora cercando. Nè saranno allora più possibili divergenze di opinioni sulla morale, perchè il sentimento dell’Unicità dell’Universo ispirerà ogni nostro pensiero e ogni nostra azione.

Roma, 25 marzo 1918.