La Congiura de' Pazzi (Alfieri, 1946)/Atto terzo

Atto terzo

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Raimondo, Salviati.

Salv. Eccomi: è questo il dí prefisso: io riedo;

e meco vien quant’io promisi. In armi
giá d’Etruria al confin gente si appressa;
re Fernando l’assolda, il roman Sisto
la benedice; a piú inoltrarsi, aspetta
da noi di sangue il cenno. Or dimmi, hai presta
fra queste mura ogni promessa cosa?
Raim. Presto il mio braccio è da gran tempo: ed altri
né ho presti, assai: ma, chi ferir, né dove,
come, o quando, non san; né saper denno.
Manca a tant’opra il piú: l’antico padre,
Guglielmo, quei che avvalorar l’impresa
sol può, la ignora: alla vendetta chiuso
tiene ei l’orecchio; e ancor parlar l’udresti
di sofferenza. Il mio pensier gli è noto;
che mal lo ascondo; altro ei non sa: non volli
della congiura a lui rivelar nulla,
se tu pria non giungevi.
Salv.   Oh! che mi narri?
Nulla Guglielmo sa? Ciò ch’ei pur debbe
compiere al nuovo sol, ti par ch’ei l’abbia
ad ignorare, al sol cadente?
Raim.   E pensi,

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che un tanto arcano avventurar si deggia?

Che ad uom, (nato feroce, è ver) ma fatto
debol per gli anni, ad accordar pur s’abbia
una notte ai pensieri? Oltre a poche ore
bollor non dura entro alle vuote vene;
tosto riede prudenza; indi incertezza,
e lo indugiare, e il vacillare, e il trarre
gli altri in temenza; e fra i timori e i dubbi
l’impresa, il tempo si consuma, e l’ira,
per poi restar con ria vergogna oppressi.
Salv. Ma che? non odia ei pur l’orribil giogo?
non entra a parte dei comuni oltraggi?...
Raim. Egli odia assai, ma assai piú teme; indi erra
infra sdegno e temenza incerto sempre.
Or l’ira ei preme, e miglior sorte ei prega,
e attende, e spera; or, da funesto lampo
all’alma sua smarrita il ver traluce,
e il fero incarco de’ suoi lacci ei sente;
ma scuoterlo non osa. Assai pur mosso
l’ebbe or dianzi l’oltraggio ultimo, ch’io
volli a ogni costo procacciarmi. Ottenga
altri l’inutil gonfalon, che tolto
a me vien oggi. A mel ritorre, io stesso,
con molti oltraggi replicati, ho spinto
i tiranni. Suonarne alte querele
pur fea; dolor della cercata offesa
grave fingendo. — Or, tempi, e luoghi mira,
ove a virtú mescer lo inganno è forza! —
Giá, con quest’arti, al mio volere alquanto
piegai tacitamente il cor del padre.
Tu giungi al fin: tu il pontificio sdegno,
del re la possa, e i concertati mezzi,
tutto esporrai. Qui lo aspettiam; ch’io soglio
quí favellargli.
Salv.   E dei tiranni stanza
anco talvolta non è questa?

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Raim.   Omai

starvi securo puoi: giá pria di terza
han mal compiuto quí lor pubblic’opra.
Del dí l’avanzo, essi in bagordi e in sozza
gioja il trarran, mentre piangiam noi volgo.
Perciò venire io quí ti feci; e il padre
pur v’invitai. Stupore avrá da pria
nel vederti: l’ardir, la rabbia poscia,
e l’immutabil fero alto proposto,
o di dar morte o di morir, ch’è in noi;
io ciò tutto dirogli: a me si aspetta
d’infiammarlo. Ma intanto, egli oda a un punto,
che può farsi, e che fatta è la congiura.
Salv. Ben ti avvisi: piú t’odo, e piú ti stimo
degno stromento a libertá. Tu nato
sei difensor, come oppressor son essi.
Fia di gran peso a indur Guglielmo il sacro
voler di Roma: in cor senil possenti
que’ pensier primi, che col latte ei bevve,
son vie piú sempre. Ognor dagli avi nostri
Roma creduta, a suo piacer nefande
nomò le imprese a lei dannose; e sante,
quai che si fosser, l’utili. Ci giovi,
se saggi siam, l’antico error: poich’oggi,
non com’ei suole, il successor di Piero
dei tiranni è nemico, oggi ne vaglia,
pria d’ogni altr’arme, il successor di Piero.
Raim. Duolmi, e il dico a te sol; non poco duolmi,
mezzo usar vile a generosa impresa.
La via sgombrar di libertá, col nome
di Roma, or stanza del piú rio servaggio:
eppur, colpa non mia, de’ tempi colpa!
Duolmi altresí, che alla comun vendetta
far velo io deggio di private offese.
Di basso sdegno il volgo crederammi
acceso; ed anco, invidíoso forse

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del poter dei tiranni. — O ciel, tu il sai...

Salv. Nulla il braccio ti arresti; in breve poscia
dalle nostr’opre tratto fia d’inganno
il volgo stolto.
Raim.   Ah! mi spaventa, ed empie
di fera doglia or l’avvenire! Al giogo
han fatto il callo: il natural lor dritto
posto in oblio, non san d’esser fra ceppi;
non che bramar di uscirne. Ai servi pare
da natura il servir; piú forza è d’uopo,
piú che a stringergli, a sciorli.
Salv.   Indi piú degna
fia l’impresa di te. Liberi spirti
tornare in Grecia a libertade, o in Roma,
laudevol era, e non difficil opra:
ma vili morti schiavi, a vita a un tempo
e a libertá tornar, ben fia codesto,
ben altro ardire.
Raim.   È vero: anco il tentarlo,
fama promette. Ah! cosí fossi io certo,
come del braccio e del cor mio, del core
de’ cittadini miei! ma, il sol tiranno
s’odia, e non la tirannide, dai servi.


SCENA SECONDA

Guglielmo, Salviati, Raimondo.

Gugl. Tu quí, Salviati? Io ti credea sul Tebro

tuttor mercando onori.
Salv.   Al suol natío
cura maggior mi torna.
Gugl.   E tu mal giungi
in suol, cui meglio è l’obliar. Qual folle
pensiero a noi ti guida? In salvo, lunge
dai tiranni ti stavi, e al carcer torni?

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Or, qual estranea mai lontana terra

(e selvaggia ed inospita pur sia)
increscer puote, a chi la propria vede
schiava di crude ed assolute voglie?
Ti sia esemplo il mio figlio, se omai dessi
da medícei signori attender altro,
che oltraggi e scorni. Invano, invan ti veste
Roma del sacro ministero: il solo
lor supremo volere è omai quí sacro.
Raim. Padre, e il sai tu, s’egli or quí venga armato
di sofferenza, o di men vile usbergo?
Salv. Vengo di fera e d’implacabil ira
aspro ministro: apportator di certa
vendetta intera, ancor che tarda, io vengo.
Dall’infame letargo, in cui sepolti
tutti giacete, o neghittosi schiavi,
spero destarvi, or che con me, col mio
furor, di Sisto il furor santo io reco.
Gugl. Arme inutile appieno: in noi non manca
il furor no; forza ne manca; e forza
or ci abbisogna, o sofferenza.
Salv.   E forza
ora abbiam noi, quanta piú mai se n’ebbe.
Io parole non reco. — Odi, che esporti
mi tocca in brevi e forti detti il tutto.
V’ha chi m’impon di ritornarti in mente,
ove tu possa rimembrarla ancora,
la tua prisca fierezza e i tempi antichi:
ove no; mi fia d’uopo addurti innanzi
l’altrui presente e in un la tua viltade.
S’entro alle vene tue sangue hai che basti
contr’essa, da noi lungi or non son l’armi:
giá d’Etruria alle porte ondeggia al vento
roman vessillo; e, assai piú saldo ajuto,
di Ferdinando la regal bandiera,
cui le migliaja di affilati brandi

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sieguon di pugna impazíenti, e presti

a imprender tutto a un lieve sol tuo cenno.
Ormai sta in te degli oppressor la vita,
il tuo onor, quel del figlio, e di noi tutti
la libertá. Ciò che ottener dal brando,
ciò che viltá toglier ti puote; i dubbi,
le speranze, i timori, e l’onte, e i danni,
tutto ben libra; e al fin risolvi.
Gugl.   Oh! quali
cose a me narri? Or fe poss’io prestarti?
Chi tanto ottenne a nostro pro? Finora
larghi soltanto di promesse vuote,
lenti amici ne fur Fernando e Sisto:
or chi li muove? chi?...
Raim.   Tu il chiedi? Hai posto
dunque in oblio tu giá, che al Tebro, e al lito
di Partenope fui? ch’io v’ebbi stanza
ben sette lune, e sette? Ove poss’io
portare il piè, che sdegno e rabbia sempre
meco non venga? Infra qual gente io trarre
posso i miei dí, ch’io non le infonda in petto
l’ira mia tutta; e in un di me, de’ miei
non le inspiri pietade? Omai, chi sordo
resta ai lamenti miei? — Per onta nostra,
tu sol rimani, o padre; ove dovresti
piú d’ogni altro sentir s’ei pesa il giogo:
tu, che a me padre, al par di me nimico
sei de’ tiranni; e da lor vilipeso
piú assai di me: tu cittadin fra’ buoni
ottimo giá; per lo tuo troppo e stolto
soffrire, omai tu pessimo fra’ rei.
Col tuo vile rifiuto, a noi perenni
fa i ceppi, e a te l’infamia; ognun ci scorga
ben di servir, ma non di viver, degni:
finché non sia piú tempo, aspetta tempo:
quei crin canuti a nuove ingiurie serba;

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e di falsa pietá per me, ch’io abborro,

la obbrobríosa tua temenza adombra.
Gugl. ... Figlio mio; tal ben sei; di te non meno
fervido d’ira e giovinezza, io pure
cosí tuonai; ma passò tempo; ed ora
non io son vil, né tu che il dici, il credi;
ma, piú non opro a caso.
Raim.   Ogni tuo giorno
tu vivi a caso; e tu non opri a caso?
Che sei? che siamo? Ogni piú dubbia spene
di vendetta, non fia cosa piú certa,
che il dubbio stato irrequíeto, in cui
viviam tremanti?
Gugl.   Il sai, per me non tremo...
Raim. Per me, vuoi dir? d’ogni paterna cura
per me ti assolvo. Or cittadini entrambi,
null’altro siamo: e a me piú a perder resta,
piú assai che a te. Di mia giornata appena
giungo al meriggio, e tu se’ giunto a sera:
hai figli, ed io son padre; e numerosa
prole ho pur troppo, e in quella etade appunto
atta a nulla per se, fuorché a pietate
destar nel core. Altri, ben altri or sono,
che i tuoi legami, i miei. Dolce consorte,
parte di me miglior, sempre piangente
trovomi al fianco: a me piú figli intorno
piangon, veggendo lagrimar la madre,
e il lor destin non sanno. Il pianger loro
il cor mi squarcia; e piango anch’io di furto... —
Ma, d’ogni dolce affetto il cor mi sgombra
tosto il pensar, che disconviensi a schiavo
l’amar cose non sue. Non mia la sposa,
non mia la prole, infin che l’aure io lascio
spirar di vita a qual ch’ei sia tiranno.
Legame altro per me non resta al mondo,
tranne il solenne inesorabil giuro,

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di estirpar la tirannide, e i tiranni.

Gugl. Due ne torrai: mancan tiranni a schiavi?
Raim. Manca ai liberi il ferro? Insorgan mille,
mille cadranno; od io cadrò.
Gugl.   Tuo forte
volere al mio fa forza. Io, non indegno
d’esserti padre, affiderei non poco
nel tuo nobile sdegno, ove di nostre,
non d’armi altrui ti avvalorassi. Io veggio
non per noi, no, Roma e Fernando armarsi;
ma de’ Medici a danno. In queste mura
li porrem noi; ma, e chi cacciarli poscia
di quí potrá? Di libertá non parmi
nunzia, d’un re la mercenaria gente.
Salv. Io ti rispondo a ciò. Del re la fede,
né di Roma la fede, io non ti adduco:
darla e sciorla a vicenda, è di chi regna
solito ufficio. Il lor comun sospetto,
lor reciproca invidia, e ciò che suolsi
ragion nomar di stato, oggi ti affidi.
Signoreggiar ben ne vorriano entrambi;
ma l’uno all’altro il vieta. In lor non entra
pietá di noi; né ciò diss’io: ma lunga
esperíenza, ad onta nostra, dotti
li fea, che il vario popolar governo,
e l’indiscreto parteggiar, ci fanno
piú fiacchi e lenti e inefficaci all’opre.
Teme ciascun di lor, che insorga un solo
tosco signor sulle rovine tosche,
che all’un di loro a contrastar poi basti,
s’ei fassi all’altro amico. Eccoti sciolto
il regio intrico: in lor vantaggio, amici
si fan di noi. S’altro motor v’avesse,
dirti oserei giammai, che in re ti affidi?
Raim. E s’altro fosse, al mio furor che in petto
serrai tanti anni, or credi tu, ch’io il freno

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allenterei sconsideratamente?

Infiammate parole a te pur dianzi
non mossi a caso; e a caso non mi udisti
vie piú inaspir co’ miei pungenti detti
contro di me i tiranni. A lungo io tacqui;
fin che giovò; ma l’imprudente altero
mio dir, che loro a ingiuríarmi ha spinto,
prudenza ell’era. Ai vili miei conservi
addotto invan comuni offese avrei;
sol le private, infra corrotti schiavi,
dritto all’offender danno. A mia vendetta
compagni io trovo, se di me sol parlo;
se della patria parlo, un sol non trovo:
quindi, (ahi silenzio obbrobríoso e duro,
ma necessario pure!) io non mi attento
nomarla mai. Ma, a te, che non sei volgo,
poss’io tacerla? Ah! no. — Metá dell’opra
sta in trucidare i due tiranni: incerta,
e maggior l’altra, nel rifar possente,
libera, intera, e di virtú capace
la oppressa cittá nostra. Or, ti par questa
alta congiura? Io ne son capo, io solo;
n’è parte ei solo; e tu, se il vuoi. Gran mezzi
abbiam, tu il vedi; e ancor piú ardir che mezzi:
sublime il fin, degno è di noi. Tu, padre,
di cotant’opra or tu minor saresti?
Dammi, dammi il tuo assenso; altro non manca.
Giá in alto stan gli ignudi ferri: accenna,
accenna sol: giá nei devoti petti
piombar li vedi, e a libertá dar via.
Gugl. ... Grande hai l’animo tu — Nobil vergogna,
maraviglia, furor, vendetta, speme,
tutto hai ridesto in me. Canuto senno,
viril virtude, giovenil bollore,
e che non hai? Tu a me maestro, e duce
e Nume or sei. — L’onor di tanta impresa

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tutto fia tuo: con te divider soli

ne vo’ i perigli. A compierla non manca,
che il mio nome, tu di’? tu il nome mio
spendi a tua posta omai: disponi, eleggi,
togli chi vuoi dai congiurati. Un ferro
serba al padre, e non piú: qual posto io deggia
tener, qual ferir colpo, il tutto poscia
m’insegnerai, quando fia presto il tutto.
In te, nell’ira tua dotta mi affido.
Raim. Ma, il punto,... assai, piú che nol credi,... è presso.
Giá tu pensier non cangi?
Gugl.   A te son padre:
il cangi tu?
Raim.   Dunque il tuo stile arruota,
che al nuovo dí... Ma chi mai viene? Oh! Bianca!
Sfuggiamla, amico. A ordir l’ultime fila
della gran tela andiamo. A te fra poco,
io riedo, padre, e il tutto allor saprai.


SCENA TERZA

Guglielmo, Bianca.

Bianca Raimondo io cerco; ed ei mi sfugge? O padre,

dimmi, e perché? con chi sen va? — Che veggio?
Tu fuor di te sei quasi? Or, qual t’ingombra
alto pensiero? oimè! parla: sovrasta
sventura forse?... A qual di noi?...
Gugl.   Se angoscia
grave mi siede sul pallido volto,
qual maraviglia? io tremo, e n’ho l’aspetto:
e chi non trema? Il mio squallore istesso,
se intorno miri, in ciascun volto è pinto.
Bianca Ma, di tremar qual cagion nuova?...
Gugl.   O figlia,
nuova non è.

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Bianca   Ma imperturbabil sempre

io finora ti vidi: or temi? e il dici?...
E il tuo figliuol, che impetuoso turbo
di víolenti discordanti affetti
era finor, sembianza or d’uom tranquillo
vestir gli veggio? Ei mi movea parole
poc’anzi, tutte pace: ei, per natura,
d’ogni indugiar nemico, egli dal tempo
dice aspettar sollievo: ed or mi sfugge
con uno ignoto? e tu, commosso resti?...
Ah! sí; pur troppo havvi un arcano:... e il celi,
a me tu il celi? Il padre mio, lo sposo
mi deludono a prova? Il ciel, deh! voglia...
Gugl. Dal pianto or cessa, e dai sospetti: è vano,
ch’io, paventando, a non temer ti esorti.
Temi, ma non di noi. — Ben disse il figlio,
che sol recarne può sollievo il tempo.
Torna ai figli frattanto: a noi piú grata
cosa non fai, che il custodir tuoi figli,
e ben amargli, e alla virtú nutrirli. —
Util consiglio, se da me nol sdegni,
fia, che tu sempre alto silenzio serbi,
ove il parlar non giovi... O Bianca avrai
tu il cor cosí di tutti noi: dei crudi
fratelli, a un tempo, schiverai tu l’ira.