La Città dell'Oro/7. La caccia al jacaré

7. La caccia al jacaré

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6. I mangiatori di terra 8. Le testuggini dell'Orenoco

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VII.

La caccia al «Jacaré».

Gli Ottomachi formano una vera nazione che occupa un vastissimo tratto delle sponde dell’Orenoco, cioè dalle foci dell’Apure a quelle del Cassanare, anzi si ritiene la più numerosa e la più formidabile. Essendo però divisa e suddivisa in un numero infinito di piccole tribù e non avendo alcun centro, è molto se ha potuto conservare il proprio territorio contro le invasioni delle altre nazioni.

Gli Ottomachi sono i più robusti di tutti i popoli che abitano le rive del grande fiume, di statura superiore agli altri e di forza non comune, ma il loro aspetto è malaticcio in causa dell’abuso del poya. Sono gli zingari di quelle regioni, poichè non hanno villaggi, non hanno alcuna cura nella fabbricazione delle loro [p. 96 modifica]capanne essendo di abitudini vagabonde, non coltivano nè le zucche nè il manioco come gli altri, contentandosi delle frutta che somministrano a loro gli alberi della foresta o dei prodotti della caccia e della pesca. Non hanno che una sola passione; quella di pitturarsi. Impiegano nella loro teletta delle giornate intere dipingendosi il corpo con colori svariati e perfino i capelli, ma quelle pitture, che richiedono delle ricerche pazienti per trovare le terre colorate, non le sfoggiano che nelle grandi occasioni. Nei giorni ordinari si limitano ad imbrattarsi il volto ed i capelli con ocra gialla o rossa o turchina.

Quantunque abbiano avuto frequenti contatti cogli uomini bianchi, sono selvaggi come nei primi giorni della scoperta dell’America e non hanno fatto il più lieve progresso.

Il loro vestiario, come quattrocento anni fa, si compone ancora d’un semplice sottanino di foglie intrecciate, il guayaco come lo chiamano loro, e le loro armi non hanno cambiato possedendo ancora le cerbottane, le mazze e qualche arpione per uccidere gli alligatori ed i lamantini.

Gli uomini che erano improvvisamente comparsi e che s’inseguivano gettando urla furiose, accapigliandosi, graffiandosi, picchiandosi coi pugni e coi piedi, [p. 97 modifica]parevano veramente ebbri, come aveva detto il dottore. Non si erano ancora accorti Il ferito si era inginocchiato stendendo il braccio sul tronco
di un albero abbattuto (pag. 101).
della presenza degli uomini bianchi, i quali avevano eseguita una prudente ritirata nella scialuppa, armando, per maggior precauzione, i fucili. [p. 98 modifica]

— Ma cosa fanno? — chiese Alonzo, che non li perdeva di vista.

— Si picchiano, come ben vedi, — rispose il dottore. — Sono ubriachi di niopo.

— Di rhum o di cascara, forse?

— No, è una polvere composta di foglie di mimosa e d’una calce estratta dalle conchiglie d’un mollusco molto comune su questo fiume.

— È una specie di tabacco adunque, — disse don Raffaele.

— Ha le stesse proprietà del tabacco, dell’oppio e del betel1 che masticano gl’Indocinesi ed i Malesi, ma l’abuso produce una strana malattia che rende litigiosi, battaglieri. Gli Ottomachi approfittano sempre di quella eccitazione per sfogare i loro rancori.

— Finchè si limitano ai pugni ed ai calci poco male, — disse Alonzo.

— Fanno di peggio, giovanotto, — disse il dottore. — Si bagnano le unghie, che usano portare lunghe, nel succo velenoso del curare, producendo ben sovente delle ferite mortali.

Gli Ottomachi intanto, sempre battagliando, erano [p. 99 modifica]giunti sulla sponda del fiume, a cinquanta passi dalla capanna. Erano tanto assorti nella loro lotta che non si erano ancora accorti degli spettatori.

Ad un tratto un di loro, impotente a far fronte all’avversario, cadde nel fiume su di un bassofondo. Subito si vide sollevarsi a lui d’intorno un nembo di spuma, apparire una testa mostruosa ed una coda armata di scaglie ossee, poi si udì un grido acuto, straziante.

L’indiano aveva risalita prontamente la sponda, ma metà del suo braccio sinistro era rimasta fra le mascelle d’un caimano che sonnecchiava sul bassofondo.

Quel caso inaspettato parve che facesse sfumare di colpo l’ebbrezza dei combattenti e che assopisse tutto d’un tratto i loro rancori.

Di comune accordo si erano slanciati verso il compagno, dal cui braccio mozzato sfuggiva, a rapide pulsazioni, un largo getto di sangue spumoso.

Yaruri ed i tre uomini bianchi avevano afferrato i remi e spinto la scialuppa verso la sponda per soccorrere il disgraziato, il quale minacciava di morire per la violenta emorragia.

— Vengo a guarirti, — disse il medico balzando rapidamente a terra e dirigendosi verso il mutilato.

Gli Ottomachi, vedendo quegli uomini sbarcare, non [p. 100 modifica]avevano tradita alcuna sorpresa. Si erano limitati a gettare uno sguardo più sulla scialuppa che ammiravano, che sui nuovi arrivati.

— Mostrami il tuo braccio, — disse Velasco, al mutilato. — Sono un piaye.2

— Dammi dell’aguardiente3 se ne hai, — rispose invece il ferito. — Mi farà meglio delle tue cure.

— Ma, disgraziato, tu morrai se non mi lasci fasciare la ferita.

Un sorriso sprezzante apparve sulle labbra dell’indiano, il quale pareva non provasse il menomo dolore, tanto è potente in loro la forza d’animo.

— Ne sappiamo più dei piaye degli uomini bianchi, — disse poi. — Ecco chi mi guarirà!

Un indiano, che era poco prima entrato nella foresta, ritornava armato di un coltello di recente arrotato e munito di parecchi oggetti involti in alcune grandi foglie.

— A te! — disse il mutilato, stendendo il braccio sanguinante.

— Lo rovinerà, — disse Alonzo. — Impeditegli di operare, dottore.

— Lasciamolo fare, giovanotto, — rispose Vela[p. 101 modifica]sco. — Vedrai che valenti operatori sono questi selvaggi.

Il ferito si era inginocchiato stendendo il braccio sul tronco di un albero abbattuto. La mutilazione era spaventevole: l’osso era stato sfracellato di colpo dalle formidabili mascelle del mostro e la carne presentava degli strappi come se quel povero braccio fosse stato dilaniato da un ingranaggio. Pure l’indiano conservava una calma impassibile, straordinaria; solamente un freddo sudore che bagnavagli la fronte, tradiva le sue atroci sofferenze.

L’operatore prese l’estremità di quel membro che emetteva di tratto in tratto dei getti di sangue, impugnò il coltello, recise nettamente l’osso, poi tagliò i brandelli di carne con una maestria ammirabile e senza che il ferito emettesse un solo gemito.

Livellata la mutilazione, prese un po’ di musco secco, lo bagnò copiosamente con un liquido che era racchiuso in una zucca, lo applicò sul moncherino, poi vi sovrappose uno strato di creta e fasciò il tutto con alcune foglie ed una liana.

Era tempo: lo sventurato, indebolito dalla perdita di sangue, si era lasciato cadere sull’erba, emettendo un profondo sospiro.

— Ecco fatto, — disse Velasco. [p. 102 modifica]

— Guarirà? — chiese Alonzo.

— Fra un mese la ferita sarà rimarginata.

— Ma che liquido ha versato sul musco?

— L’uenuba, la panacea indiana delle piaghe, un succo che ha la proprietà di essiccare prontamente le ferite.

In quell’istante il mutilato si era rialzato. Egli additò ai compagni il fiume dicendo:

— Il mio braccio è rimasto là.

— Lo ritroveremo, — risposero i suoi compagni.

— Mi occorre il cuore del caimano.

— Lo mangerai presto.

— Ed il mio braccio.

— Lo riavrai.

Ciò detto gli Ottomachi coricarono il loro compagno in un’amaca che avevan tesa fra i due rami, gli fecero bere una lunga sorsata di liquore estratto dalle radici del manioca fermentato, poi si diressero verso il fiume e si misero a scrutare le acque con profonda attenzione.

— Cosa fanno? — chiese Alonzo.

— Si preparano a vendicare il loro compagno, — rispose don Raffaele. — Fra poco uccideranno il caimano.

— Colle frecce?

— Lo prenderanno col laccio. Eccoli al lavoro. [p. 103 modifica]

Gli Ottomachi, dopo un breve consiglio, erano rientrati nella foresta nella quale dovevano sorgere le loro abitazioni. Dopo un quarto d’ora erano di ritorno con altri dieci compagni, tutti carichi di corti pali acuminati che accumularono sulla sponda. Ripartirono e tornarono con altri nè si arrestarono finchè non ne ebbero trasportati moltissimi.

Allora cominciarono a scendere sul bassofondo ed a piantarli formando un semicerchio, ma che aveva una stretta apertura verso il punto ove l’acqua era più profonda.

In quel passaggio tesero il laccio destinato al caimano, formato da un nodo scorsoio di fibre di tucum e d’un giovane albero fortemente piegato e tendente a riprendere la posizione verticale.

Terminato quel lavoro, compiuto in un tempo brevissimo, ritornarono verso la sponda, un solo eccettuato, il quale era rimasto nascosto nel recinto tenendo in braccio un piccolo pecari, una specie di cinghiale selvatico che puzza di muschio.

— Attento, Alonzo, — disse il dottore. — Fra poco il goloso caimano giungerà.

— Verrà a gettarsi stupidamente nel laccio.

— Il pecari è un boccone ghiotto. Odi?...

Il piccolo cinghiale aveva emesso un grido acuto. L’indiano che [p. 104 modifica]lo teneva in braccio, pizzicavagli fortemente gli orecchi per farlo urlare.

Il caimano però, messo forse in sospetto da quella cinta che poco prima non esisteva, si manteneva nascosto in fondo al fiume. La sua ingordigia però doveva vincere ben presto la sua diffidenza.

Infatti, udendo le urla sempre più acute del pecari, dopo dieci minuti si vide l’acqua rigonfiarsi dinanzi all’apertura del recinto. Il ghiottone giungeva, ma con mille precauzioni e tenendosi nascosto sott’acqua per non farsi scorgere.

Quelle grida che promettevano una preda appetitosa, esercitavano su di lui un fascino irresistibile.

Gl’indiani non fiatavano. Armati delle loro pesanti mazze, di qualche scure e di qualche arpione, attendevano il momento opportuno per scendere sul bassofondo. Don Raffaele ed i suoi compagni stavano pure zitti, ma avevano armato i fucili per aiutare gli Ottomachi nella pericolosa impresa.

Ad un tratto si scorse il muso del caimano presso la cinta. Il mostro esitò un istante ancora, poi si cacciò nella stretta apertura, ma non potendo passare, con urto violento spostò i primi pali. L’albero si rizzò improvvisamente facendo scattare il laccio ed il saurio, preso a mezzo corpo da quella robusta corda che gli [p. 105 modifica].... ed il saurio, preso a mezzo corpo da quella robusta corda.... [p. 107 modifica]si era stretta intorno, si sentì strappare dall’acqua e sollevare in alto.

Quale spettacolo offrì allora il mostro sospeso all’albero!... Era lungo cinque metri, aveva le mascelle armate di una doppia fila di denti formidabili, bianchi come l’avorio e triangolari, e una coda enorme, coperta di grosse scaglie rugose. Si dibatteva furiosamente facendo scricchiolare l’albero, sbarrava gli occhi sanguigni, ma che avevano dei lampi giallastri, demoliva i pali colla possente coda ed emetteva certi brontolii paragonabili al tuono udito in lontananza.

Gl’indiani si erano slanciati nel recinto mandando urla di trionfo ed agitando furiosamente le loro mazze, le scuri e gli arpioni, ma non osavano avvicinarsi al mostro che si dibatteva con crescente furore, minacciando di accopparli a colpi di coda.

— A noi, — disse don Raffaele, puntando il fucile.

Attesero che il caimano mostrasse loro il ventre, poi fecero fuoco simultaneamente. Il mostro fece un ultimo e più tremendo balzo, agitò furiosamente la coda per alcuni istanti, poi si distese, penzolando dall’albero come un appiccato.

Gli Ottomachi recisero la corda facendolo cadere sul bassofondo, lo trascinarono sulla sponda e lo sventrarono a colpi di scure, frugandogli nelle viscere. [p. 108 modifica]

Pochi istanti dopo un indiano offriva al povero mutilato, che era sempre disteso nella sua amaca, il suo pezzo di braccio che il caimano aveva inghiottito intero come fosse un semplice zuccherino.

— Dov’è il cuore? — chiese il ferito.

— Eccolo, — disse l’indiano porgendogli il cuore del mostro che ancora palpitava, tanto è potente la vitalità di quei saurii.

Un lampo di soddisfazione balenò negli occhi del ferito.

— Sono vendicato, — disse.

E lo addentò rabbiosamente, crudo come era, masticandolo con invidiabile appetito.


Note

  1. Foglie di un albero che cresce nell’Indocina e che si masticano mescolate a noci d’arecche e ad un po’ di calce.
  2. Medico.
  3. Acquavite.