L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo IV

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO IV.


In cammino verso la costa — Alcune frotte di quadrumani — Un nuovo corso d’acqua — Perchè il flusso non si fa più sentire — Una foresta pel litorale — Il promontorio del Rettile — Gedeone Spilett fa invidia ad Harbert — Lo strepito dei bambù.

Fu alle sei del mattino che i coloni, dopo la prima colazione, si riposero in cammino coll’intenzione di giungere per la via più breve alla costa occidentale dell’isola. In quanto tempo potevano giungervi? Cyrus Smith aveva detto in due ore; ma ciò dipendeva evidentemente dalla natura degli ostacoli che si presenterebbero. Quella parte del Far-West sembrava cir condata da boschi, come se fosse stato un unico bosco composto di essenze estremamente variate. Era dunque probabile che bisognasse aprirsi una strada attraverso le erbe, i cespugli, le liane, e camminare coll’accetta in mano e col fucile altresì — non v’era dubbio — stando alle grida di belve intese nella notte.

La posizione esatta dell’attendamento aveva potuto essere determinata dalla situazione del monte Franklin, e poichè il vulcano si rilevava nel nord ad una distanza di meno di tre miglia, non si trattava che di prendere una direzione rettilinea verso il sud-ovest per giungere alla costa occidentale.

Si partì dopo aver assicurato con gran cura l’ormeggio della piroga. Pencroff e Nab portavano provvigioni che dovevano bastare a nutrire il piccolo drappello per due giorni almeno. Non era più quistione di caccia, ed anzi l’ingegnere raccomandò ai compagni di evitare ogni sparo intempestivo, per non segnalare la loro presenza nei dintorni del litorale. I primi colpi di accetta furono dati nei cespugli in mezzo a [p. 39 modifica]macchie di lentischi un po’ al di sopra della cascata, e Cyrus colla bussola in mano indicò la via da seguire.

La foresta si componeva allora di alberi, la più parte dei quali erano già stati riconosciuti nei dintorni del lago e dell’altipiano di Lunga Vista. Erano deodars, douglas, casuarine, alberi di gomma, eucalyptus, dragoni, ibisci, cedri ed altre essenze generalmente di mezzana altezza, perchè il numero aveva nociuto allo sviluppo. I coloni non potevano adunque avanzarsi che lentamente su quella via che si aprivano nel camminare, e che l’ingegnere pensava dovesse più tardi collegarsi a quella del rivo Rosso.

Dopo la loro partenza, i coloni scendevano dalle balze che costituivano il sistema orografico dell’isola e sopra un terreno asciuttissimo, ma la cui lussureggiante vegetazione indicava la presenza d’una rete idrografica nell’interno del suolo ed il vicino corso di qualche fiume. Peraltro Cyrus Smith non si ricordava di avere, nella sua escursione al cratere, visto altro corso d’acqua oltre quelli del rivo Rosso e della Grazia.

Nelle prime ore dell’escursione apparvero nuove frotte di scimmie che sembravano dimostrare un vivo stupore alla vista di quegli uomini, il cui aspetto era nuovo per esse. Gedeone Spilett domandava scherzosamente se quegli agili e robusti quadrumani non li credessero fratelli degenerati. E schiettamente, semplici pedoni, ad ogni passo imbarazzati dai cespugli, trattenuti dalle liane e dai tronchi d’albero, non facevano certo bella figura a petto di quegli agili animali che balzavano di ramo in ramo e che nulla tratteneva nel loro cammino.

Quelle scimmie erano numerosissime, ma per fortuna non manifestarono alcuna disposizione ostile. Si videro poi alcuni cinghiali, alcuni agutis, dei kanguri, ed altri roditori, e due o tre koulas, ai [p. 40 modifica]quali Pencroff avrebbe volentieri mandato qualche carica di piombo.

— Ma, diceva egli, la caccia non è aperta; sgambettate adunque, amici miei, saltate e volate in pace, vi diremo due parole al ritorno.

Alle nove e mezzo del mattino la via, che volgevasi direttamente a sud-ovest, si trovò d’un tratto sbarrata da un corso d’acqua incognito, largo da trenta a quaranta piedi, e la cui viva corrente, cagionata dal pendío del suo letto e rotta da molte roccie, si precipitava brontolando. Quel rivo era profondo e limpido, ma sarebbe stato assolutamente disadatto alla navigazione.

— Eccoci arrestati! esclamò Nab.

— No, rispose Harbert, non è che un ruscello; sapremo ben passarlo a nuoto.

— A qual pro? rispose Cyrus Smith, È evidente che questo rivo corre al mare; rimaniamo alla riva sinistra, seguiamo l’argine, e vedrete che ci condurrà in poco d’ora alla costa. In cammino.

— Un istante, disse il reporter. E il nome di questo rivo, amici miei? Non lasciamo la nostra geografia incompleta.

— È giusto, disse Pencroff.

— Battezzalo tu, fanciullo mio, disse l’ingegnere volgendosi al giovinetto.

— Non è meglio aspettare che l’abbiamo riconosciuto fino alla foce? domandò Harbert.

— E sia, rispose Cyrus Smith; seguiamolo adunque senza arrestarci.

— Un istante ancora, disse Pencroff.

— Che c’è? domandò il reporter.

— Se la caccia è proibita, la pesca è permessa, immagino, disse il marinajo.

— Non abbiamo tempo da perdere, rispose l’ingegnere.

— Oh! cinque minuti, replicò Pencroff, non vi do[p. 41 modifica]mando che cinque minuti nell’interesse della nostra colazione.

E Pencroff, coricandosi sull’argine, tuffò il braccio nelle acque vive, e fece in breve saltare alcune dozzine di bei gamberi che formicolavano fra le roccie.

— Questo sarà buono! esclamò Nab, venendo in ajuto al marinajo.

— Ve lo dico io! eccettuato il tabacco, v’è di tutto in quest’isola, mormorò Pencroff con un sospiro.

In meno di cinque minuti si fece una pesca miracolosa, perchè i gamberi pullulavano nel rivo.

Di quei crostacei, il cui guscio aveva un colore azzurro cobalto e che portavano un rostro armato d’un picciol dente, fu riempiuto un sacco, poi si continuò la strada.

Dacchè seguivano il margine di quel nuovo corso d’acqua, i coloni camminavano più facilmente e più spediti. D’altra parte, le rive erano vergini d’ogni umana pedata. Ogni tanto si vedevano traccie lasciate d’animali di grossa statura che venivano abitualmente a dissetarsi in quel rigagnolo, ma nulla più.

E non era ancora in questa parte del Far-West che il pecari aveva ricevuto il pallino che a Pencroff era costato un molare.

Pur considerando quella rapida corrente che fuggiva verso il mare, Cyrus Smith fu tratto a supporre che i suoi compagni e lui fossero molto più lontani dalla costa occidentale di quanto credessero. Infatti, a quell’ora, la marea saliva sul litorale, ed avrebbe dovuto far piegare il corso del rivo, se la sua foce non fosse stata che a poche miglia. Ora ciò non avveniva, ed il filo dell’acqua seguiva il pendío naturale del letto. L’ingegnere dovette dunque essere molto stupito, e consultò di frequente la bussola, per accertarsi che il rivo, piegando, non lo riconducesse nell’interno del Far-West.

Pure il letto di quel rigagnolo s’allargava a poco [p. 42 modifica]a poco e le sue acque divenivano meno tumultuose. Gli alberi della riva destra erano vicini al pari di quelli della riva sinistra, nè la vista poteva spingersi al di là. Ma quelle masse boschive erano certo deserte, perchè Top non abbajava, e l’intelligente animale non avrebbe tralasciato di segnalare la presenza d’uno straniero in vicinanza del corso d’acqua.

Alle dieci e mezzo, con gran maraviglia di Cyrus Smith, Harbert, che s’era spinto un po’ innanzi, s’arrestò d’un tratto, ed esclamò:

— Il mare!

E pochi momenti dopo i coloni, fermi sul lembo della foresta, vedevano la spiaggia occidentale dell’isola svolgersi sotto i loro occhi.

Ma quale contrasto fra questa costa e quella dell’est, su cui il caso li aveva a bella prima gettati! Non più muraglie di granito, non uno scoglio al largo, e nemmeno un greto di sabbia. La foresta formava il litorale ed i suoi ultimi alberi, battuti dalle onde, si piegavano sulle acque. Non era già un litorale, come suole farli la natura, sia stendendo vasti tappeti di sabbia, sia raggruppando le roccie, ma una maravigliosa orlatura fatta de’ più begli alberi del mondo.

L’argine era sollevato in guisa da dominare il livello delle più alte maree, e su tutto quel suolo lussureggiante sopportato da una base di granito, le splendide essenze forestiere parevano essere così saldamente piantate, come quelle che si vedevano nell’interno dell’isola.

I coloni si trovavano allora nel vano di un piccolo seno senza importanza, che non sarebbe bastato a seno contenere neanche due o tre barche da pesca; ma, curiosa disposizione, le sue acque, invece di gettarsi nel mare per una foce a dolce pendío, cadevano da un’altezza di oltre quaranta piedi: il che spiegava perchè l’alta marea non si era fatta sentire a monte del rivo. In fatti, le maree del Pacifico, anche nella [p. 43 modifica]massima elevazione, non dovevano mai giungere al livello del fiume, il cui letto formava come una gora superiore; e senza dubbio dovevano passare milioni di anni innanzi che le acque avessero rôso quell’in graticolato di granito e scavato una foce praticabile. Laonde, di comune accordo, fu dato a quel corso d’acqua il nome di rivo della Cascata.

Al di là, verso il nord, il lembo della foresta si prolungava per uno spazio di due miglia circa, poi gli alberi si facevano radi, e, più oltre, pittoresche alture si disegnavano seguendo una linea quasi dritta che correva da nord a sud. Al contrario, in tutta la parte del litorale compresa fra il rivo della Cascata, ed il promontorio del Rettile, non erano che masse boschive, alberi magnifici, dritti gli uni, curvi gli altri, di cui la lunga ondulazione del mare veniva a bagnare le radici. Ora gli era da quella parte, vale a dire su tutta la penisola Serpentina, che doveva essere continuata l’esplorazione, poichè quella parte del litorale offriva rifugi che l’altra, arida e selvaggia, avrebbe evidentemente negato ai naufraghi, qualunque si fossero.

Il tempo era bello e limpido, e dall’alto d’un dirupo, su cui Nab e Pencroff preparavano la colazione, lo sguardo poteva estendersi lontanamente. L’orizzonte era limpidissimo, non si vedeva alcuna vela in alto mare. In tutto il litorale, non una nave, nè un rottame. Ma l’ingegnere non doveva sentirsi rassicurato in questo proposito, se non quando avesse esplorato la costa sino all’estremità della penisola Serpentina.

La colazione fu fatta alla lesta, ed alle undici e mezzo Cyrus Smith diede il segnale della partenza. Invece di percorrere sia la cresta del dirupo, sia un greto di sabbia, i coloni dovettero seguire gli alberi in maniera da rasentare il litorale.

La distanza che separava la foce del rivo della [p. 44 modifica]Cascata dal promontorio del Rettile era di circa dodici miglia. In quattr’ore, sopra un greto praticabile, e senza affrettarsi, i coloni avrebbero potuto percorrere quella distanza; ma dovettero spendere il doppio di questo tempo, perchè gli alberi di cui si doveva fare il giro, i cespugli che bisognava tagliare e le liane da recidere, li trattenevano di continuo, allungando con moltiplicate giravolte la strada.

Del rimanente, non vi era nulla che testimoniasse un recente naufragio in quel litorale. Vero è, come fece osservare Gedeone Spilett, che il mare avea potuto trascinare ogni cosa al largo e che non bisognava argomentare, dal non trovarvi più alcuna traccia, che una nave non fosse stata battuta a costa in quella parte dell’isola.

Il ragionamento del reporter era giusto, senza dire che l’incidente del grano di piombo provava in maniera incontrastabile che da tre mesi al più era stata sparata una schioppettata nell’isola.

Erano già le cinque, e l’estremità della penisola Serpentina si trovava ancora a due miglia dal luogo in cui erano i coloni. Diveniva evidente che, giunti al promontorio del Rettile, Cyrus Smith ed i suoi compagni non avrebbero più il tempo di ritornare prima del cadere del sole all’attendamento stabilito presso le sorgenti della Grazia. Da ciò, necessità di passare la notte nel promontorio medesimo. Non mancavano le provviste, e fu fortuna, perchè non si vedeva più alcuna selvaggina da pelo. Al contrario, gli uccelli vi formicolavano: jacamar, curucù, tragopan, tetraoni, lori, parrocchetti, pappagalli, fagiani, colombi e cento altri. Non un albero che non avesse un nido, non un nido che non fosse pieno di battiti d’ali.

Verso le sette pomeridiane, i coloni, sfiniti dalla stanchezza, arrivarono sul promontorio del Rettile, specie di voluta bizzarramente frastagliata sul mare. [p. 45 modifica]Qui finiva la foresta rivierasca della penisola, ed il litorale, in tutta la parte sud, ripigliava l’aspetto consueto di una costa, colle sue roccie, le sue scogliere ed i suoi greti. Era dunque possibile che una nave disalberata si fosse arenata su quella parte dell’isola; ma veniva la notte, e bisognava differire l’esplorazione al domani.

Pencroft ed Harbert s’affrettarono subito a cercare un luogo acconcio a stabilirvi un accampamento; gli ultimi alberi del Far-West venivano a morire in quella parte, e fra essi il giovinetto riconobbe fitti gruppi di bambù.

— Buono! diss’egli; ecco una scoperta preziosa.

— Preziosa? domandò Pencroff.

— Senza dubbio, rispose Harbert. Non ti dirò già, Pencroff, che la corteccia del bambù, tagliata in striscie flessibili, serve a far panieri e cestelli; che questa corteccia, ridotta in pasta e macerata, serve a fabbricare la carta della China; che i rami forniscono, secondo la loro grossezza, bastoni, cannette da pipa, canali per le acque; che i gran bambù formano eccellente materiale da costruzione leggiero e robusto e non mai attaccato dagli insetti; non aggiungerò nemmeno che segando i nodi dei bambù e conservando per fondo una porzione di tramezzo trasversale che forma il nodo, si ottengono vasi solidi e comodi che sono in grande uso presso i Chinesi! No! tutto codesto non ti accontenterebbe; ma....

— Ma?....

— Ma ti apprenderò, se lo ignori, che nell’India si mangiano questi bambù come asparagi.

— Asparagi di trenta piedi! esclamò il marinajo; e sono saporiti?

— Eccellenti, rispose Harbert; solo non sono i rami di trenta piedi che si mangiano, ma i germogli teneri.

— Benissimo, fanciullo mio, benissimo! rispose Pencroff. [p. 46 modifica]

— Aggiungerò pure che il midollo dei nuovi rami, messo nell’aceto, forma un condimento molto stimato.

— Di bene in meglio, Harbert!

— Ed infine che questi bambù trasudano fra i loro nodi un liquore zuccherino, di cui si può fare un’eccellente bevanda.

— Nient’altro? domandò il marinajo.

— Nient’altro.

— Non si fumano i bambù, per caso?

— No, non si fumano, povero Pencroff!

Harbert ed il marinajo non ebbero a cercare un pezzo un luogo acconcio a passarvi la notte. Le roccie della spiaggia — molto divise, perchè dovevano essere battute con impeto dal mare durante i venti di sud-ovest — offrivano dei vani che dovevano permettere loro di dormire al riparo dalle intemperie. Ma mentre si accingevano a penetrare in uno di quei cavi, formidabili ruggiti li trattennero.

— Indietro! esclamò Pencroff, non abbiamo che pallini nei fucili, ed animali che ruggiscono a questo modo se ne befferebbero.

Il marinajo, afferrando Harbert per il braccio, lo trasse al riparo delle roccie, nel momento in cui un mostrava all’ingresso della ca magnifico animale verna.

Era un jaguaro, grosso almeno come i suoi congeneri d’Asia, vale a dire lungo ben cinque piedi dall’estremità della testa alla radice della coda. Il suo pelame fulvo era rilevato da molte file di macchie nere e spiccava sul pelo bianco del ventre. Harbert riconobbe il feroce rivale della tigre, ben più formidabile del coguaro, il quale non è che il rivale del lupo.

Lo jaguaro s’avanzò, si guardò intorno col pelo irto e l’occhio acceso, come se non fosse la prima volta che fiutasse l’uomo.

In quella il reporter faceva il giro delle alte roc[p. 47 modifica]cie, ed Harbert, immaginando che egli non avesse scorto lo jaguaro, stava per slanciarglisi incontro; ma Gedeone Spilett gli fe’ un cenno della mano e continuò a camminare. Non era quella la prima tigre con cui egli avesse da fare, ed avanzandosi fino a dieci passi dall’animale, stette immobile colla cara bina spianata; nè un muscolo gli si contrasse.

Lo jaguaro, dopo essersi come ripiegato sopra sè stesso, si fece addosso al cacciatore; ma mentr’esso dava il balzo, una palla lo colpì fra i due occhi e lo fece cadere morto.

Harbert e Pencroff si precipitarono verso lo jaguaro.

Nab e Cyrus Smith accorsero, dal canto loro, e stettero alcuni istanti a contemplare l’animale disteso a terra; la cui magnifica pelle doveva formar l’ornamento della gran sala del Palazzo di Granito.

— Ah, signor Spilett, quanto v’ammiro e v’invidio! esclamò Harbert in un impeto d’entusiasmo molto naturale.

— Oibò, fanciullo mio, rispose il reporter, tu avresti fatto altrettanto.

— Io tanta freddezza d’animo?

— Immaginati, Harbert, che un jaguaro sia una lepre e tu gli spari contro con la massima tranquillità.

— To’, disse Pencroff, è semplicissimo infatti.

— Ed ora, disse Gedeone Spilett, posto che lo jaguaro ha lasciato il suo ricovero, non vedo perchè non dovremmo occuparlo per questa notte.

— Ma ne possono venir altri, disse Poncroft.

— Basterà accendere un fuoco all’ingresso della caverna, disse il reporter, e non si arrischieranno a passarne la soglia.

— Alla casa degli jaguari adunque, rispose il marinajo tirandosi dietro il cadavere dell’animale.

I coloni si diressero verso il ricovero abbandonato, e colà, mentre Nab scuojava lo jaguaro, i suoi compagni ammucchiarono sul limitare una gran quan[p. 48 modifica]tità di legna secca portata in abbondanza dalla foresta.

Ma avendo Cyrus Smith visto il gruppo dei bambù, andò a reciderne un certo numero, che aggiunse al combustibile del focolare.

Ciò fatto, tutti s’accomodarono nella grotta, la cui sabbia era sparsa di ossami. Furono caricate le armi per l’occorrenza d’un’improvvisa aggressione; si cenò, e poi, giunto il momento di riposare, fu dato il fuoco alla catasta di legna ch’era all’ingresso della caverna.

Subito cominciò un crepitio continuato; erano i bambù che scoppiettavano come fuochi d’artificio. Quel rumore avrebbe bastato a spaventare le belve più audaci.

E codesto mezzo di produrre delle forti detonazioni non lo aveva già inventato l’ingegnere, poichè, stando a Marco Polo, i Tartari da molti secoli se ne servono per allontanare dai loro accampamenti le belve formidabili dell’Asia Centrale.