L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo V

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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[p. 42 modifica] [p. 43 modifica]superiore. Fu lasciato un solo condotto stretto e sinuoso che s’apriva sulla parte laterale affine di condurre il fumo al di fuori e di assicurare il buon andamento del focolare. A questo modo i Camini si trovavano chiusi in tre o quattro camere, se pure si può dar codesto nome a tenebrose caverne, di cui una belva si sarebbe appena accontentata. Ma vi si stava all’asciutto ed in piedi, almeno nella principal camera che occupava il centro. Una sabbia fina ne copriva il suolo, ed in fin dei conti si poteva accomodarvisi aspettando di meglio.

Nel mentre attendevano al lavoro, Harbert e Pencroff cianciavano.

— Forse, diceva Harbert, i nostri compagni avranno trovato un ricovero migliore del nostro.

— È possibile, rispondeva il marinajo, ma nel dubbio non astenerti. Val meglio una corda di più al proprio arco che un arco senza corda.

— Ah, ripeteva Harbert, riconducano essi il signor Smith, lo ritrovino, e non avremo più che a ringraziare il Cielo!

— Sì, mormorava Pencroff, quello era un uomo!

— Era...disse Harbert; disperi tu forse di rivederlo?

— Dio me ne guardi, rispose il marinajo.

Il lavoro di adattamento fu presto compito, e Pencroff se ne dichiarò soddisfattissimo.

— Ora, diss’egli, i nostri amici possono ritornare. Essi troveranno un ricovero sufficiente.

Rimaneva a preparare il focolare ed il pasto, semplice e facile bisogna in verità. In fondo al primo corridojo di mancina furon collocate larghe pietre liscie all’orifizio dello stretto condotto ch’era stato riservato. Il calore che il fumo non trarrebbe al di fuori dovea bastare evidentemente a mantenere una temperatura tiepida all’interno. La provvista di legna fu ammucchiata in una delle camere, ed il marinajo collocò sui sassi del focolare alcuni ceppi misti a legna [p. 44 modifica]minuta. Il marinajo attendeva a tale lavoro, quando Harbert gli domandò se avesse zolfanelli.

Certo, rispose Pencroff, e per buona fortuna, poichè senza zolfanelli od esca saremmo in grande imbarazzo.

— Potremmo peraltro far del fuoco come i selvaggi, rispose Harbert, strofinando due pezzi di legna secca l’un contro l’altro.

— Ebbene, provatevi, fanciullo mio, e vedremo se riescirete ad altro che a rompervi le braccia.

— Pure è un processo semplicissimo e molto in uso nelle isole del Pacifico.

— Non dico di no, rispose Pencroff, ma bisogna credere che i selvaggi conoscano la maniera, o che essi adoperino un legno speciale, perchè già più volte volli procurarmi del fuoco a questo modo e non vi riuscii mai. Dove sono i miei zolfanelli?

Pencroff cercò nella sua veste la scatola che non lasciava mai, essendo egli un fumatore accanito, ma non la trovò. Frugò nelle tasche dei calzoni e con suo stupore non la rinvenne.

— Ecco un contrasto spiacevole, disse egli guardando Harbert, la scatola mi sarà caduta di tasca e l’avrò perduta. Ma voi, Harbert, non avreste un zolfanello o qualcos’altro che possa servire a far fuoco?

— No, Pencroff.

Il marinajo uscì seguito dal giovinotto, e grattandosi la fronte vivamente. Sulla sabbia, nelle roccie, presso il margine della riviera, entrambi cercarono colla massima cura, ma invano. La scatola era di rame e non sarebbe sfuggita ai loro sguardi.

— Pencroff, domandò Harbert, perchè hai gettato la scatola fuori della navicella?

— Me ne sono guardato bene, rispose il marinajo; ma quando si fu scrollati, come noi fummo, un così piccolo oggetto può essere scomparso. Anche la mia [p. 45 modifica]pipa mi ha lasciato. Scatola indemoniata, dove diancine può essere?

— Ebbene, il mare si ritira, disse Harbert, corriamo là dove abbiamo approdato.

Era poco probabile che si ritrovasse quella scatola che le onde avean dovuto trascinare in mezzo ai ciottoli durante l’alta marea. Ma era bene tener conto di quest’occasione. Laonde Harbert e Pencroff si diressero rapidamente verso il punto in cui alla vigilia aveano approdato a dugento passi circa dai Camini. Colà, in mezzo ai ciottoli, nel cavo delle roccie, furon fatte ricerche minuziose con risultato nullo. Se la scatola era caduta in quel luogo avea dovuto essere trascinata dalle onde. Man mano che il mare si ritraeva, il marinajo frugava in tutti gli interstizî delle roccie, senza trovar nulla. Era una perdita grave in questa occasione e, pel momento, irreparabile. Pencroff non nascose quanto ciò lo contrariasse. Corrugava la fronte e non diceva una parola. Harbert volle consolarlo facendogli osservare che assai probabilmente i zolfanelli erano stati bagnati dall’acqua marina, e che, anche ritrovandoli, sarebbe impossibile servirsene.

— Ma no, fanciullo mio, rispose il marinajo, erano in una scatola di rame che chiudeva bene. Ed ora, come fare?

— Troveremo certamente mezzo di procurarci del fuoco; il signor Smith ed il signor Spilett non saranno già sprovveduti al par di noi.

— Sì, rispose Pencroff, ma frattanto siamo senza fuoco ed i nostri compagni al loro ritorno non troveranno che un pasto melanconico.

— Non è possibile, disse vivacemente Harbert, che essi non abbiano nè esca, nè zolfanelli.

— Ne dubito, rispose il marinajo crollando il capo. Prima di tutto, Nab ed il signor Smith non fumano, ed io temo molto che il signor Spilett non abbia [p. 46 modifica]conservato meglio il suo taccuino che la scatola dei zolfanelli.

Harbert non rispose; la perdita della scatola era evidentemente un fatto spiacevole. Pure il giovinetto faceva conto che si potesse procurare fuoco in una maniera o nell’altra. Pencroff, più esperimentato, e sebbene non fosse uomo da imbarazzarsi per poco, nè per molto, non pensava allo stesso modo. In ogni caso non rimaneva che un partito da prendere: aspettare il ritorno di Nab e del reporter. Ma bisognava rinunziare al pasto di uova sode che egli voleva preparar loro, e la dieta di carne cruda non gli pareva, nè per sè nè per i suoi compagni, prospettiva piacevole.

Prima di ritornare ai Camini, il marinajo ed Harbert, per il caso che il fuoco venisse loro a mancare definitivamente, fecero una nuova raccolta di litodomi e ripresero in silenzio la via della loro dimora.

Pencroff, cogli occhi fissi a terra, cercava sempre la sua scatola irreperibile. Egli risalì perfino la riva sinistra della riviera dalla foce fino all’angolo in cui la zattera di legno era stata ormeggiata. Tornò sulla spianata superiore, la percorse in tutti i versi, cercò nelle alte erbe sul lembo della foresta: tutto invano. Erano le cinque pomeridiane quando Harbert ed egli rientrarono nei Camini. E inutile dire che i corridoj furono frugati nei cantucci più buj e che bisognò rinunziarvi assolutamente.

Verso le sei, al momento in cui il sole spariva dietro le alte terre dell’ovest, Harbert, che andava e veniva sulla spiaggia, segnalò il ritorno di Nab e di Gedeone Spilett. Tornavano soli!

Il giovinetto provò un inesprimibile stringimento di cuore. Il marinajo non s’era ingannato nei suoi presentimenti: l’ingegnere Cyrus Smith non si era potuto trovare.

Il reporter, appena giunto, sedette sopra un ma[p. 47 modifica]cigno senza dir verbo; sfinito dalla stanchezza, affamato, non avea forza di pronunciare una parola. Quanto a Nab, i suoi occhi rossi provavano quanto egli avesse pianto, e nuove lagrime, che non potè trattenere, dissero troppo chiaro com’egli avesse perduto ogni speranza. Il reporter fece il racconto delle ricerche fatte per ritrovare Cyrus Smith. Nab ed egli avevano percorso la costa per uno spazio di oltre otto miglia, e per conseguenza molto al di là del punto in cui era avvenuta la penultima caduta del pallone, caduta ch’era stata seguíta dalla scomparsa dell’ingegnere e Top. La spiaggia era deserta, nessuna traccia, nessuna impronta. Non un ciottolo rimosso di recente, non un indizio sulla sabbia, non una pedata umana su tutta quella parte del litorale; era evidente che nessun abitante frequentava quella porzione della costa.

Il mare era esso pure deserto al par della spiaggia, ed era là, a poche centinaja di piedi dalla costa che l’ingegnere avea trovato la propria tomba.

In quella Nab si levò con voce che dinotava quanto i sentimenti di speranza resistessero in lui, ed esclamò:

– No, egli non è morto! no, codesto non può essere! Eh via! qualsiasi altro è possibile, ma egli è uomo da cavarsela sempre.

Poi, abbandonato dalle forze, mormorò:

— Ah non ne posso più.

Harbert corse a lui.

— Nab, disse il giovinetto, lo ritroveremo! Dio ce lo renderà! Ma frattanto voi avete fame; mangiate, mangiate qualche cosa, ve ne prego.

E così dicendo offriva al povero negro alcune manate di conchiglie, magro ed insufficiente nutrimento.

Nab non aveva mangiato da molte ore, pure rifiutò; privo del suo padrone, non poteva nè voleva più vivere.

Quanto a Gedeone Spilett, egli divorò quei molluschi, poi si coricò sulla sabbia a’ piedi d’una roccia, [p. 48 modifica]sfinito di forze ma tranquillo. Allora Harbert gli si accostò e, prendendolo per mano, disse:

— Signore, abbiamo scoperto un ricovero dove starete meglio che qui; scende la notte; venite a riposarvi, e domani vedremo....

Il reporter si levò, e seguíto dal giovinetto si diresse verso i Camini.

In quella Pencroff gli si mostrò, e coll’accento più naturale gli domandò se per caso avesse indosso un zolfanello.

Il reporter si fermò, cercò nelle tasche, non ne trovò, e disse:

— Ne avevo, ma ho dovuto gettare ogni cosa.

Il marinajo chiamò allora Nab, gli fece la medesima domanda e ne ricevette la stessa risposta.

— Maledizione! esclamò Pencroff non potendo trattenere questa parola.

Il reporter l’intese, e movendogli incontro, domandò:

— Non abbiamo zolfanelli?

— Nemmeno uno, e per conseguenza non abbiamo fuoco.

— Ah, se fosse qui il mio padrone, disse Nab, saprebbe pur farlo!

I quattro naufraghi rimasero immobili e si guardarono in volto non senza inquietudine. Fu Harbert che per il primo ruppe il silenzio, dicendo:

— Signor Spilett, voi siete fumatore, voi avete sempre dei zolfanelli in dosso, può essere che non abbiate cercato bene; cercate ancora, un zolfanello ci basterebbe.

Il reporter frugò di nuovo nelle tasche dei calzoni, del panciotto, del pastrano, ed in fine con gran gioja di Pencroff e con sua propria meraviglia sentì un pezzetto di legno attraverso la stoffa, ma non potevano levarlo. Siccome dovea essere un zolfanello, ed uno solo, si trattava di non guastare la capocchia di fosforo. [p. 49 modifica]

— Volete lasciar fare a me? disse il giovanetto.

E con molta destrezza, senza spezzarlo, gli riuscì a trar fuori quel pezzetto di legno, miserabile e prezioso fuscello, che pei disgraziati avea tanto valore. Era intatto.

— Un zolfanello! esclamò Pencroff; gli è come se ne avessimo un carico intero!

Prese lo zolfanello e, seguíto dai compagni, tornò ai Camini.

Quel fascello di legno di cui nei paesi abitati si fa scialacquo con tanta indifferenza, ed il cui valore è nullo, doveva qui essere adoperato con estrema cautela. Il marinajo s’assicurò che fosse ben asciutto, e, ciò fatto, disse:

— Bisognerebbe aver della carta.

— Eccone, rispose Gedeone Spilett lacerando, dopo breve esitazione, un foglio del suo taccuino.

Pencroff prese il pezzo di carta che gli veniva porto e si accoccolò dinanzi al focolare, dove collocò sotto le fascine alcune manate d’erbe, di foglie e di muschi secchi, in maniera che l’aria vi potesse circolare agevolmente ed infiammar subito la legna.

Allora piegò il pezzo di carta in forma di tubetto, come fanno i fumatori di pipa quando tira vento, e l’introdusse fra i muschi; prendendo poi un ciottolo lievemente scabro, l’asciugò con cura, e non senza che il cuore gli battesse strofinò dolcemente il zolfanello, trattenendo il respiro.

Il primo sfregamento non produsse alcun effetto. Pencroff non aveva premuto abbastanza, temendo di staccare la capocchia di fosforo.

— Non posso, diss’egli, mi trema la mano... sono certo che il zolfanello mancherà; non posso e non voglio...; e risollevandosi incaricò Harbert di sostituirlo.

Certo il giovinetto non era stato mai in sua vita tanto impressionato. Il cuore gli batteva forte. Pro[p. 50 modifica]meteo, all’atto di rapire il fuoco dal cielo, non doveva essere più commosso! Pur non esitò e strofinò rapidamente lo zolfanello; s’udì un lieve scoppiettío ed una fiammella azzurrognola spiccò mandando un fumo acre. Harbert capovolse dolcemente lo zolfanello per alimentare la fiamma, poi la cacciò nel tubetto di carta, che in pochi secondi s’infiammò e comunicò il fuoco ai muschi.

Alcuni istanti dopo la legna secca scoppiettava, ed un’allegra fiamma, attivata dal robusto soffio del marinajo, si svolgeva in mezzo all’oscurità.

— Finalmente! esclamò Pencroff risollevandosi, io non fui mai commosso tanto in vita mia.

Certo è che quel fuoco andava benissimo sul focolare di pietra liscia; il fumo usciva facilmente per lo stretto condotto, il camino tirava e non tardò a spargere un piacevole calore.

Or bisognava guardare a non lasciar spegnere il fuoco ed a conservare sempre qualche bragia sotto la cenere; non dipendeva se non da cura e da attenzione, poichè non mancava la legna e la provvista potrebbe sempre essere rinnovata in tempo utile.

Pencroff pensò a bella prima di trar partito del focolare, preparando una cena più nutriente che non fosse un piatto di litodomi. Due dozzine d’uova furon provvedute da Harbert. Il reporter, addossato ad un canto della parete, guardava quei preparativi senza dir parola. Un triplice pensiero occupava il suo spirito: “Cyrus vive egli ancora? Se vive, dove può essere? Se ha sopravvissuto alla caduta, come spie gare che non abbia trovato modo di far conoscere la sua esistenza?” Quanto a Nab, egli gironzava sulla spiaggia; non era più che un corpo senz’anima.

Pencroff, che conosceva cinquantadue maniere di cucinare le uova, non aveva ora la scelta e dovette accontentarsi di cacciarle nella cenere calda e di lasciarvele cuocere a fuoco lento. [p. 51 modifica]

In pochi minuti furono cotte appuntino, ed il marinajo invitò il reporter a prender la sua porzione di cena. Tale fu il primo pasto dei naufraghi su quella incognita costa. Le uova sode erano eccellenti, e siccome l’uovo contiene tutti gli elementi indispensabili al nutrimento dell’uomo, i disgraziati se ne trovarono benissimo e si sentirono riconfortati.

Ah! se uno di essi non fosse mancato a quella cena! Se i cinque prigionieri evasi da Richmond fossero stati tutti là, sotto quelle roccie ammonticchiate, innanzi a quel fuoco scoppiettante, su quella sabbia asciutta, forse non avrebbero fatto che ringraziare il cielo! Ma il più ingegnoso, il più dotto, colui che era il loro capo legittimo, Cyrus Smith, ohimè! mancava, ed il suo corpo non avea neanco potuto ottenere una sepoltura.

Così passò la giornata del 25 marzo. Era scesa la notte. S’udiva al difuori fischiare il vento e la risacca battere monotona la costa. I ciottoli, sospinti ed aggitati dalle ondate, facevano un frastuono assordante.

Il reporter si era ritirato in fondo ad un oscuro corridojo, dopo di aver sommariamente notato gl’incidenti di quel giorno; la prima apparizione della nuova terra, la scomparsa dell’ingegnere, l’esplorazione della costa, l’incidente dei zolfanelli, ecc. La stanchezza gli procacciò in fine un po’ di riposo nel sonno.

Quanto ad Harbert s’addormento subito; il marinajo, vegliando d’un occhio, passò la notte accanto al focolare, e non risparmiò il combustibile.

Uno solo dei naufraghi non riposò nei Camini, e fu l’inconsolabile, il disperato Nab, il quale tutta notte, e malgrado ciò che gli dissero i compagni per indurlo a riposarsi, vagò sulla spiaggia chiamando il suo padrone!