L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/II. Carteggio/XLIX. A Francesco Saverio Eslevan

II. Carteggio - XLIX. A Francesco Saverio Eslevan

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XLIX

A FRANCESCO SAVERIO ESTEVAN

Contro il cartesianismo e il metodo degli studi ai suoi giorni, e circa le cagioni della poca fortuna della Scienza nuova.

La vostra luminosa maniera di pensare, gentilissimo mio signor don Francesco, in veritá mi sorprende, e ’1 saper generoso (che, se generoso non è, egli non è vero sapere) m’inalza sopra di me medesimo e con una civiltá socratica m’addottrina e mi emenda. Voi mi fate accorto d’aver io nell’orazion funerale d’Angiola Cimini marchesana della Petrella toccato quel segno al quale credeva d’essermi soltanto sforzato d’indrizzare lo stile; e mi scovrite la scienza di ciò che io per un certo senso, diritto per avventura, fatto mi aveva. In cotal guisa m’illuminate. Dipoi stimate da piú si fatta orazioncina che non sono l’altre opere del mio deboi ingegno, anco la Scienza nuova] di che io aveva certamente oppenione affatto contraria. Ma, se cotal componimento fosse stato egli dettato da una vera eloquenza, la ragione senza dubbio starebbe dalla parte del vostro giudizio; perché la vera eloquenza è la sapienza che parla, e la sapienza è l’aggregato di tutte le virtú e della mente e del cuore, onde naturalmente escono da se stesse e le piu belle e le piu grandi virtú della lingua-, le quali tre spezie di virtú compiono il vero uomo, che tutto è mente illuminata, cuor diritto e lingua fedel interpetre d’amendue. Ed in vero innumerabili sono stati gli scienziati uomini autori di grandissime discoverte; ma due soli al mondo furono i perfetti oratori, Demostene e Cicerone, con la cui eloquenza visse e, quelli morti, mori la libertá d’Atene, la piu ingentilita e la piú dotta, e di Roma, la piú luminosa e piú grande cittá del mondo. Cosi voi mi emendate.

Desiderate quinci sapere come cotal orazione è stata ricevuta dal comune de’ letterati napoletani e se n’abbiano sparlato, come han fatto d’altre opere mie e sopra tutte della Scienza nuova. Io, in veritá, non so darvene contezza alcuna, perché non [p. 213 modifica]

ho curato di saper ciò ch’essi n’abbiano detto. So bene che ’1 comune degli uomini è tutto memoria e fantasia; e perciò hanno sparlato tanto della Nuova scietiza, perché quella rovescia loro tutto ciò che essi con errore si ricordavano e si avevano immaginato de’ principi di tutta la divina ed umana erudizione. Pochissimi sono mente, la qual bisogna come di architetto (giova qui avvalermi di un grave giudizio comunicatomi dal signor prencipe della Scalea, fatto da esso in rileggendo la Retorica d’Aristotile) per giudicare de’ lavori dell’eloquenza; la quale fa uso con dignitá di tutte le parti del saper umano e divino, e da un punto come di prospettiva ne dee vedere, e tra esso loro e nel tutto, la convenevolezza, che fa tutto ih bello dell’eloquenza, che si chiama «decoro».

Oltracciò, io non mi son punto curato informarmene, perché vivo giá persuaso che ne dovessero giudicare come d’una operucciola fatta per passatempo. Perché la piú parte de’ dotti d’oggidi fervono in studi, che soli reputan severi e gravi, e di metodi e di critiche; ma metodi che disperdon affatto l’intendimento, di cui propio è di veder il tutto di ciascheduna cosa e di vederlo tutto insieme, ché tanto propriamente sona «intelligfre.», ed allora veramente usiam l’«intelletto», che le nostre menti in questo corpo mortale ci può render in un certo modo della spezie della qual sono le separate che con peso di parola si chiaman «intelligenze»; e, per vederne il tutto, debbe considerarla per tutti i rapporti ch’ella può mai avere con altre cose dell’universo, e tra quella che vuole perfettamente intendere e cose affatto disparate e lontanissime ritrovarvi all’istante alcuna comunitá di ragione, nello che consiste tutta la virtú dell’ ingegno, che è l’unico padre di tutte le invenzioni: la qual sorta di percipire ècci assicurata dall’arte topica, che da’ presenti loici com’ inutile oggi si dissapprova, la qual sola ne può soccorrere negli affari ferventi che non danno tempo al con seglio; e la sola sapienza, stando sopra un piede, li può risolvere. E come il percipire è prima del giudicare, cosi essa percezione puonne apparecchiare al giudizio una critica, quanto piú accertata tanto piú utile alla scienza per le sperienze in [p. 214 modifica]

natura e per gli nuovi ritrovati dell’arti; utile alla prudenza per ben fermare le congetture delle cose, o fatte per giustamente giudicarle o da farsi per utilmente condurle; utile all’eloquenza per la pienezza delle pruove e per lo piacere dell’acutezze. E finché tutti i dotti ebbero gl’intelletti scemi di cotesta quarta operazione che dicon «metodo», han fruttato il tutto che abbiamo e di maraviglioso e di grande in questa nostra coltissima umanitá; ma, doppoi che si è in ciò da cotali filosofi supplita la mente umana, ella è sterilita e sfruttata né ha ritrovato alcuna cosa piú di rimarco.

Delle critiche, altra è metafisica, che va finalmente a terminare donde incomincian ad insegnarsi, cioè nello scetticismo, che nelle menti giovanili, quando piú tempestano di violentissime passioni ed hanno l’animo come di mollissima cera per ricever altamente le impressioni dei vizi, stordisce il senso comune, del quel avevan incominciato ad imbeversi con l’educazion iconomica e doveva loro fermarsi dalla sapienza riposta, del quale non ha la sapienza volgare regola piú certa per la prudenza civile, la qual allora ci assiste quando operiamo conforme operano tutti gli uomini di senio diritto. Ma lo scetticismo, mettendo in dubbio la veritá, la qual unisce gli uomini, li dispone ad ogni motivo di propio piacere o ^ropia utilitá che sieguano il senso propio, e si dalle coniti nze civili li richiama allo stato della solitudine, nonché degli animali mansueti, c’hanno pur talento d’unitamente vivere ne’ greggi e negli armenti, ma di fieri ed immani, che vivono tutti divisi e soli nelle lor tane e covili; e la sapienza riposta degli addottrinati, che doyerebbe reggere la volgare de’ popoli, le dá le piú forti spinte a precipitarsi ed a perdersi. L’altra critica è l’erudita, che di nulla serve a far sappienti coloro che la coltivano.

Ma quell’analisi veramente divina de’ pensieri umani, la quale, sceverando tutti quelli che non hanno naturai séguito tra di loro, per angusto sentiero scorgendoci di uno in uno, ci guida sottilmente fil filo entro i ciechi labirinti del cuor dell’uomo, che ne può dare, non giá gl’ indovinelli degli algebristi, ma la cer [p. 215 modifica]

tezza, quanto è lecito umanamente, del cuor dell’uomo, senza la quale nè la politica può maneggiarlo né l’eloquenza può trionfarne; e quella critica la quale, da ciò che in ogni circostanza è posto l’uomo, giudica che cosa egli in conformitá di quella debba operare, che è una critica sappientissima dell’arbitrio umano, il qual è per sua natura incertissimo, e perciò sommamente necessaria agii uomini di Stato; — entrambe, oltre a quello delle morali filosofie, delle quali unicamente s’intesero i greci, per lo infinito studio de’ poeti, degli storici, degli oratori e delle lingue greca e latina ch’abbisognan per ben intenderli, si sono affatto abbandonate. E si son abbandonate principalmente per l’autoritá di Renato delle Carte nel suo metodo, ed in grazia del suo metodo, perocché voglia per tutto il suo metodo; ond’egli si ha facto un gran séguito per quella debolezza della nostra natura umana, che ’n brevissimo tempo e con pochissima fatiga vorrebbe saper di tutto. Che è la cagione perché oggi non si lavoran altri libri che di nuovi metodi e di compendi, perché la dilicatezza de’ sensi, che è fastidiosissima in questo secolo, essendosi traggittata alle menti, i nuovi libri non per altro si commendano che per la facilitá, la quale cosi fi acca ecí avvelena gl’ingegni siccome la difficoltá gí’ invigorisce ed avviva.

Però publica testimonianza è che metodi cosi fatti, trasportati dalle matematiche all’altre scienze, di nulla abbiano giovato gl’ingegni a dilettarsi dell’ordine, che da essi si è fatto passaggio (chi ’l crederebbe?) a scriversi dizionari di scienze, e, ciò che recar debbe piú maraviglia, delle stesse matematiche, da’ quali non vi ha maniera piú fatta a caso né piú scioperata d’apprendere. Cosi egli è addivenuto che si condanna lo studio della lingua greca e latina, onde sono dappertutto inviliti i prezzi degli scrittori iu entrambe le lingue propie, e si sono sformatamente alterati quelli de’ traduttori; e pure si fatto studio ci può unicamente informare della maniera di pensare saggia e grande de’ romani ed esatta e dilicata de’ greci, delle quali e l’una e l’altra bisognarebbe agli uomini d’alto affare, che debbono trattare di cose grandi co’ grandi e con altezza d’animo [p. 216 modifica]

mostrar loro di sottilissimo filo la veritá con aspetto di compiacenza, perché le lingue sono, per dir cosi, il veicolo onde si stransfonde in chi le appara lo spirito delle nazioni; — si condanna lo studio che assolutamente bisogna per l’intelligenza del diritto romano latino, che molto riceve di lume dall’orientale de’ greci, col quale si giudicano le cause in tutti i tribunali d’Europa; — si condanna lo studio della lingua della nostra religione, con cui parlò la Chiesa greca e parla tuttavia la latina; e precisamente è necessario per le controversie che debbono nascere con le novitá che posson surgere nella Chiesa; — si condanna la lezione degli oratori, i quali soli ci possono insegnare il tuono con cui la sapienza favella; — si condanna quello degli storici, i quali soli si possono sperare veraci consiglieri de’ principi senza timore e senza adulazione; — si condanna finalmente quello de’ poeti, col falso pretesto che dican favole: nulla riflettendosi che le ottime favole sono veritá che piú s’appressano al vero ideale o sia vero eterno di Dio, ond’è incomparabilmente piú certo della veritá degli storici, la quale somministrano sovente loro il capriccio, la necessitá, la fortuna; ma il capitano, che finge, per cagion d’esempio, Torquato Tasso nel suo Goffredo, è qual dee esser il capitano di tutti i tempi, di tutte le nazioni; e tali sono tutti i personaggi poeti per tutte le differenze che ne possono mai dare sesso, etá, temperamento, costume, nazione, republica, grado, condizione, fortuna; che altro non sono che propietá eterne degli animi umani ragionate da’ politici, iconomici e morali filosofi, e da’ poeti portate in ritratti. Allo incontro, come se i giovani dalle accademie dovesser uscire nel mondo degli uomini, il qual fossesi composto di linee, di numeri e di spezie algebraiche, empiono lor il capo de’ magnifici vocaboli di «dimostrazioni», di «evidenze», di «veritá dimostrate», e condannano il verisimile, che è il vero per lo piú, che ne dá quella regola di giudicare che è un gran motivo di vero ciò che sembra vero a tutti o alla maggior parte degli uomini; di che non hanno piú sicura i politici in prender i loro consigli, né i capitani in guidare le lor imprese, né gli oratori in condurre le loro cause, né i giudici in giudicarle, né [p. 217 modifica]

i medici in curare i malori de’ corpi, né i morali teologi in curar quelli delle coscienze; e finalmente la regola sopra la quale tutto il mondo si acquieta e riposa in tutte le liti e controversie, in tutti i consegíi e provedimenti, in tutte Reiezioni, che tutte si determinano con tutti o con la maggior parte de’ voti.

E la ragione di tutto ciò che ho scritto è che, dappertutto celebrandosi il criterio della veritá del medesimo Renato, che è la chiara e distinta percezione, il quale, non diffinito, è piú incerto di quel di Epicuro, che il senso evidente di ciascheduno, il qual ogni passione ci fa parer evidente, conduce di leggieri allo scetticismo, il quale, sconoscendo le veritá nate dentro di noi medesimi, poco anzi niun conto tiene di quelle che si deono raccogliere dal di fuori, che bisognano ritrovarsi con la topica per fermare il verisimile, il senso comune e l’autoritá del gener umano; e perciò si disappruovano gli studi che a ciò bisognano, che sono quelli degli oratori, degli storici e de’ poeti e delle lingue nelle quali essi parlarono.

Con questo spirito, la maggior parte de’ dotti a compiacenza dánno i giudizi dell’ opere di lettere, facendone regola la loro capacitá, e la loro capacitá giustificando a’ medesimi la propia lor passione. Cosi, in questi stessi tempi che da essi si coltivano metafisiche, metodi e critiche, un’opera, meditata come una metafisica innalzata a contemplare la mente del gener umano e quindi Iddio per l’attributo della Provvedenza, per lo qual attributo Iddio è contemplato da tutto il gener umano, — esaminata con una critica che si fa sopra essi autori delle nazioni, la qual unicamente ci può accertare di ciò che ne dissero gli scrittori, i quali dopo la scorsa almeno d’un diece secoli vi cominciarono a provenire, — e condotta con un metodo addentrato nella generazione de’ costumi umani, che ad ogni tratto ne dá importantissime discoverte, — essi, perché vi si tratta di materie i cui studi si condannano dal metodo di Renato, contro ogni regola di buon’arte critica, senza farne verun esame, senz’applicarvi punto d’attenzione, con un giudizio superbo, che è quel che non rende ragione del perché cosi giudica, la condannano dicendo che «non s’intenda»; e, con costanza veramente di filosofi,

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