L'Argentina vista come è/La tutela della Madre Patria

La tutela della Madre Patria

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Nelle campagne argentine : i «coloni» Concludendo sull'Argentina
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LA TUTELA DELLA MADRE PATRIA.1

Un console italiano, rappresentante la nostra diplomazia in una delle principalissime città della Repubblica Argentina, — città dove vivono non meno di quarantamila nostri connazionali — ha inviato una bella mattina la lettera seguente alla Patria degli Italiani. È il grido d'un buon burocratico che trova il suo tavolo troppo ingombro di lavoro, e che invoca la meritata tranquillità:

«Nell'interesse e per norma dei nostri connazionali i quali avessero reclami da sporgere per fatti dell'autorità da cui si ritenessero lesi, sarò grato se vorrete pubblicare il seguente avviso:

«Giusta i principî stabiliti dal Governo del Re, i regî sudditi, i quali si ritengono lesi nei loro diritti da qualche autorità locale, dovranno prima di tutto — e fondandosi nelle garanzie loro accordate dalle costituzioni argentine — rivolgersi successivamente, se necessario, a tutte le autorità superiori a quella dalla quale furono danneggiati, fornendo ad esse le prove convincenti dei fatti asseriti». [p. 205 modifica]

Una parentesi: le parole in corsivo sono sottolineate nel testo originale. E continuiamo:

«Solo nel caso, non presumibile, che la suprema autorità locale siasi negata di far giustizia, od abbia indiscutibilmente violata quest’ultima, i regî sudditi potranno far ricorso all’intervento dell’autorità consolare, provando:

«1.º Che il reclamante ha diritto all’invocata protezione consolare, per avere egli il possesso attuale della nazionalità italiana, e per la regolarità della propria situazione di fronte alle leggi della Patria.

«2.º Che il reclamo è basato sulla realtà dei fatti, i quali perciò debbono essere provati, e che esso abbia fondamento giuridico; giacchè non tutti i danni sono suscettibili di risarcimento.

«3.º Che vi sia stato — ciò che non deve supporsi — un diniego od una patente violazione di giustizia da parte delle supreme autorità locali.

«È pero lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console il giudicare, caso per caso, della opportunità o meno di interporre fin da principio, in favore dei reclamanti, il proprio intervento ufficioso, allo scopo di conseguire eque transazioni ed amichevoli componimenti.

«Gradisca, ecc.».

Questo significa semplicemente, nell’Argentina, che i Consolati sono inutili. Supponete un caso pratico, prendiamo un esempio nella piccola cronaca di tutti i giorni: un soldato di polizia per distrarsi consegna un colpo di daga ad un gringo. Il poveraccio non può correre dal Console, da colui che dovrebbe rappresentare la tutela, la protezione della sua patria. No, deve «prima di tutto, fondandosi nelle garanzie accordate dalle costituzioni argentine, rivolgersi successivamente a tutte le autorità superiori, ecc.». Dunque egli si [p. 206 modifica] fonda sulle garanzie e corre — se può — dall'ufficiale di polizia; se non giova va dal commissario; non basta? e allora protesta presso il «jefe politico»; se l'alto funzionario non gli bada si reca dal ministro della provincia; se il ministro gli nega giustizia si presenta al governatore; il governatore lo manda al diavolo? allora va dal ministro della giustizia del Governo federale; se questi rifiuta di accogliere il reclamo, il poveraccio bussa alla porta del Presidente e gli racconta il fatto. È da notarsi intanto che il regio suddito — per usare il termine burocratico — si sarebbe dovuto trascinare appresso, sempre, i testimonî e i periti, o almeno le perizie, perchè bisogna «fornire a tutte le autorità le prove convincenti dei fatti asseriti». Il Presidente non gli dà retta neanche lui, «ciò non deve supporsi» — dice il nostro console — ma supponiamolo, che la verosimiglianza ci guadagna, e allora il regio suddito — o i suoi discendenti perchè nel frattempo saranno passati tanti anni! — trovandosi in perfetta regola con le emanazioni consolari, ricorre al Console. La cosa è semplicissima; egli non ha che a «provare di avere il possesso attuale della nazionalità italiana e di dimostrare la regolarità della propria situazione di fronte alle leggi italiane»; poi passa a dimostrare che «il reclamo è basato sulla realtà di fatti, i quali debbono perciò essere provati» e fa una breve dissertazione giuridica sul giuridico fondamento. In ultimo non ha che da provare il diniego o la violazione di giustizia — e che sia «patente» — da parte delle supreme autorità locali, e il Console finalmente inizia i passi necessarî per ottenere la riparazione.

Ebbene, tutto questo è una burla feroce in un paese dove la giustizia è quello che è, dove l'abuso e il sopruso sono moneta corrente, e dove il delitto, specialmente se è a danno di stranieri, rimane così spesso impunito. Quale difesa porge l'Italia a quei suoi figli [p. 207 modifica] lontani? quale protezione? Il comunicato del Console in questione ce lo dice. Non è colpa nostra se i legami fra la Madre Patria e gli emigrati si spezzano così facilmente?



Quel comunicato ha un significato molto grave, perchè non rappresenta una stranezza d'un Console originale poco scrupoloso dei suoi doveri, ma è la espressione di tutto il nostro sistema diplomatico; esso espone i «principî stabiliti dal Governo del Re», esso rappresenta lo spirito della legge, è la legge. Non è quel Console che non vuol proteggere le vittime italiane dagli abusi abitudinarî delle autorità argentine; no, è la nostra legge che non li difende, che non li ha mai difesi. Il Console del quale ho parlato non ha fatto che trascrivere quello che dicono i regolamenti diplomatici; egli è in regola. Si è visto forse assediato di proteste di nostri confratelli angariati, fra tanti gridi di aiuto non ha saputo più quali ascoltare, ed egli ha scritto quella lettera. Essa in altre parole viene a dire: Ma voi credete che io possa fare del bene? credete che io possa darvi protezione, aiuto, difesa? ah, no, voi non sapete quali sono le attribuzioni del Console; esse sono queste e queste.

È vero che «è lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console il giudicare, caso per caso, della opportunità, o meno, di interporre il proprio intervento ufficioso in favore dei reclamanti», ma quel prudente criterio è così prudente che molto di raro mette la testa fuori del Consolato, e ciò fa solo quando è impossibile farne a meno.

Da qualunque parte si vada si odono proteste [p. 208 modifica] contro l’inerzia dei Consoli. Sono avvenute cose incredibili, non parlando che di questi ultimi tempi; italiani vessati, truffati, angariati, feriti, assassinati senza che in nome della loro Patria si levasse nessuna fiera voce di protesta. Le autorità consolari domandano spiegazioni alle autorità argentine; queste ne danno — buone o cattive poco monta — le autorità consolari se ne dichiarano più o meno soddisfatte e ringraziano. Le vittime figurano sempre dalla parte del torto, si capisce. Un’infinità di fatti che hanno sollevato l’indignazione pubblica, sono passati, così, come le cose più naturali.

Il tredici del luglio scorso un italiano, un certo Domenico Barolo, venne arrestato senza ragione nella sua casa, a Rosario. Condottolo in istrada gli agenti estrassero le daghe e gli diedero tanti colpi di taglio e di piatto da stenderlo al suolo. Allora chiamarono una vettura e ve lo gettarono di traverso come un sacco, ponendogli i piedi sul petto. Rinvenuto, alla Commisseria, volevano fargli pagare una multa di dodici pesos, ma poi per l’intermissione d’un signore che lo conosceva venne rilasciato. Tutto questo è dettagliatamente narrato da un giornale argentino, la Repubblica, la quale, fatta constatare l’esattezza del racconto, inviò un redattore al Consolato italiano, accompagnato dalla stessa vittima, per fare una protesta. Lo stesso giornale riportava, dopo alcuni giorni, la notizia che le spiegazioni della polizia argentina erano state trovate soddisfacenti dal Consolato italiano. Le ferite, quell’infelice, se le sarebbe fatte da sè, cadendo. Basti il dire — osserva la Repubblica — che egli ha, fra le altre, varie ferite alla sommità del cranio, e per farsele sarebbe dovuto cadere replicatamente con la testa in giù e le gambe in aria, dritto come un uovo.

Di questi fatti ve ne sono a bizzeffe. Un altro, caratteristico. A Bahia Blanca, nel marzo passato, la polizia ha assalito con le armi degli operai italiani [p. 209 modifica] che avevano scioperato per ragioni sacrosante che abbiamo esposte in altro articolo. Vi sono stati quattro feriti, di cui uno gravemente. Nessuna guardia ferita. L’autorità consolare, dopo domandate delle spiegazioni alla polizia e fatta una specie d’indagine, ha concluso che gli operai avevano torto, che la polizia era la vittima, o poco meno, e che non si era potuto sapere il nome nemmeno di uno dei pretesi feriti. I nomi, se all’autorità preme ancora saperli, eccoli: Federico Dellepiane, Ivano Franchetti, Pasquale Severini e Pietro Giorgenti. I due primi sono stati anche imprigionati. Il ferito grave era il Dellepiane. La cosa non è un segreto — fuori che per la diplomazia, pare — poichè fu resa pubblica da una protesta, al Jefe politico, dei commercianti di Bahia Blanca, protesta portante quarantatrè firme — fra le quali molte di argentini.



Quando pensiamo che la polizia nord-americana ha messo sotto sopra il mondo per una miss Stone sequestrata, con tutti i riguardi, dai briganti bulgari — la quale dopo tutto era andata a pescare la sua disgrazia con la più evangelica buona volontà — ; quando pensiamo che per un missionario ammazzato, od anche minacciato, in Cina, si domandano solenni riparazioni e si muovono minacciosamente le flotte; quando pensiamo a tutto questo sentiamo la vergogna per l’abbandono in cui lasciamo i nostri compatrioti all’estero, restando indifferenti davanti ad ogni infamia, inerti e tranquilli. E poi ci stupiamo se gl’Italiani non godono di troppo prestigio al di là dell’Atlantico.

In un paese, come l’Argentina, dove gli uomini pongono bene spesso sulla bilancia della Giustizia il peso [p. 210 modifica] delle loro influenze e delle loro relazioni, lo straniero, che non ha nessuno di questi pesi da mettervi, trova la bilancia terribilmente difettosa. Per ridurla normale i rappresentanti del suo paese dovrebbero gravarvi quanto basta con la loro autorità. I nostri rappresentanti parlano seriamente di garanzie costituzionali argentine sulle quali ci si dovrebbe fondare, e partono in ogni questione dal principio che «non deve supporsi un diniego o una violazione di giustizia». Già, come se quella bilancia laggiù andasse bene!

Un diplomatico italiano mi disse un giorno che gli emigranti, per il solo fatto di essere andati laggiù, accettavano tutte le condizioni nelle quali si svolge la vita di quel paese, accettavano la sua giustizia, la sua amministrazione, ecc. Il ragionamento è comodo, ma è falso. Essi, poveretti, non sanno nulla di nulla; essi accettano, come la pecora, per il solo fatto che segue il gregge, accetta la forbice che la tosa o il coltello che la scanna. Ed è così che molti, troppi dei nostri rappresentanti diplomatici sentono la loro missione. È pur vero che chi di loro vuol fare non può.

Non può perchè v’è la consuetudine, v’è il precedente. Un console od un ministro italiano che prendendo a cuore una questione parlasse alto, risoluto, fieramente, non metterebbe troppo pensiero alle autorità locali, le quali potrebbero sempre dire: nella tale occasione analoga a questa si fece così e così, e foste contenti; in questa faremo lo stesso, e dovrete essere contenti. Non può perchè i casi per levare voci di protesta, per invocare a grandi gridi la giustizia sono tali e tanti, che un console coscienzioso, nell’America del Sud, non saprebbe dove cominciare, dove mettersi le mani, se non nei capelli per la disperazione. Non può perchè sa che alle spalle non ha — povero emigrato anche lui — che una ben debole protezione. Il Governo non vuole seccature, non vuole complicazioni; il diplomatico più abile è quello che dà meno noie, [p. 211 modifica] che solleva meno incidenti. Non bisogna essere troppo esigenti, Dio mio, bisogna contentarsi delle spiegazioni che i governi interessati hanno la bontà di fornire. Il diplomatico che ha troppi scrupoli è presto tolto di mezzo; le buone relazioni internazionali sono salve. C'è la consuetudine anche in questo: tanto che se il nostro Governo per una volta si associa alle proteste di qualche suo agente, non mette una gran soggezione, nemmeno ad un Venezuela. È una cosa così nuova! Il Governo in fondo dice ai suoi consoli e ministri quello che costoro dicono ai «regi sudditi»: Sbrigatevela da voi!



Ed essi se la sbrigano. Cercano di tenersi amiche le autorità locali, procurano di non urtare in niente, d'andare avanti sgusciando destramente fra questione e questione, persuasi qualche volta che quella è la buona via per cementare gli accordi fra Governo e Governo, per fomentare le fratellanze. Le autorità locali ne sono enchantées. Così essi assicurano la tranquillità dei rapporti diplomatici e non compromettono la loro carriera.

E non hanno torto. La carriera li preoccupa giustamente. Essi sono degli impiegati; anzi sono troppo impiegati. E la diplomazia non dovrebbe procedere alla stregua della burocrazia. La promozione e il trasloco degli agenti diplomatici dovrebbero essere soggetti a ben diverse leggi da quelle che regolano la promozione e il trasloco di altri impiegati dello Stato. Non può un diplomatico essere, supponiamo, vice-console ad Anversa, console a San Paulo del Brasile, console generale a Costantinopoli, segretario a Tokio, [p. 212 modifica] come un impiegato alle imposte dirette è commesso a Sassari e ricevitore ad Otranto. L'azione del diplomatico spazia nell'ambiente in cui egli vive, e deve essere diversa a seconda dei diversi ambienti. Un console non può limitarsi nell'Argentina o nel Brasile a dare ai suoi connazionali la sua protezione nella stessa misura e nella stessa forma con le quali le dà, che so, a Londra o a Berlino. I governi, le autorità, la Giustizia, le amministrazioni offrono ben diverse garanzie nei diversi paesi, ed è assurdo che l'azione dei consoli sia limitata dagli stessi «principî stabiliti dal governo del Re» in qualunque parte del mondo si trovino. Il console deve poterne uscire da quelle trincee protocollate, e per uscirne deve conoscere intimamente l'ambiente. Ma questo non avverrà mai finchè egli sarà portato dalla sua «carriera» a considerare il posto che occupa come una posizione transitoria.

«Fra tre, fra due, fra un anno io me ne andrò» — egli pensa — e prosegue soavemente la sua via, chiudendo occhi e orecchie alle proteste che si levano intorno a lui e alle domande angosciose d'aiuto e di difesa. Se egli poi, per lunga residenza o per alto sentimento del dovere, approfondisce l'ambiente, sa trovare tutte le fila del nuovo meccanismo sociale nel quale si trova, conosce gli uomini che lo circondano, sa parlar loro, sa chiedere, concedere o volere, ecco che viene sbalestrato agli antipodi. Noi avevamo, per esempio, un funzionario pratico dell'Africa che conosceva l'Eritrea e i suoi abitanti perfettamente, che parlava l'arabo e l'amarico e lo abbiamo mandato console in.... Cina, come se i cinesi e gli abissini fossero la stessa cosa. Così, su per giù, avvengono i nostri «movimenti diplomatici.»

Gl'Inglesi invece... (È seccante dover ricorrere sempre all'esempio inglese, ma gl'Inglesi, pur troppo, anche qui, hanno un'indiscutibile superiorità). Gl'Inglesi, dicevo, per molti paesi creano dei diplomatici direi [p. 213 modifica] quasi specialisti. A Pechino vi sono presso la Legazione inglese numerosi studenti di cinese i quali, giunti a maturità di studio, diventano consoli inglesi disseminati nel Celeste Impero. Il presente ministro inglese a Pechino è uno degli orientalisti più stimati e le sue opere sull'antica letteratura cinese sono preziose. In molti paesi, nell'Argentina fra gli altri, alcuni consoli d'Inghilterra sono dei commercianti. Essi offrono moltissimi vantaggi: conoscenza perfetta del paese, delle sue forze economiche, della sua potenzialità produttrice, della sua potenza di consumo; poi innegabile abilità diplomatica, perchè la ruse d'un commerciante non ha rivali; inamovibilità, che è garanzia di serietà, di circospezione e di pratica dell'ambiente. Infine vantaggio non minore è che gli interessi della loro nazione combinano con i loro stessi interessi; una diminuzione di prestigio è una diminuzione d'affari; la prosperità del commercio inglese è anche la loro fortuna. Essi sono mescolati alla vita sociale, la forza che deriva dalla loro autorità non rimane rinchiusa nel loro ufficio, ma irradia su tutta la vasta cerchia dei connazionali che hanno con essi affari, rapporti e contatti. Non è certo desiderabile che, per imitare gli Inglesi, i nostri consoli nei centri minori divenissero commercianti e viceversa; ma che i consoli fuori d'Europa restassero a compire la loro carriera diplomatica nel paese che essi conoscono di più, questo sì che sarebbe veramente da pretendersi.



Col nostro sistema è chiaro che il Governo non potrà sempre avere — attraverso i suoi rappresentanti — un'idea troppo chiara dell'essenza e dell'indole di certi Governi lontani e per conseguenza della maniera di trattare efficacemente con essi. [p. 214 modifica]

Basta, per accorgersene, paragonare l'azione del Governo nostro presso quello argentino in certi casi, e quella del Governo inglese in casi analoghi (e perdonatemi se torno in ballo con gl'Inglesi). Una volta — sono molti anni, ma chi ha avuto contatti col mondo diplomatico a Buenos Aires lo rammenta bene — venne da un caudillo della provincia della capitale ammazzato per questioni d'interesse un suddito inglese. Alle domande di giustizia, il Governo argentino rispose con promesse che restarono allo stato di promesse. Alle proteste del ministro inglese non rispose più nulla, aspettando dal tempo il benefico oblìo. Allora il Governo inglese fece affiggere in tutte le stazioni ferroviarie e in tutti i porti del Regno Unito un avviso che diceva presso a poco così: «Il Governo di S. M. la Regina rende noto che nella Repubblica argentina la vita non è garantita». Era il momento della grande emigrazione e il principio delle grandi imprese: il Governo argentino, informato dal suo ministro a Londra, si allarmò e domandò lo stracciamento degli avvisi. Fu risposto che questo sarebbe avvenuto soltanto dopo la punizione dell'assassino del suddito inglese. L'assassino fu preso e condannato subito.

Gl'Inglesi sono il popolo più odiato nell'Argentina — basti il dire che laggiù la parola inglese significa creditore — ma anche il più rispettato, perchè si sa che chi fa un torto ad un inglese è punito. Soltanto ultimamente, nel mese d'aprile, è avvenuto un fatto che sembra faccia eccezione. Il figlio d'un commissario di polizia, con la complicità d'un agente, ha assassinato in modo vile e orribile un giovane inglese, un tale Barnett. Vi è stato un periodo d'indecisione perchè l'assassino gode altissime influenze, ma il contegno della diplomazia inglese è stato così risoluto, che finalmente s'è iniziato il procedimento penale contro il colpevole. È vero che a questo ha contribuito anche il contegno energico e minaccioso di tutta la stampa [p. 215 modifica] inglese. Il Times, dopo d'avere esposto le condizioni della giustizia argentina, è giunto, in un recentissimo articolo, ad invocare nientemeno che un'azione unita delle Potenze per garantire la vita, i beni e la libertà dei rispettivi sudditi nell'Argentina.

E noi? Ah! quanto lunga, dolorosa, raccapricciante sarebbe la storia dei delitti impuniti nei quali la vittima è stata italiana. Intiere famiglie italiane sono state assassinate proprio mentre noi palpitavamo tutti per la sorte di miss Stone, ignari dei tragici avvenimenti che facevano scorrere lontano, in luoghi quasi ignorati, il sangue nostro.

Un altro esempio che dimostra come, in virtù della sua diplomazia, il Governo inglese — per dirla con l'espressiva frase popolare — conosca i suoi polli. Una colonia di gallesi stabilitasi da 28 anni nel Chobut, ha protestato presso il Governo patrio contro molte ingiustizie delle quali era vittima. In simili casi noi scambiamo dei telegrammi col Governo argentino, — se non ci limitiamo ai colloquî col suo rappresentante in Roma — riceviamo le abituali e recise smentite accompagnate da commoventi assicurazioni d'amicizia e di simpatia e ci dichiariamo contentoni. Il Governo inglese conosce il valore di certe assicurazioni ufficiali. È più pratico: esso ha inviato una Commissione d'inchiesta a vedere e riferire. La Commissione è giunta alla chetichella, evitando ogni contatto con le autorità per non intralciare l'azione del suo Governo, e si è messa al lavoro. Ha constatato delle cose da far fremere d'indignazione ogni buona anima anglo-sassone, ed ha riferito. Il Governo inglese ha offerto a quei coloni delle terre al Canadà. In un momento, per pubblica sottoscrizione, a Londra, si sono raccolte ottantamila lire per le spese di viaggio, ed ultimamente i gallesi del Chobut sono tornati a rifugiarsi ancora all'ombra protettrice dell'Union Jack. Tutto questo è passato senza che venisse scambiata col Governo argentino la [p. 216 modifica] minima nota, che avrebbe procurato o bugie o inutile tensione di rapporti.

Così pure l'Inghilterra ha agito per la chiusura dei suoi porti al bestiame argentino, in seguito alla tentata introduzione in Inghilterra di buoi argentini affetti d'afta epizootica. Ogni tanto il Governo della Repubblica dichiara che l'afta non c'è più; il Governo inglese, per conto suo, rinnova un'inchiesta presso gli estancieros inglesi, in conseguenza della quale i porti seguitano a essere chiusi.



È inutile continuare il paragone tra l'opera della nostra diplomazia in America e l'opera delle altre. Per ragioni che non dipendono certamente nè dalla volontà, nè dalla qualità dei nostri rappresentanti, ma da tutto un sistema sbagliato, la nostra diplomazia, almeno laggiù, non risponde a tutti i suoi scopi.

Essa ha una missione che è politica, economica ed umanitaria; ebbene, noi laggiù siamo poco temuti e poco rispettati, poco tutelati e poco difesi.

Questa è l'amara verità.




Note

  1. Dal Corriere della Sera del 31 agosto 1902.