Istorie dello Stato di Urbino/Libro Primo/Capitolo Primo

Libro Primo, Capitolo Primo

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CAPITOLO PRIMO

Dell’Origine de’ Toscani, & delle loro habitationi in Italia.



C
ento quarant’un’anno dopò, che cessò l’universal Diluvio, e che il gran Patriarca Noè sopra gli alti Monti di Armenia uscì dall’Arca, in cui salvossi con la Moglie Tidea, con i figli, Camo, Semo, e Iapeto; e con le nuore Pandora, Nocla, e Neogola, che fù il decimo anno del Regno di Saturno, Padre di Belo, in Babilonia: Comero primogenito di Iapeto dall’epiteto paterno detto Gallo, cioè inondato, e salvato dall’acque, passò dalla Scitia ove forse egli era nato, in Italia, con i figliuoli, e co’ nepoti, i quali essendo nel generar la prole fecondissimi, cresciuti in gran numero, nel Paese, che trà la Marca, e l Tevere, e frà il Mediterraneo, e gli Apennini contiensi, le loro habitationi fermarono, chiamando quello dal nome di Comero, Comera Gallica. Et essendo quest’huomo giusto, e santo, non solo instrusse gli suoi a vivere secondo le regole della vera Giustitia, incaminandoli per lo retto sentiero, che la ragione addita; mà insieme à gradi superiori alla natura col lume della fede inalzandoli, insegnò loro i sacrosanti culti della vera latria, che in ogni tempo al sommo Dio render dovevano. Così accennò l’antichissimo Beroso, nel quinto lib. de i Babilonici Regi in tale guisa scrivendone. Anno à salute humani generis ab aquis centesimo trigesimo primo, cepit Regnum Babilonicum sub nostro Saturno patre Iovis Beli, qui imperavit annis 56.anno huius decimus Comerus Gallus posuit Colonias suas in Regno, quod postea Italia dicta est, & Regnum suum à suo nomine cognominavit, docuitq. illos legem, & iustitiam. Quindi avenne, che gli altri, i quali di là da i Monti habitan di presente, tal nome da Gallante figliuolo di Hercole Duce loro, havessero. Mà questa Gente nell’humiltà in tutto l’orme di Comero seguitando, no insuperbì, ed in alterì ne i Palagi, ma bensì in vili, e ne’ bassi tuguri habitar vole, e da questi tuguri, che chiamavansi Tirsi, vennero detti poscia da’ confinanti loro Tirreni, & di questo nome appallaronsi un tempo, per la testimonianza, che ne fa Marsilio Lesbio, Dionisio [p. 2 modifica]Alicarnaseo, e con essi Leandro Alberti, con altri mille celebri Scrittori. Et essercitandosi questi medesimi ne gli esperimenti de i sacrificij, che con pietosi affetti di vittime, e di lodi rendevan’ a Dio, furono Tusci perciò anco nomati. Così Plinio, e Manetone, con Festo Pompeo hanno scritto. E Facio nel 3. lib. del Ditamondo cantò in questi seguenti versi.
Tuscia dal Tuse le fù il nome messo,
Perche con quegli antichi il tempo casto,
Devoti a Dei sacrificavan spesso.

Menarono i Tusci per lungo spatio d’anni nel descritto paese vita felice. Ma essendo poscia in tal guisa cresciuti, che non rendendosi quella contrada a sostentarli bastevole, nel Triangolo famoso inondaron d’Italia, che descrisse Polibio al 2. lib. delle sue Historie, di cui tolte a forza trecento Città a gli Umbri, di quelle s’impadronirono, lasciando solo intatto l’Angolo, che nell’estremo della detta Italia, trà l’Adriatico giace, & i monti d’Alemagna: del quale per timore de Veneti, popoli della Paflagonia, che habitavanlo, non ardirono tentar l’impresa. Nè parendo a questi, ch’alla moltitudine loro le trecento Città, da cui cacciorno gli Umbri, fossero sofficienti; dell’altre assai più grandi n’edificorono, come Adria, Verona, Vicenza, Mantoa, Bergamo, Trento, Como, Vercelli, Novara, Parma, Reggio di Lepido, e Bologna. Laonde avvenne, che fatti oltre modo grandi, facilmente non solo poterono d’Italia intitolarsi Signori: mà etiandio de i Mari, che la fiancheggiano, tenendo per guardia di quelli, due grosse armate; e per autenticare sopra di essi la padronanza loro, vollero anco all’uno, & all’altro imporre il nome, quello, che all’Ostro mira, dal proprio chiamando Tirreno, e questo alla parte opposta, che risguarda Borea, da Adria Colonia loro Adriatico Mare. Trovandosi questi popoli temuti nel colmo della volubile Fortuna, e per le continue felicità resi insolenti, della Giustitia, all’huomo connaturale, scordaronsi: & assai più della verace Religione, da i loro Maggiori (come si disse) appresa, e con pura fede per lo corso di tanti anni essercitata. Anzi del tutto divenuti sacrileghi, e superstitiosi, rendevano gli honori, che solo a Dio dovevansi, a i Demonij dell’Inferno, usurpatori sfacciati dei culti latrij. Onde a gli Augurij, & à gli Auspicij intenti, di sì nefandi errori maestri si fecero, insegnandoli con fatica, e studio a Romani, che poscia da questi fascinati, non trovonsi Demonio, che ne gli abissi havesse Prelatura a cui non erigessero in Roma Tempij, addrizzassero statue, o consacrassero Altari, & a quello sotto nome di qualche persona insigne, non porgessero incensi, sacrificij, e lodi, per la fede, che gli antichi Dottori ne fanno, e specialmente l’Alicarnaseo, che della cecità di queste genti a lungo parla. E tale era il possesso, che sopra de’ Tusci teneva l’empio Demonio, ch’osò più volte personalmente [p. 3 modifica]comparir loro in ispecie visibile, come Cicerone racconta nel 2. lib. delle Divin. e singolarmente quando sotto Tagete in figura di bellissimo fanciullo, tra le glebe del la terra ne i Tarquinesi campi dall’Aratore Tirtinio à piedi dè buoi, laciossi trovare, di dove uscito, & in luogo eminente asceso, per esser da tutti veduto, & ascoltato, non che Tirtineo, i Pastori, e Bifolchi vicini ingannando, gl’indusse con meraviglia ad ascoltar la dottrina, che insegnava de gli Augurij, e dell’indovinar per quelli: ma fin da gli ultimi confini della Provincia ogni popoli indusse ad impararla, e ciò da tutto il mondo favore del Cielo singolarissimo riputato essendo, solo à Toscani per loro buona sorte concesso, non volle Ovidio con silentio passarlo; onde nell’ultimo delle sue Metamorfosi raccontandolo così ne scrisse.

At nymphas tetigit nova res, e Amazon natus
Haud aliter stupuit, quam cum Tyrtinus arator
Fatalem glebam motis aspexit in arvis
Sponte sua primum, nulloque agitante moveri
Sumere mox hominis, terræquæ amittere formam,
Oraque benturis aperire recentia factis
Indignæ dixere Tagen, qui primus Hetruscam
Edocuit gentem casus aperire futuros.

Non meno per questo, che per altri simili peccati, vennero i Toscani da Dio acerbamente puniti; peròche da i Galli Celti, che dell’ira Divina contro essi furono la sferza, con molta strage del sangue loro, da quella felice Contrada vennero cacciati, come più à lungo ne gli altri discorsi seguenti spiegherassi.