Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo XXXVI

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CAPO XXXVI.

Roma assediata dai Gotti; perplessità di Giustiniano. — Gli Isauri tradiscono la città al nemico. — Paolo nella mole di Adriano resiste valorosamente. Il re perdona alla città vinta.

I. Totila condotto l’esercito contro Roma e piantati gli steccati ne cominciò l’assedio. Belisario, commesso aveane la salvezza a tre mila de’ più animosi militi, sotto gli ordini della sua lancia Diogene, personaggio di molta prudenza e fama in guerra. Quindi è che la contesa ebbe lunga durata, il sommo valore di questa guernigione adeguandola a tutte le gottiche truppe, ed il suo duce mostrandosi vigilantissimo nell’impedire che il nemico avvicinasse quelle mura, entro il cui circuito egli da per tutto seminato avea frumento ad evitare il difetto dell’annona; i barbari spesso tentarono di espugnarle, ma dovettero farsi indietro respinti dal romano valore; impadronitisi alla per fine di Porto vie maggiormente addivennero molesti alla città. Giustiniano Augusto allorchè vide Belisario nella capitale fermò di spedire altro capitano e nuove truppe contro Totila ed i Gotti, e se avesse dato compimento alla sua deliberazione uscito ne sarebbe di certo, a parer mio, vincitore, dacchè in possesso tuttavia di Roma potea incorporarne l’ancora intatto presidio co’ freschi bizantini aiuti; ma affidatone appena il comando a Liberio, patrizio romano, coll’ordine di tenersi pronto alla [p. 413 modifica]partenza, al sopraggiugnere forse di altre faccende, abbandonò l’ottimo suo proponimento.

II. Il romano assedio contava già lunga durata quando parecchi Isauri a guardia della porta insigne pel nome dell’apostolo Paolo, mal tolleranti la trascurataggine imperiale nel guiderdonare i loro diuturni servigi, e vedendo a uno i suoi connazionali, traditori in addietro di Roma ai Gotti, gloriosi per le molte ricchezze, frutto dell’abbominevole colpa, promettono a Totila in clandestino colloquio d’introdurlo ad epoca stabilita nella città. Venuto il giorno questi macchinò la seguente frode. Nella prima vigilia della notte appronta sul Tevere due piccole fuste, e fattivi salire due trombettieri comanda loro che valicato il fiume ed accostatisi alle mura dieno a tutto potere nelle trombe. Egli quindi avviossi occultamente coll’esercito alla porta insigne come narrava dal nome dell’apostolo Paolo, ed a prevenire che parte veruna del romano presidio col beneficio della notte di là passasse a Centumcelle, unico luogo forte rimaso in que’ dintorni agli imperiali, mandò a occuparne la strada numerose schiere di militi coll’ordine di combattere i fuggenti. Quelli ne’ paliscalmi approssimatisi alle mura giusta il comando principiarono a trombettare. I Romani stupefatti e pieni di spavento andavano a romore, tutti all’impazzata abbandonando la stazione loro per soccorrere laddove il pericolo sembrava maggiore: i soli felloni isauri tenutisi fermi alla porta ov’erano di guardia, ed a bell’agio spalancatala introduconvi il nemico, dal quale si fa orrenda strage di quanti sono per via. Molti fuggono dalle [p. 414 modifica]altre porte, e nell’avviarsi frettolosi a Centumcelle caduti negli agguati rincontranvi morte; solo riuscì a ben pochi sottrarsi da quello sterminio, tra quali corre voce fosse Diogene, quantunque ferito.

III. Nell’esercito imperiale eravi un Paolo di nazione cilice, da principio maestro della casa Belisario; quindi condottiero delle genti in sella, e col prender parte alla spedizione italica preposto con Diogene al presidio romano. Costui espugnata la città si ritrasse di corsa con quattrocento cavalieri nella mole Adriana, ed occupò il ponte che mette al tempio dell’apostolo Pietro. Nel dì seguente ai primi albori la piccola guernigione assalita con impeto e sostenutasi valorosamente riportò vittoria facendo scempio de’ Gotti molti di numero sopra ben angusto terreno. Il re avvedutosene troncò di botto la pugna, ed impose alle truppe di attendarsi tranquille rimpetto alla mole, persuaso che la fame costringerebbe i rinchiusivi a deporre le armi. Paolo ed i quattrocento se la passarono giorno e notte digiuni; al nuovo dì si pensò ricorrere alle carni de’ cavalli, ma l’avversione al proposto cibo rattenneli fino a sera dall’usarne, avvegnachè nel massimo bisogno di nutrimento. In allora dopo lunga deliberazione venuti unanimi ad una eroica impresa risolverono per lo migliore che onorata morte desse pronto fine ai patimenti loro. Tutti adunque dispongonsi a fare con repentino assalto grandissima strage de’ Gotti, e compiere di questo modo gloriosamente la mortale carriera. Laonde senza punto indugiare passati a vicendevoli amplessi e baci mettonsi nell’estremo cammino, quasi che tutti e [p. 415 modifica]di subito avessero da cadervi spenti. Il re, all’udirne, temendo non uomini per nulla solleciti della vita e disperanti salvezza recassergli gravi danni mandò proponendo loro delle due l’una: o che abbandonati i cavalli, deposte le armi e giurato di non guerreggiare mai più contro i Gotti, liberi se ne tornassero a Bizanzio, o conservato l’intero novero delle proprie suppellettili facessersi da quinci in poi, collo stipendio e co’ patti stessi degli altri, suoi aiutatori in campo. I Romani lietissimi dell’offerta mostraronsi da prima bramosi di ripatriare; ma poscia vergognando retrocedere inermi pedoni e colla dotta continua, tra via, d’insidie e morte; ricordevoli inoltre di quanto l’erario andava lor debitore per istipendj non tocchi da molti anni, tutti passarono ai servigi del re, salvo Paolo e l’isauro Mitide, i quali supplicarongli a voce la facoltà di restituirsi in Bizanzio, adducendo avervi donne e prole, nè lunge da esse poter vivere beata vita. Il monarca assicuratosi che tali erano le cose vi prestò il suo consentimento, e fornitili di guide e viatico diede loro licenza; di più accordò salvezza, descrivendoli a’ suoi ruoli, ad altri quattrocento romani militi riparati nei templi della citta, e dimise ogni pensiero di rovinar questa o di abbannarla, volendo anzi che fosse abitata da Gotti e Romani di qualsivoglia ordine; passo ad esporre i motivi della sua determinazione.