Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo II

Libro quinto - Capitolo II (luglio 1555 - settembre 1557)

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CAPITOLO II

(luglio 1555 - settembre 1557).

[Recesso di Augusta, col quale viene concessa la libertá e pacificazione religiosa. — Sdegno di Paolo IV. Ancora della sua indole, e suoi propositi. — Consigliato dal nipote cardinale Carlo, segretamente fa lega con la Francia per cacciare gli spagnoli da Napoli. — Creazione cardinalizia del dicembre 1555. — Il cardinale Pole arcivescovo di Canterbury. — I popoli d’Austria e di Baviera chiedono al re Ferdinando e al duca Alberto che si estenda anche a loro il recesso augustano: viene concessa la comunione sub utraque. — La riforma viene introdotta nel Palatinato. — Il papa nomina una congregazione per la riforma della curia: trattazione della simonia. — Aspre critiche di Paolo IV al concilio di Trento: sua intenzione di radunarne uno in Roma, con fini teocratici. — Suo sdegno per le novitá religiose d’Austria, Baviera e Polonia. — Tregua quinquennale di Vaucelles tra il re di Francia e l'imperatore: disappunto suscitato in Roma. — Mostrando di voler trasformare la tregua in ferma pace pel bene del concilio da radunarsi, il papa invia legati ai re ed all’imperatore. — Il cardinale Carafa persuade abilmente Enrico II a rompere la tregua. — Bolla con cui i Colonna vengono scomunicati e privati dei loro feudi; il papa conferisce Paliano al nipote conte di Molitorio. — Suo sdegno per la protezione accordata in Napoli ai Colonna. — Preparativi di guerra in Roma. — Carcerazione di cardinali e inviati dell’imperatore; inutile protesta del duca d’Alba, che, ormai certo dei propositi del papa, inizia l’offensiva con rapidi progressi. — Carlo V lascia la vita politica. — Il duca di Guise scende in aiuto del papa. — Creazione cardinalizia del marzo 1557. — Prigionia del cardinale Morone e rimozione del Pole dalla legazione inglese, per accusa di eresia. — Rovesci delle armi del Guise e suo richiamo in Francia dopo la battaglia di San Quintino. — Fortunata campagna del duca d’Alba. — Pace di Cave: visita di sottomissione del duca a Roma.]

Immediate dopo la creazione del novo pontefice li imperiali e li francesi a gara usarono ogn’arte per acquistarselo. Ma il cardinale di Lorena, che molto bene ne penetrava l’umore, [p. 203 modifica] lo confermò nell’affezione francese, dicendogli in consistoro, oltre diversi uffici fatti in privato, che il re conosceva la chiesa gallicana aver bisogno di riforma, ed esser parato di aiutar Sua Santitá o mandando li prelati al concilio, se ella giudicava bene, o in qualonque altro modo li fosse parso piú opportuno.

Fra tanto si prosegui la dieta in Germania, non senza contenzioni, le quali maggiori sarebbono state se il Cardinal Morone fosse restato presente, cosí per li uffici che averebbe fatto, come per le suspizioni giá concette nell’animo de’ protestanti che fosse mandato solo per fine di opporsi alli comodi loro. E giá era per tutto pubblicato che Roma si trovava piena di speranza di ricever presto sotto il giogo la Germania come l’Inghilterra. Partito il cardinale, fu prima difficoltá se si doveva trattare inanzi ad ogn’altra delle cose della religione; e se bene nel principio li ecclesiastici contradicevano, fu risoluto finalmente di comun consenso che da quella si dasse principio; e due furono le proposizioni contrarie: l’una, che si trattasse delli mezzi di riformarla; l’altra, che si dovesse lasciarla in libertá di ciascuno: sopra che fu grandissima controversia. Ma finalmente parve che tutti inclinassero alla seconda, non sapendo trovar medicina bastante a sradicare il male che ancora era in moto, ma ben sperando che, quietati gli umori e levate le differenze e sospetti, si potessero aprir molte facili e comode vie: al che fare era necessario stabilir una buona pace, e che per causa della religione non si facesse piú guerra, e fosse lecito ad ognuno delli principi e altri ordini dell’Imperio seguir e far osservar nel li stati suoi quello che piú li piacesse. La qual risoluzione quando si fu per stabilire, le controversie si eccitarono maggiori; perché quelli della confessione augustana pretendevano che a tutti fosse lecito accettar la loro dottrina, ritenendo li onori, stati e gradi che possedevano. Per il contrario li cattolici non volevano che fosse permesso alli ecclesiastici mutar religione ritenendo il grado; ma se un vescovo o abbate abbracciasse l’altra, dovesse perder la dignitá; né meno alle cittá che avevano, giá [p. 204 modifica] sette anni, ricevuto il decreto di Augusta dell’Interim, fosse permesso ritornar alla confessione augustana.

Passarono da una parte e dall’altra scritture sopra ciò, e finalmente l’una parte e l’altra rallentò il rigore. Li ecclesiastici si contentarono che le cittá facessero a modo loro, e li protestanti cessero la pretensione quanto agli ecclesiastici. E a’ 25 di settembre fu fatto il recesso: che essendo necessario, per ultimar legittimamente le cose della religione, un concilio generale o nazionale, né potendosi congregar per molte difficoltá, tra tanto che si apriva strada ad un’amicabile concordia di religione per tutta Germania, Cesare, Ferdinando, li principi e stati cattolici non potessero sforzar li principi, ordini e stati della confessione augustana a lasciar la loro religione e ceremonie giá instituite o da instituirsi nei loro domini; che non potessero operar alcuna cosa in sprezzo o vilipendio, né impedirli il libero uso di quella religione; e similmente quelli della confessione augustana dovessero portarsi verso Cesare e Ferdinando e li altri principi e stati della religione antica, cosí ecclesiastici come secolari, potendo ciascuno nello stato suo stabilir qual religione li piacerá, e proibire l’altra. E se alcun ecclesiastico abbandonerá la vecchia, non li sia d’alcuna infamia, ma perda subito li benefici, e da chi tocca sia proveduto d’un altro. E quanto alli benefici giá applicati dalli protestanti alle scole o ministeri della Chiesa, restino nel medesmo stato. Che non si eserciti giurisdizione ecclesiastica contra quelli della confessione augustana: del rimanente quella sia esercitata secondo l’antico costume.

Formato il recesso, un’altra difficoltá nacque; per rimover la quale Ferdinando, usando l’assoluta potestá imperiale del fratello, dechiarò, consentendo l’ordine ecclesiastico, che li titolati e le cittá e comunitá sottoposte a principi ecclesiastici, li quali da molti anni avevano aderito alla confessione augustana e giá ricevuto li riti e ceremonie di quella, osservandole anco tuttavia, non potessero dalli principi loro ecclesiastici esser costretti a mutarli, ma possino continuare sino alla generale concordia di religione che sará conclusa. [p. 205 modifica]

Il pontefice Paulo, udito il recesso d’Augusta, si alterò gravissimamente; ne fece gran querela coll’ambasciatore imperiale e col cardinale d’Augusta, reprendendo che senza saputa della sede apostolica si fosse da Ferdinando introdotto trattazione in materia della religione, e minacciando che a suo tempo averebbe fatto conoscere e all’imperatore e a quel re, con molto loro pentimento, l’offesa fatta alla sede apostolica; esortava a prevenire con revocar e annullare le cose concesse, per levar a lui l’occasione di procedere, come era per fare, non solo contra li luterani, ma anco contra loro come fautori; offerendosi anco di aiutare, quando a ciò si disponessero, con l’autoritá e con le armi, e comandare a tutti li principi cristiani, sotto pene e censure, che gli assistessero con tutte le loro forze. Non si quietò per la risposta dell’ambasciatore, che allegava la forza de’ protestanti, la guerra contra Cesare, dove ebbe a restar prigione in Inspruch, e li giuramenti prestati. Perché alli giuramenti rispondeva che egli li liberava e assolveva, anzi li comandava che non li riguardassero; al rimanente diceva che nelle cause di Dio non si procede con li rispetti umani; che l’imperator è stato in pericolo per divina permissione, non avendo egli fatto tutto quello che poteva e doveva, a fine di ridur la Germania all’obedienzia della sede apostolica: che per questo li ha dato segno dell’ira sua; il che all’avvenire se non li sará documento, doverá aspettar da Dio maggior punizione, sí come diportandosi da vero soldato di Cristo, intrepidamente e senza rispetti mondani, ottenirá ogni vittoria, come li esempi dei secoli passati dimostrano.

Era fama che il papa cosí trattasse non solo per propria mente, ma eccitato dal Cardinal d’Augusta, al quale non poteva piacere la libertá concessa alli confessionisti. È ben cosa certa che Paulo, come quello che era d’animo grande e vasti pensieri, teniva per sicuro di poter rimediare a tutti li disordini con la sola sua autoritá pontificale, né reputava aver bisogno in ciò di principe alcuno: solito di non parlar mai con ambasciatori, se non intonandoli nelle orecchie che [p. 206 modifica] egli era sopra tutti li prencipi, che non voleva che alcuno d’essi si dimesticasse seco, che poteva mutar li regni, che era successor di chi ha deposto re e imperatori; e spesso rammemorava, per principio dell’autoritá esercitata da lui, che aveva eretto un regno alli iberni. E passava tanto inanzi, che in consistoro, e anco alla mensa, in pubblico, in presenza di molte persone, diceva di non voler alcun principe per compagno, ma tutti per sudditi «sotto questo piede (cosí diceva percotendo la terra) come è conveniente, e come ha voluto chi ha edificato questa Chiesa e ci ha posto in questo grado». E usava qualche volta d’aggiongere: «Piú tosto che far una viltá, vorressimo morire, rovinar ogni cosa e appiccare fuoco in tutte quattro le parti del mondo».

Il naturale di Paulo IV era di grande animo e ardire, confidava molto nel suo sapere e nella buona fortuna che gli era stata compagna in tutte le imprese; alla quale aggionto il potere e la fortuna del pontificato, riputava ogni cosa facile. Ma in lui fluttuavano a vicenda due umori: uno che, per la consuetudine sempre usata di valersi in ogni azione della religione, l’induceva ad adoperare la sola autoritá spirituale; l’altro gli era eccitato da Carlo Carafa suo nepote, che soldato di valore ed esercitato nella guerra, fatto di salto cardinale, riteneva li spiriti marziali: lo persuadeva a valersi della temporale, dicendo che quella senza questa è disprezzata, ma congionte possono esser instromenti di gran cose. Ma all’avveduto vecchio era molto ben noto che anco s’indebolisce la spirituale, quando si mostra aver bisogno del temporale: ma stando sempre fisso a volersi far gran nome, ora dava orecchie al nepote, ora credendo piú a se medesimo. In fine pensò di trattar il temporale in secreto, e lo spirituale in palese, per poter poi, continuando questo, o aggiongerci le imprese temporali giá ordite, o tralasciarle, come dagli evenimenti fosse stato consegliato. Per il che insieme col nepote trattò secretissimamente col Cardinal di Lorena una lega col re di Francia: la quale come fu quasi digesta, per levar tutti li sospetti Lorena parti da Roma, e vi andò il [p. 207 modifica] cardinale di Tornon, col quale fu con la stessa secretezza conclusa. Il capo principale della quale era l’acquisto del regno di Napoli per un figlio cadetto del re, ma con grand’amplificazione dello stato ecclesiastico, al quale si davano per confini San Germano e il Garigliano, e de lá dell’Apennino il fiume Pescara oltre Benevento: e quello che di piú s’era anco convenuto per li rispetti del papa.

Giudicò anco il pontefice necessario, per farsi appoggio cosí per l’una come per l’altra impresa, far una promozione de cardinali dependenti da sé, e persone di ardire, che non si ritirassero dal seguir i suoi disegni e implicarsi in ogni ardua impresa. Di questa promozione si cominciò a parlar qualche giorni inanzi che si mettesse in effetto; onde li cardinali si gravavano che si disegnasse contravvenir al capitolo giurato; e sopra tutti li imperiali, attesa la qualitá delle persone che erano proposte, pensavano di volersi opporre. Il di 20 decembre, essendo entrato il pontefice in consistoro, subito sentato disse non voler quella mattina dar audienza ad alcuno, avendo a propor cose maggiori. Dal che intendendo ognuno che la materia doveva esser di crear novi cardinali, il Cardinal di San Giacomo se li fece alla sedia per parlare; e ricusando il pontefice, né desistendo il cardinale, li diede una mano nel petto, e se lo scacciò da presso. Sentati tutti, incominciò il papa a lamentarsi di quelli che disseminavano lui non poter fare piú di quattro cardinali per le cose giurate in conclavi; e diceva che era un voler legar l’autoritá pontificia, quale è assoluta: esser articolo di fede che il papa non può esser obbligato, né meno può obbligar se stesso; il dir altramente esser eresia manifesta, dal delitto della quale assolveva quelli che erano incorsi, giudicando che non avessero parlato con pertinacia; ma se alcuno all’avvenire dirá quelle o simil cose contra l’autoritá datagli da Dio, ordinerá che l’inquisizione proceda. Aggionse che voleva far cardinali, e non voleva replica, perché aveva bisogno di persone da servirsi; cosa che non poteva far di loro, avendo tutti essi la propria fazione: che conveniva promovere persone di dottrina e vita [p. 208 modifica] esemplare, a fine di adoperarli per riforma della Chiesa, e massime nel concilio, del qual era tempo che ormai si trattasse seriamente; del quale arerebbe con la prima occasione fatta la proposta. Ma per allora, come cosa da non differir piú longamente, proporrebbe loro li soggetti da promover al cardinalato, acciò, avendo voto consultivo, potessero considerarli quello che fosse in beneficio della Chiesa, nel che li averebbe uditi; ma non si credessero di aver il decisivo, perché questo a lui solo aspetta. Propose sette soggetti, nel qual numero uno solo era parente suo, e un altro della congregazione sua teatina: gli altri, uomini di molta fama o per lettere o in maneggio della corte. Tra questi fu Gioanni Groppero di Colonia, di cui di sopra si è parlato piú volte; il qual conoscendosi di poca vita, e riputando dover onorar molto piú la sua memoria con ricusar una dignitá, universalmente anco da principi grandi ambita, che col tenerla pochi giorni dar molta materia agli emuli suoi di parlare, rimandò molte grazie al pontefice insieme con la escusazione, e ricusate le insegne, non vòlse né il nome né il titolo. Furono li cardinali creati, essendo la dominica precedente, che fu a’ 15, stipulata la lega con Francia.

In questo tempo il Cardinal Polo, che per molti rispetti di successione e per non mostrarsi tanto ristretto col pontificato non aveva voluto ricever gli ordini ecclesiastici, cessate queste cause, uscí del numero de’ diaconi cardinali e si ordinò prete; e quattro mesi dopo, essendo stato abbruggiato con molte ceremonie di degradazioni l’arcivescovo di Cantorberi, fu sustituito in quel grado in luoco di quello.

Li popoli d’Austria, per il recesso fatto in dieta, e piú per la dechiarazione aggionta da Ferdinando a favore delle cittá e nobili e sudditi dei principi ecclesiastici, entrarono in speranza di poter ritener essi ancora libertá di religione. E avendo Ferdinando chiamata dieta de’ suoi sudditi in Vienna per aver contribuzione contra li turchi che li movevano guerra, li dimandarono che li fosse permesso sino ad un concilio generale e libero di viver in puritá di religione e goder il [p. 209 modifica] beneficio concesso a quelli della confessione augustana, esponendo al re che li flagelli de’ turchi sono visite di Dio per invitar all’emenda della vita; che invano si pigliano le armi contra il nemico, non pacificata prima l’ira di Dio, quale vuol esser onorato secondo il suo prescritto, non a capricci umani. Supplicavano di non esser di peggior condizione degli altri germani, e che li ministri della Chiesa potessero insegnar e distribuir li sacramenti secondo la dottrina evangelica e apostolica; e che li maestri di scola non fossero sbanditi, se non conosciuta la causa per giustizia: con questo offerendosi di far tutto quello che li fosse stato in piacere, con la vita e roba.

Al che Ferdinando rispose che a lui non era lecito concederli quanto dimandavano, non per mancamento di volontá di gratificarli, ma perché era obbligato ubidir alla Chiesa; che egli e Cesare avevano sempre detestate le discordie della religione, per rimediar a che avevano anco instituito diversi colloqui, e finalmente procurato il concilio di Trento; quale se non ha sortito esito felice, non dover esser a loro imputato, sapendosi con che consegli e artefici sia stato da altri impedito; essersi doppoi fatto l’editto a favore della confessione augustana, del quale essi erano molto ben partecipi, perché in quello si diceva che ogni principe non ecclesiastico potesse elegger qual delle due religioni li piacesse, e il populo dovesse seguitar quella del suo principe, della quale se alcuno non si contenta, ha libertá di vender li suoi beni e andar dove li piace. Per il che il loro debito esser di rimaner nella vecchia religione cattolica che egli professa; ma per condescender alli loro desideri, per quanto poteva, si contentava di suspender quella parte del suo editto toccante la comunione del calice, con tal condizione però, che non mutassero alcun’altra cosa nelle leggi e ceremonie della Chiesa sino al decreto della futura dieta; e non desiderando niente di piú, contentarsi di concorrere prontamente alle contribuzioni contra il nemico.

Li bavari ancora ricercavano il suo duca di libertá di religione, dimandando la libera predicazione dell’evangelio, [p. 210 modifica] il matrimonio de’ preti, la comunione sub utraque e il mangiar carne ogni giorno, protestando che altrimente non pagarebbono gravezze né contribuzioni contra turchi. Il qual, vedendo che Ferdinando suo suocero aveva concesso a’ suoi la comunione del calice, per aver esso ancora aiuti di denari da loro, li concesse che potessero usar la comunione del calice e mangiar carne per necessitá nei giorni proibiti, sin che le cose della religione fossero accordate con pubblica autoritá, restando nondimeno in vigore li editti fatti da lui in materia della religione; protestando con molte e ampie parole di non voler partirsi dalla Chiesa e dalla religione de’ suoi maggiori, né mutar nelle ceremonie cosa alcuna senza la volontá del pontefice e dell’imperatore; promettendo di far opera che il metropolitano e vescovi suoi approvino questa concessione e non diano molestia ad alcuno per queste cause. Il Palatinato tutto abbracciò la confessione augustana, per esser morto l’elettore e successo il nepote, il quale era dechiarato di quella confessione giá molti anni, per quale anco aveva molte persecuzioni patito. Egli, gionto al principato, immediate proibí le messe e ceremonie romane per tutto il suo principato.

Ma il pontefice, fatti li fondamenti di sopra narrati, voltato alle cose spirituali, giudicò che era necessario acquistare credito appresso il mondo; il che non si poteva, se prima non si fosse veduta in fatti, e non in parole, riformata la corte di Roma. Per il che, tutto intento a questo, nel fine di gennaro del 1556 eresse una congregazione, dove erano ventiquattro cardinali, quarantacinque prelati e altre persone, le piú litterate della corte, al numero di cencinquanta, e li divise in tre classi, in ciascuna de quali erano otto cardinali, quindici prelati e altri al numero di cinquanta. A questi diede a discutere dubbi tutti nella materia della simonia, li quali mise in stampa, e ne mandò copia a tutti li principi; e diceva averli pubblicati cosí, acciò pervenissero a notizia di tutte le universitá e studi generali e d’ogni uomo litterato, e avessero occasione tutti di far sapere il parer loro, quale egli non aveva voluto richiedere apertamente, per non esser dignitá di quella [p. 211 modifica] sede, che è maestra di tutti, di andar mendicando il parer d’altri. Diceva ancora che per se medesmo non aveva bisogno d’instruzione di nessuno, perché sapeva quello che Cristo comandava; ma aveva eretto la congregazione, acciò in una cosa dove tutti erano interessati non si dicesse che volesse far di suo capo. Aggiongeva che quando avesse nettato sé e la sua corte, che non li potesse esser detto: «Medico, guarisci te stesso», mostrerá alli principi che nelle loro corti è maggior simonia; e vorrá levarla, essendo cosí superior alli principi come alli prelati.

Nella prima congregazione della prima classe, la qual fu tenuta a’ 26 marzo inanzi il cardinale Bellay decano del collegio, parlarono dodici, e furono tre opinioni. Una del vescovo di Feltre, il qual difese che per l’uso della potestá spirituale non era inconveniente il pigliar danari, quando non sia per prezzo, ma per altro rispetto. L’altra del vescovo di Sessa: che ciò non fosse lecito in nissun modo e con nissuna condizione, e che assolutamente fosse simonia detestabile cosí il dar come il ricever, non potendo scusar pretesto di qualsivoglia sorta. La terza del vescovo di Sinigaglia, media tra queste due: che fosse lecito, ma in certo tempo solamente e con certe condizioni. Finiti li voti di quella classe nelli giorni seguenti, e portati al pontefice, fatte le feste di Pasca, egli, vedendo la diversitá delle opinioni, fu quasi in resoluzione di pubblicar una bolla secondo il suo senso, che non fosse lecito ricever premio o presente o elemosina, non solo dimandata, ma né meno spontaneamente offerta per qualsivoglia grazia spirituale: e quanto alle dispensazioni matrimoniali, che non voleva piú concederne; e ancora era d’animo di rimediare, quanto si poteva senza scandalo, alle concesse per il passato. Ma tante furono le dilazioni e gl’impedimenti interposti da diversi, che non seppe venir a resoluzione.

Li proponevano alcuni che era necessario trattar una tal cosa in concilio generale; il che sentendo egli, con eccessiva scandescenzia diceva non aver bisogno di concilio, essendo sopra tutti. Ma al Cardinal Bellay, qual soggionse non esser [p. 212 modifica] necessario concilio per aggionger autoritá al pontefice, ma ricercarsi per trovar modo di esecuzione, la quale non può esser uniforme in tutti li luochi, concluse che, se bisognerá fará concilio in Roma, e che non è necessario andar altrove; e che pertanto egli mai aveva voluto dar il suo voto che il concilio si facesse in Trento, come era notorio, chè era un farlo in mezzo i luterani; perché il concilio si ha da far dalli vescovi solamente; che si possono ben ammetter per conseglio altre persone, ma cattoliche solamente, altrimente bisognerebbe ammetter anco il turco; e che era stata una gran vanitá mandar nelle montagne sessanta vescovi delli manco abili e quaranta dottori delli meno sufficienti, come giá due volte s’era fatto, e creder che da quelli potesse esser regolato il mondo meglio che dal vicario di Cristo col collegio di tutti li cardinali, che sono le colonne di tutta la cristianitá, scelti per li piú eccellenti di tutte le nazioni cristiane, e col conseglio delli prelati e dottori che sono in Roma, li piú letterati del mondo, e numero molto maggiore di quello che con ogni diligenza si può ridurre a Trento.

Ma quando andò nova a Roma della concessione del calice dal duca di Baviera fatta alli suoi sudditi, entrò in grandissima escandescenza contra di lui; pur mise questa appresso le altre cose a quali disegnava provveder tutt’insieme, pieno di speranza che ogni cosa li dovesse esser facile, reformata la corte, e non turbandosi, quantonque vedesse il numero crescere. Imperocché pochi giorni dopo l’ambasciator di Polonia, andato espresso per congratularsi con Sua Santitá per la sua assonzione al pontificato, li fece per nome del re e del regno cinque dimande: di celebrar la messa nella lingua polacca, di usar la comunione sub utraque specie, il matrimonio de’ preti, che il pagamento delle annate fosse levato, e che potessero far un concilio nazionale per riformar li propri abusi del regno e concordar la varietá delle opinioni. Le qual dimande ascoltò con indicibile impazienza, e si pose a detestarle acerrimamente ad una per una con eccessiva veemenzia. E per conclusione disse che un concilio generale in Roma farebbe [p. 213 modifica] conoscere le eresie e le male opinioni de molti, alludendo alle cose fatte in Germania, in Austria e in Baviera. Ed essendo il pontefice per queste ragioni quasi risoluto in se stesso, o volendo mostrar di esserne, che fosse necessario far il concilio, disse a tutti gli ambasciatori che scrivessero a’ suoi principi la deliberazione di far un concilio lateranense, simile a quell’altro cosí celebre; e destinò nonci all’imperatore e al re di Francia, per esortarli alla pace tra loro, se ben in Francia aveva negoziazione piú secreta. Diede commissione di ragionarli del concilio; e nel consistoro con longo ragionamento (come egli era molto abbondante) disse esser necessario celebrarlo presto, poiché oltra la Boemia, Prussia e Germania, quali erano grandemente infette (tal furono le formali parole), la Polonia ancora stava in pericolo; né la Francia e la Spagna stavano bene, dove il clero era maltrattato. Quanto alla Francia, quello che egli principalmente riprendeva era l’esazione delle decime, che il re riscuoteva dal clero ordinariamente. Ma contra Spagna era maggiormente irritato, perché essendo stato concesso da Paulo III e Giulio all’imperator Carlo per sussidio delle guerre di Germania li mezzi frutti e quarte, egli, non sodisfatto del recesso d’Augusta, revocò la concessione: ma in Spagna si perseverava, riscuotendo anco per forza di sequestri e carceri.

Non si asteneva di dire che l’imperatore era un eretico, che nelli principi favori li innovatori di Germania per abbassar quella santa sede, a fine di farsi patrone di Roma e di tutta Italia; che tenne Paulo III in perpetui travagli, ma non li riuscirebbe l’istesso verso lui. Aggiongeva che, se ben a questi inconvenienti tutti egli aveva autoritá di rimediare, non voleva però farlo senza un concilio, per non pigliar tanto carico sopra sé solo; che l’averebbe convocato in Roma e chiamato lateranense: e aveva dato commissione di significarlo all’imperatore e al re di Francia per urbanitá, ma non per aver da loro consenso o conseglio, perché vuole che obediscano. Che era ben certo non dover piacer a nessuno delli due principi, per non esser a loro proposito, vivendo come [p. 214 modifica] fanno, e che diranno molte cose in contrario per disturbarlo: ma lo convocherá contra il loro volere, e fará conoscer quanto può quella sede, quando ha un pontefice animoso. Il 26 del mese di maggio, anniversario della sua coronazione, desinando con lui, secondo il solito, tutti li cardinali e ambasciatori, dopo il desinare entrò in ragionamento del concilio: e disse la sua deliberazione esser di celebrarlo onninamente in Roma, e che per urbanitá lo faceva intender alli principi, e acciò che li prelati avessero le strade sicure. Però, quantonque non vi fossero andati altri prelati, l’averebbe fatto con quelli soli che si ritrovavano in corte, perché sapeva ben lui quanta autoritá aveva.

Mentre il papa è attento alla riforma, andò avviso a Roma essere stata conclusa per mezzo del Cardinal Polo, che per nome della regina d’Inghilterra s’interpose, la tregua tra l’imperatore e il re di Francia a’ 5 di febbraro: le qual cose resero attonito il pontefice, e maggiormente il Cardinal Carafa, essendo trattata e conclusa senza loro. Al papa principalmente dispiaceva per la diminuzione della riputazione, e per li pericoli che portava, se quei prencipi si fossero congionti; a discrezione de’ quali li sarebbe convenuto stare. Al cardinale, impaziente della quiete, pareva che cinque anni nella decrepita etá del zio gli levavano totalmente le occasioni di adoprarsi a scacciar dal Regno li spagnoli tanto da lui odiati; con tutto ciò non perduto d’animo, mostrò il papa sentir allegrezza della tregua, non però contentarsene intieramente, poiché per il concilio che disegnava fare, diceva esser necessaria una pace: la qual egli era risoluto trattare, e a questo fine mandar legati all’uno e all’altro principe, essendo certo di doverla concludere, perché voleva adoprar l’autoritá. Non voleva esser per le loro guerre impedito dal governo della Chiesa, commessogli da Cristo. Destinò legati all’imperatore Scipion Rebiba Cardinal di Pisa e al re di Francia il Cardinal Carafa nipote. Questo andò in diligenza; all’altro fu dato ordine di camminar lentamente. Al Rebiba diede instruzione di esortar l’imperatore all’emendazione di Germania, la quale non s’aveva sin allora [p. 215 modifica] effettuata, perché nessuno aveva in quell’impresa camminato di buon piede. Conosceva li mancamenti de’ suoi precessori, li quali, per impedir la riforma della corte, impedirono ogni buon progresso del concilio. Tutt’in contrario egli deliberava esser il promotor della riforma, e deliberava di celebrar un concilio inanzi sé, e da questo capo incominciare, con certezza che, quando li protestanti avessero veduto tolti quegli abusi per quali si sono separati dalla Chiesa e restano tuttavia contumaci, desidereranno e correranno a ricever li decreti e ordinazioni, e si fará un concilio dove si reformará non in parole, ma in fatti, il capo, i membri, l’ordine ecclesiastico e laicale, li principi e li privati. Ma per far cosí buon’opera non esser bastante una tregua di cinque anni, imperocché nelle tregue li sospetti non sono minori che nella guerra, e sempre si sta sul prepararsi per quando finiranno: esser necessaria una pace perpetua, che levi tutti li rancori e sospizioni, acciò unitamente tutti possino senza fini mondani tender a quello che concerne l’unione e reforma della Chiesa. Dell’istesso tenore fu l’instruzione che diede al Carafa; ed ebbe gusto che queste si pubblicassero e ne uscisse qualche copia.

Credeva la corte universalmente che il papa facesse cosí frequente ed efficace menzione di concilio, acciò altri non lo proponesse a lui, e con quello minacciasse principi e tutto il mondo, a fine di far che l’aborrissero; ma si conobbe dopo che per altra via egli disegnava liberarsi dalla molestia data a’ suoi precessori. Imperocché quando si proponeva la sola riforma del pontefice e della corte, e degli esenti e privilegiati dependenti dal pontificato, si giocava solo sopra il suo, e ognuno, cosí principe come popolo e privato, non trattandosi di poter perder per loro, insisteva in sollecitare il concilio; ma proponendo egli riforma dell’ordine ecclesiastico tutto, e del laicale ancora, e de’ prencipi massime, con una inquisizione severissima che disegnava instituire, metteva le cose al pari, sí che non si averebbe trattato di lui solo, ma degli altri piú principalmente. E questo era l’arcano col quale disegnava tener tutti in timore e sé in reputazione di bontá e [p. 216 modifica] valore; e quanto al concilio, governarsi secondo le congionture, tenendo però fermo il punto di farlo in Roma.

Ma tornando alli legati, al nepote diede instruzione libera di tentar l’anima del re, e quando lo vedesse risoluto a servar la tregua, intonarli l’istesso canto del concilio; e al Rebiba ordinò di governarsi nel piú e meno della via conforme a quello che il nepote gli avesse avvisato. Il Carafa portò al re la spada e il cappello benedetto dal papa la notte di Natale, secondo l’uso. Della pace non fece alcuna menzione: ma rappresentò al re che per la tregua di cinque anni, se ben non era violata la lega, era nondimeno resa vana, con gran pericolo del zio e di tutta la casa sua, poiché giá per le operazioni delli spagnoli ne avevano sentito qualche odore. Li raccomandò con grand’efficacia di parole la religione e il pontificato, de’ quali li suoi maggiori avevano tenuta unica e singoiar protezione, e il pontefice stesso, e la casa tanto devota a Sua Maestá. Il che non era alieno dalla mente del re; solo restava ambiguo per la decrepitá del papa, temendo che potesse mancar a ponto quando fosse maggior bisogno. Carafa, penetrato questo, trovò rimedio, promettendo che il papa farebbe tal numero de cardinali parziali di Francia e nemici de spagnoli, che averebbe sempre un pontefice dalla sua. Le persuasioni del cardinale, con la promessa della promozione e l’assoluzione che gli diede per nome del papa dal giuramento delle tregue, congionte con gli uffici del Cardinal di Lorena e fratello, fecero risolver il re a mover la guerra, contuttoché li principi del suo sangue e li grandi della corte aborrissero l’infamia di romper la tregua e ricever assoluzione del giuramento. Fatta la conclusione, il Carafa rechiamò il legato destinato all’imperatore, che era gionto a Mastric, e lo fece divertir dall’andar a Cesare, dal quale era lontano due sole giornate, e voltar in Francia. Il che diede indicio manifesto all’imperatore e al re suo figlio che in Francia fosse stato concluso cosa contra di loro.

Crescevano ogni giorno maggiormente li disgusti del pontefice contra l’imperatore e il re suo figlio. Aveva il pontefice [p. 217 modifica] formato un severissimo processo contra Ascanio Colonna e Marcantonio suo figlio, per molte offese che pretendeva fatte alla sede apostolica da Ascanio, sino quando Clemente fu assediato, e poi contra Paulo III e Giulio; e da Marcantonio contra sé e lo stato della Chiesa. E narrate in consistoro tutte le ingiurie fatte nei tempi vecchi dai colonnesi alla sede apostolica, aveva scomunicati Ascanio e Marcantonio, privatili d’ogni dignitá e feudo, con censure contra chi li prestasse aiuto o favore, e confiscate tutte le loro terre nello stato della Chiesa, datele al conte di Montorio suo nepote, con titolo di duca di Paliano. Marcantonio, ritirato nel Regno, fu ricevuto, e alle volte con qualche numero di gente scorreva nelli luochi giá suoi; il che irritava l’animo del papa sommamente. Il quale, stimando che li suoi cenni dovessero esser a tutti comandamenti e di poter metter terrore ad ognuno, non poteva comportar che a Napoli sua patria, dove averebbe voluto esser tenuto per onnipotente, fosse cosí poco stimato. Riputava nel principio, col straparlare del re e dell’imperatore, intimorirli e farli desistere dal prestar favori a’ colonnesi, e perciò frequentissimamente passava a parole piene di vituperio, in presenza d’ogni sorte di persone; e ritrovandosi alcun cardinale spagnolo presente, le diceva piú volentieri, e poi in fine comandava che li fossero scritte.

Non facendo alcuna di queste prove effetto, passò piú inanzi, e il 27 luglio fece comparer in consistoro il fiscale con Silvestro Aldobrandino avvocato consistoriale, quali esposero che avendo la Santitá sua per delitti scomunicato e privato Marcantonio Colonna, e proibito sotto le medesime censure ad ogni sorte di persona l’aiutarlo o favorirlo, ed essendo notorio che l’imperator e il re Filippo suo figlio l’avevano sovvenuto di cavalli, fanti e danari, erano incorsi nella pena della sentenzia e caduti dalli feudi. Per il che facevano instanza che Sua Santitá venisse alla declaratoria, e mettesse ordine all’esecuzione. Il pontefice rispose che col conseglio de’ cardinali avviserebbe: e licenziatigli, propose in consistoro quello che in caso di tanta importanza fosse da fare. Li cardinali francesi [p. 218 modifica] parlarono con molto onore dell’imperatore e del re Filippo, ma in modo che il pontefice veniva grandemente eccitato: li imperiali con parole di ambiguo senso, e indirizzate a portar tempo inanzi. Li teatini, propri cardinali del papa, dissero cose molto magnifiche dell’autoritá pontificia e del valor e prudenza di Sua Santitá, sola atta a trovar rimedio a quel male, lodando tutte le cose fatte, e rimettendosi quanto al rimanente. Licenziato il consistoro senza che resoluzione fosse presa, il papa conobbe che bisognava o ceder o venir alla guerra. Dalla quale non aborrendo per il naturale suo pieno di ardire e di speranze, opportunamente li vennero avvisi dal nepote delle cose concluse in Francia: onde cessarono per tanto li ragionamenti di riforma e di concili, e si mutarono in discorsi di danari, soldati e intelligenze; delle qual cose, come non pertinenti al proposito mio, dirò solo quel che può mostrare qual fosse l’animo del papa, e quanto dedito alla riforma vera della Chiesa, o almeno alla colorata. Il papa in Roma armò li cittadini e abitatori, distribuendoli sotto li capi delli rioni, che cosí chiamano, e li rassegnò in numero di cinquemila, per la maggior parte artegiani e forestieri; fece fortificar molte delle sue terre e vi pose soldati di dentro; sollecitò che gli andassero tremila guasconi che il re di Francia inviava per mare, mentre si preparava l’esercito reale per passare in Italia, acciò il pontefice potesse sostenersi.

In questi maneggi e preparazioni di guerra il pontefice ebbe di molti sospetti, per quali serrò in Castello assai cardinali e baroni e altri personaggi. Impregionò anco Garcilasso di Vega ambasciator del re d’Inghilterra, cioè del re Filippo, e Giovan Antonio Tassis maestro delle poste imperiali. E al duca d’Alva, che mandò a protestarli del tener in Roma li fuorusciti del Regno, dell’aver posto mano e ritener in carcere senza ragione le persone pubbliche, e d’aver aperto lettere del re e fattogli altri oltraggi (che tutti questi accidenti erano avvenuti), soggiongendo che il re per conservazione della propria riputazione e della ragione delle genti non poteva restar, quando Sua Santitá avesse perseverato in azioni cosí [p. 219 modifica] offensive, di propulsar l’ingiuria, il papa rimandò risposta che era principe libero e a tutti gli altri superiore, non obbligato a render conto ad alcuno, ma con potestá di dimandar conto ad ogni principe; che aveva potuto trattener e veder le lettere di qualsivoglia, avendo indici che fossero a danno della Chiesa; che se Garcilasso avesse fatto ufficio d’ambasciatore, non gli sarebbe avvenuta cosa sinistra; ma avendo tenuto mano a trattati, mosse sedizioni e macchinato contra il principe a cui era mandato, aveva mal operato come privato, e come tale voleva punirlo; che egli per qual si voglia pericolo non mancherebbe mai alla dignitá della Chiesa e alla difesa di quella sede, rimettendo tutto a Dio, dal quale era posto a guardiano del gregge di Cristo.

E continuando tuttavia il papa a provvedersi, il duca d’Alva, risoluto che meglio fosse assaltare che esser assaltato, mandò di novo a protestarli che, avendo il re sostenuto tante ingiurie e conoscendo la mente di Sua Santitá di volerli levar il regno di Napoli, e tenendo per certo che ha perciò fatto lega coi suoi nemici, non poteva il re continuar con esso lui in quella maniera; però, se Sua Santitá voleva la guerra, gliel’annonciava, e presto l’averebbe mossa, protestando dei danni, e voltando sopra esso pontefice la colpa; ma se anco voleva una buona pace, gliel’offeriva con ogni prontezza. Ma mostrando il papa di voler pace, non rispondendo però se non parole generali e interponendo tempo, il 4 settembre diede il duca alla guerra principio; nella quale in quell’anno 1556 prese quasi tutta la Campagna, tenendola per nome del futuro pontefice, e si accostò a Roma cosí vicino, che pose in terrore tutta quella cittá, e si diedero tutti a munirla e fortificarla. E il pontefice, per insegnar alli governatori dei luochi quello che debbono fare in tal casi, costrinse tutti li religiosi, di qual stato e qualitá si fosse, a portar terreno con la zerla in spalla per edificar li baloardi. Tra gli altri luochi che avevano bisogno di terrapieno, uno era appresso alla Porta del Populo che termina la via di Flaminia, dove è una chiesa della Madonna di molta devozione; la quale volendo spianare, il duca d’Alva mandò [p. 220 modifica] a pregar il papa che si lasciasse in piedi, dando parola e giuramento che per nessun rispetto si sarebbe mai valuto dell’opportunitá di quel luogo. Ma la grandezza della cittá e altri rispetti e pericoli consegliarono il duca, non tentata Roma, di attendere ad altre imprese minori.

Diede molta materia a ragionamenti che in quest’anno Carlo imperatore si partí di Fiandra e passò in Spagna per ridursi a vita privata in luoco solitario: onde si faceva parallelo d’un principe versato nella fanciullezza nei maggior negozi e imprese del mondo, che quinquagenario avesse risoluto di abbandonar il secolo e attender solo a servir Dio, mutato di potentissimo prencipe in umilissimo religioso, con uno che altre volte avea abbandonata la cura episcopale per ritirarsi in monastero, e ora, ottuagenario, fatto papa, si fosse tutto abbandonato alle pompe, alla superbia, e avesse concetto di far ardere tutta Europa di guerra.

Nel principio del 1557 il duca di Guisa passò con le armi in Italia a favore del pontefice. Il qual, per servar la promessa del nepote al re di Francia, fece una promozione di dieci cardinali; la quale non corrispondendo né quanto al numero né per la qualitá dei soggetti alla intenzione data e al fine concertato, fece sua scusa con dire d’esser cosí strettamente congionto con Sua Maestá che li dipendenti suoi non cedevano alli propri francesi nella servitú del re, e doveva tener per certo che erano tutti per lui; quanto al numero, che per allora non poteva promoverne di piú, poiché il numero era eccessivo, arrivando a settanta; ma presto quel numero sarebbe diminuito col mancamento di alquanti rebelli, e supplito di persone dabbene: il che egli diceva per quelli che giá erano in Castello, e per altri, contra quali aveva disegno, cosí per cause di stato come per cause di religione. Imperocché egli non era cosí attento alla guerra che abbandonasse il negozio dell’inquisizione, quale diceva esser il principal nervo e arcano del pontificato. Ebbe alcuni indici contra il Cardinal Morone, che in Germania avesse qualche intelligenza, e lo fece pregione in Castello; e deputò quattro cardinali ad [p. 221 modifica] esaminarlo rigidamente, e per la complicitá impregionò Egidio Foscararo, vescovo di Modena.

Privò anco della legazione d’Inghilterra il Cardinal Polo, e lo citò a presentarsi pregione a Roma nell’inquisizione, avendo impregionato giá Tomaso Sanfelice, vescovo della Cava, suo amico intrinseco, come complice. E acciò dal cardinale non fosse preso pretesto di dimorare in Inghilterra sotto colore della legazione e delli bisogni di quelle chiese, creò cardinale alli tempori della Pentecoste Guielmo Poito vescovo di Salisberi, e lo constitui legato in Iuoco del Polo. E se bene la regina e il re, testificando il servizio che quel cardinale prestava alla fede cattolica, fecero efficaci uffici per lui, il papa non volse mai rimetter un ponto della rigidezza. Ubidí il Cardinal Polo, deponendo l’amministrazione e le insegne di legato e mandando a Roma Ormanetto per dar conto della legazione; ma egli non parti d’Inghilterra, allegando comandamento della regina, perché cosí essa come il re, tenendo per fermo che il pontefice vi avesse qualche passione, non volsero consentire alla partita. In Inghilterra fu preso gran scandolo, e molti cattolici si alienarono per questo; e in Roma non pochi l’avevano per calunnia inventata a fine di vendicarsi per la tregua trattata da lui tra li due re, essendo cardinale e legato, senza participazione di esso pontefice; sí come anco giá era stimata calunnia l’opposizione che nel conclave gli fece per impedirlo dal papato. Il novo legato, persona di gran bontá, ebbe li concetti medesimi; e se bene assonse il nome di legato per non irritar il papa, non esercitò mai il carico in nove mesi che visse dopo avuta la croce della legazione, anzi si portò con la stessa riverenza verso il Polo, come per inanzi.

Ma il duca di Ghisa, passato in Italia, mosse le armi in Piemonte, ed era d’animo di fermar la guerra in Lombardia e divertir in quel modo le armi prese contra il papa. Ma non glielo permise l’ardor grande del pontefice che il regno di Napoli fosse assalito. Da’ francesi erano le difficoltá conosciute, e il duca di Ghisa con li principali capitani andò in posta a [p. 222 modifica] Roma per far intender al papa quello che le buone ragioni di guerra portavano. In presenza del quale posto il tutto in consultazione, non lasciando la risoluzione del papa luoco a prender altra deliberazione, fu necessario sodisfarlo; né altro si fece che assaltar Civitella, luoco posto al primo ingresso della provincia di Abruzzo, dove l’esercito ebbe la ripulsa, con grave querela di Ghisa che li Carafa avessero mancato delle provvisioni promesse e necessarie. In somma le armi ecclesiastiche, cosí proprie come ausiliarie, furono poco da Dio favorite. Ma nel mezzo d’agosto accostandosi l’esercito del duca d’Alva sempre piú a Roma, non temendo del francese che in Abruzzo era trattenuto, e intesa dal papa la presa di Segnia con sacco e morte de molti, e il pericolo in che era il Paliano, riferí il tutto in consistoro con molte lacrime, soggiongendo che aspettava intrepidamente il martirio; maravigliandosi li cardinali con quanta libertá dipingesse a loro, consci della veritá, quella causa come di Cristo (e non profana e ambiziosa), quale egli diceva esser il principal nervo e arcano del pontificato.

Quando a ponto le cose del papa erano nelle maggior angustie, ebbe l’esercito del re di Francia appresso San Quintino cosí gran rotta, che per salute del regno fu il re costretto rechiamar il duca di Ghisa d’Italia con le genti che aveva, facendo intender al pontefice la sua inevitabile necessitá, concedendogli libertá di pigliar qual consiglio gli paresse piú utile per sé, e rimandandogli li ostaggi. Il pontefice negò la licenza di ritornare al Ghisa; sopra che essendosi tra loro gravemente conteso, il papa, non potendo ritenerlo, gli disse che andasse, poiché aveva fatto poco servizio al re, meno alla Chiesa, e niente all’onor proprio. Nel fine dell’istesso mese essendosi accostato il duca d’Alva a Roma, quella sarebbe stata presa, se il duca avesse avuto animo maggiore. Fu ascritta la sua ritirata a bassezza d’animo; egli diceva in pubblico aver temuto che, saccheggiata Roma, l’esercito si fosse dissipato, e restato il Regno esposto senza forze né difesa; ma in secreto, che ritrovandosi in servizio d’un re, che egli non sapeva se per [p. 223 modifica] soverchia riverenza avesse approvato l’azione, se n’astenne. Successe finalmente l’accordo tra l’Alva e li Carafi a’ 14 settembre, essendo la guerra durata un anno. Nelle convenzioni il papa non volle che fosse compreso né il Colonna né alcuno detti sudditi suoi; né meno che vi fosse parola per quale si mostrasse che egli avesse eccesso nella pregionia de ministri imperiali; anzi costantissimamente stette fermo che il duca d’Alva dovesse andar personalmente a Roma a dimandarli perdono e ricever l’assoluzione, dicendo chiaramente piú tosto che partirsi un filo da questo debito (che cosí lo chiamava) voleva veder tutto ’l mondo in rovina; che si trattava dell’onor non suo, ma di Cristo, al quale egli non poteva né far pregiudizio né rinonciarlo. Con questa condizione, e con la restituzione delle terre prese, si finí la controversia. Fu stimato prodigio che il medesimo giorno della pace il Tevere inondò sí fattamente che allagò tutto il piano di Roma e destrusse gran parte delle fortificazioni fatte al Castel Sant’Angelo. Il duca d’Alva andò personalmente a Roma a sottomettersi al pontefice e ricever l’assoluzione per nome del re e proprio; e successe che il vittorioso ebbe a portar la indegnitá, e il vinto a trionfare maggiormente che se vittorioso fosse stato; e non fu poca grazia che dal papa umanamente fosse raccolto, se ben con la solita grandezza fastosa.