In morte di Carlo Imbonati (1922)

Alessandro Manzoni

1806 Indice:Tragedie, inni sacri e odi.djvu Letteratura In morte di Carlo Imbonati Intestazione 28 novembre 2021 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Tragedie, inni sacri e odi


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in morte

di

CARLO IMBONATI

versi

a giulia beccaria

sua madre.


Ch’ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo
Casa.     


Se mai più che d’Euterpe il furor santo,
     E d’Erato il sospiro, o dolce madre,
     L’amaro ghigno di Talìa mi piacque,
     Non è consiglio di maligno petto.
     5Nè del mio secol sozzo io già vorrei
     Rimescolar la fetida belletta,
     Se un raggio in terra di virtù vedessi,
     Cui sacrar la mia rima. A te sovente
     Così diss’io: ma poi che sospirando,
     10Come si fa di cosa amata e tolta,
     Narrar t’udia di che virtù fu tempio

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     Il casto petto di colui che piangi;
     Sarà, dicea, che di tal merto pera
     Ogni memoria? E da cotanto esemplo
     15Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
     Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
     Pensiero i sensi m’avea presi; quando,
     Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
     Dentro limpida luce a me venire,
     20A tacit’orma. Qual mentita in tela,
     Per far con gli occhi a l’egra mente inganno,
     Quasi a culto, la miri, era la faccia.
     Come d’infermo, cui feroce e lungo
     Malor discarna, se dal sonno è vinto,
     25Che sotto i solchi del dolor, nel volto
     Mostra la calma, era l’aspetto. Aperta
     La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:
     Ma ricetto parea d’alti pensieri.
     Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
     30Non difficile il labbro. A me dappresso
     Poi ch’e’ fu fatto, placido del letto
     Su la sponda si pose. Io d’abbracciarlo,
     Di favellare ardea; ma irrigidita
     Da timor da stupor da reverenza
     35Stette la lingua; e mi tremò la palma,
     Che a l’amplesso correva. Ei dolcemente
     Incominciò: Quella virtù, che crea
     Di due boni l’amor, che sian tra loro
     Conosciuti di cor, se non di volto,
     40A vederti mi tragge. E sai se, quando
     Il mio cor ne le membra ancor battea,
     Di te fu pieno; e quanta parte avesti
     De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
     Non m’è, com’io bramava, a passo a passo
     45Per man guidarti su la via scoscesa,
     Che anelando ho fornita, e tu cominci,
     Volli almeno una volta confortarti
     Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
     Com’uom, che parla al suo maggiore, e pensa

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     50Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
     Risposi: Allor ch’io l’amorose e vere
     Note leggea, che a me dettasti prime,
     E novissime furo; e la dolcezza
     De l’esser teco presentia, chi detto
     55M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo
     Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
     Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
     Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
     Di te nutrissi desiderio, il pensa.
     60E come il pellegrin, che d’amor preso
     Di non vista città, ver quella move;
     E quando spera che la meta il paghi
     Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
     Se le torri bramate apparir veggia;
     65E mira più da presso i fondamenti
     Per crollo di tremuoto in su rivolti,
     E le porte abbattute, e fòri e case
     Tutto in ruina inospital converso;
     E i meschini rimasti interrogando,
     70Con pianto ascolta raccontar dei pregi
     E disegnar dei siti; a questo modo
     Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
     Di retto acuto senno, d’incolpato
     Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,
     75Non vantator di probità, ma probo:
     Com’oggi al mondo al par di te nessuno
     Gusti il sapor del beneficio, e senta
     Dolor de l’altrui danno. Egli ascoltava
     Con volto nè superbo nè modesto.
     80Io rincorato proseguia: Se cura,
     Se pensier di quaggiù vince l’avello
     Certo so ben che il duol t’aggiunge e il pianto
     Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
     Te perdendo, ha perduto. E se possanza
     85Di pietoso desio t’avrà condotto
     Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
     Grondar la stilla del dolor sul primo

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     Bacio materno. Io favellava ancora,
     Quand’ei l’umido ciglio e le man giunte
     90Alzando inver lo loco onde a me venne,
     Mestamente sorrise, e: Se non fosse
     Ch’io t’amo tanto, io pregherei che ratto
     Quell’anima gentil fuor de le membra
     Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo
     95Di Quei, ch’eterna ciò che a Lui somiglia.
     Chè finch’io non la veggo, e ch’io son certo
     Di mai più non lasciarla, esser felice
     Pienamente non posso. A questi accenti
     Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
     100Ma per gli occhi d’entrambi il cor parlava.
     Poi che il pianto e i singulti a le parole
     Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe
     Sarà dittamo e latte il raccontarle
     Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
     105E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
     Ten prego, dammi che d’un dubbio fero
     Toglierla io possa. Allor che de la vita
     Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
     Di possanza vital feceti a gli occhi
     110Il dardo balenar che ti percosse?
     O pur ti giunse impreveduto e mite?
     Come da sonno, rispondea, si solve
     Uom, che nè brama nè timor governa,
     Dolcemente così dal mortal carco
     115Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
     Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,
     Più non la vidi. E s’anco avessi innanzi
     Saputo il mio morir, per lei soltanto
     Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
     120Che dolermi dovea? Forse il partirmi
     Da questa terra, ov’è il ben far portento,
     E somma lode il non aver peccato?
     Dove il pensier da la parola è sempre
     Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
     125Voce lodata, ma nei cor derisa;

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     Dov’è spento il pudor; dove sagace
     Usura è fatto il beneficio, e brutta
     Lussuria amor; dove sol reo si stima
     Chi non compie il delitto; ove il delitto
     130Turpe non è, se fortunato; dove
     Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
     Dura è pel giusto solitario, il credi,
     Dura, e pur troppo disegual, la guerra
     Contra i perversi affratellati e molti.
     135Tu, cui non piacque su la via più trita
     La folla urtar che dietro al piacer corre
     E a l’onor vano e al lucro; e de le sale
     Al gracchiar voto, e del censito volgo
     Al petulante cinquettio, d’amici
     140Ceto preponi intemerati e pochi,
     E la pacata compagnia di quelli
     Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
     Segui tua strada; e dal viril proposto
     Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
     145Qualsia favilla, che mia mente alluma,
     Custodii, com’io valgo, e tenni viva
     Finor. Nè ti dirò com’io, nodrito
     In sozzo ovil di mercenario armento,
     Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
     150De l’insipida stoppia, il viso torsi
     Da la fetente mangiatoia; e franco
     M’addussi al sorso de l’Ascrea fontana.
     Come talor, discepolo di tale,
     Cui mi saria vergogna esser maestro,
     155Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
     Di tanto amor, che mi parea vederli
     Veracemente, e ragionar con loro.
     Nè l’orecchio tuo santo io vo’ del nome
     Macchiar de’ vili, che oziosi sempre,
     160Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
     L’operosa calunnia. A le lor grida
     Silenzio opposi, e a l’odio lor disprezzo.
     Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;

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     Ond’io lieve men vado a mia salita,
     165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
     Se di te vero udii che la divina
     De le Muse armonia poco curasti.
     Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
     Di chiaro esempio, o di veraci carte
     170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
     In onor sommo. E venerando il nome
     Fummi di lui, che ne le reggie primo
     l’orma stampò de l’italo coturno:
     E l’aureo manto lacerato ai grandi,
     175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
     E di quel, che sul plettro immacolato
     Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
     Cui, di maestro a me poi fatto amico,
     Con reverente affetto ammirai sempre
     180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
     Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
     Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
     L’immondizia del trivio e l’arroganza
     E i vizj lor; che di perduta fama
     185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
     Far di lodi mercato e di strapazzi.
     Stolti! Non ombra di possente amico,
     Nè lodator comprati avea quel sommo
     D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
     190Che per la Grecia mendicò cantando.
     Solo d’Ascra venian le fide amiche
     Esulando con esso, e la mal certa
     Con le destre vocali orma reggendo:
     Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
     195E Rodi a Smirna cittadin contende:
     E patria ei non conosce altra che il cielo.
     Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
     Sopravissuti, oscura e disonesta
     Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
     200E sporto il labbro, amaramente il tôrse,
     Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.

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     Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
     Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
     La via segnarmi, onde toccar la cima
     205Io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta,
     Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.
     Sentir, riprese, e meditar: di poco
     Esser contento: da la meta mai
     Non torcer gli occhi: conservar la mano
     210Pura e la mente: de le umane cose
     Tanto sperimentar, quanto ti basti
     Per non curarle: non ti far mai servo:
     Non far tregua coi vili: il santo Vero
     Mai non tradir: nè proferir mai verbo,
     215Che plauda al vizio, o la virtù derida.
     O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
     Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
     Non mi sia spento; a governar rimani
     Me, cui natura e gioventù fa cieco
     220L’ingegno, e serva la ragion del core.
     Così parlava e lagrimava: al mio
     Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
     Quella città, dove sarem compagni
     Eternamente. Ora colei, cui figlio
     225Se’ per natura, e per eletta amico,
     Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
     L’intensa amaritudine le molci.
     Dille ch’io so, ch’ella sol cerca il piede
     Metter su l’orme mie; dille che i fiori,
     230Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
     E gli rendo immortali; e tal ne tesso
     Serto, che sol non temerà nè bruma,
     Ch’io stesso in fronte riporrolle, ancora
     De le sue belle lagrime irrorato.
     235Dolce tristezza, amor, d’affetti mille
     Turba m’assalse; e da seder levato,
     Ambo le braccia con voler tendea
     A la cara cervice. A quella scossa,
     Quasi al partir di sonno io mi rimasi;

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     E con l’acume del veder tentando
     E con la man, solo mi vidi; e calda
     Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.