In Val di Bisenzio

Enrico Sequi

1883 Indice:Sequi - In val di Bisenzio, Pichi, Arezzo, 1883.djvu Prato (Italia) In Val di Bisenzio Intestazione 2 agosto 2021 100% Da definire

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IN VAL DI BISENZIO

OSSIA

GARIBALDI

SALVATO DALLE MANI DEGLI AUSTRIACI

EPISODIO

DEL 26 AGOSTO 1849



ricordi e documenti storici

dell’ingegnere

ENRICO SEQUI


AREZZO

tipografia buonafede fichi

1883

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IL 26 AGOSTO 1849


Mie Memorie


L’
anno 1849 fu a memoria di ognuno che lo ricordi, fluttuante come mare agitato dai venti che in esso si contrastano l’impero, spingendolo or per una parte, or per l’altra, per ridurlo a sollevarsi furioso, e seppellire nei suoi marosi, coloro che troppo fidenti in Esso, o troppo arditi, trovansi costretti da circostanze o spontanei a solcarlo.

La terribile tempesta, lo spaventoso uragano (che tal possiamo chiamare l’avvenuto del 12 aprile di quell’anno1) altro non fu che lo scoppio del tuono, foriero di una burrasca dannosa oltre ogni credere per la infelice Toscana, come altre ben segnalate epoche, lo furono per altre parti della misera Italia nostra.

Il corso di undici anni perduti nel caos, non ha per anche risarcito le piaghe di coloro che ne dovettero sopportare le percosse, nè allontanata la memoria di quei che in più modi sentironsi oppressi dalle dolorose vicende; ma se tristi [p. 4 modifica]furono per la maggior parte le avventure di quell’epoca che dovea esser foriera degli avvenimenti del 1859 non mancò l’ardito Nocchiero di soccorrere molti che pericolavano solcando in tanto rabbuffato mare, e strappandoli dalle mani dei furibondi e malvagi pirati, che a rendere più funesta e terribile la procella (erano chiamati)2 depositolli salvi in un lido ove in sicuro la lor vita traessero, e di colà rivolti gli occhi alle lontane spiaggie della desolata Patria, ad essa pensassero ed al modo di poter questa redimere dalla schiavitù, ed a magnanimo Re affidarla in custodia.

Se dolorosa è la memoria dei passati tempi felici, allorchè ci troviamo in miseria, addiviene pure sopportabile l’idea dei passati travagli, dopo esser giunti alla meta cotanto desiata e prefissa.

Siamo nel 1860. Il 1859 preparato nel decennio decorso fa dimenticare le patite sventure.

In tale felice posizione trovomi pure io, che dopo aver sentito in quell’epoca gravarmi non poco la tirannica mano sul capo, posso alfine gioire del presente, e volgere altero lo sguardo a quel passato, senza del quale, non avremmo quanto è oggi per noi di lusinghiero, come per tanti altri popoli generosi, ma oppressi, che al pari di noi lo desiderano, e lo meritano.

Oggi libero cittadino, e senza tema di ritornare sotto gli artigli dell’Aquila Grifagna posso porre in atto quanto volea aver già fatto da tanto tempo, cioè, scrivere le mie memorie riguardanti l’Episodio del passaggio del Grande Eroe Giuseppe Garibaldi, dalla Valle di Bisenzio, appunto nel precitato anno 1849.

L’anno suddetto segnalò parzialmente varj dei suoi giorni con fatti diversi, e più o meno rilevanti.

Il giorno 26 Agosto fu uno fra quelli che meritano particolare menzione, e che mai potrà dimenticare chi salvò, e chi partecipò alla salvezza dell’Eroe del secolo, il campione dell’indipendenza, e della libertà delle Nazioni, allorquando in quel [p. 5 modifica] giorno, scendea nella valle di Bisenzio, traversando i monti, e le foreste, onde sottrarsi alle orde barbariche, del suo sangue già sitibonde.

Là in quella valle appunto io mi trovavo, quando le armi repubblicane di Francia, mossero ad abbattere la consorella repubblica Romana per imporre a quel popolo generoso di piegare nuovamente il collo al pesante giogo del ripristinato Governo.

Nel villagio di Vajano che posa su di una amena collina alla destra del Bisenzio, e alla distanza di chilometri 10 circa dalla città di Prato, io risedeva per accudire alla direzione di alcuni lavori stradali, che appresso il detto villaggio si costruivano.

L’alba del precitato 26 Agosto penetrando traverso le semiaperte imposte della finestra di mia camera, situata alla parte di levante della casa dei signori fratelli Bardazzi, mi sorprendeva già sveglio da un sonno leggero ed interrotto per la inquietudine, in me prodotta dalla notizia dolorosa ricevuta, di malattia in cui era caduto mio padre lontano, non che, dalla lettura dei fogli pubblici ricevuti il giorno precedente, nei quali si narravano le gesta degli oppressori della libertà italiana, e gli ultimi sforzi dei nostri prodi, animati, e guidati dal valoroso Duce Garibaldi, e che sopraffatti dal numero superiore dei nemici, e mal coadiuvati da coloro, che in quei tempi saliti in alto, mostraronsi più abili a demolire, che ad inalzare il grande edifizio Nazionale. Furono i pochi eroi rimasti costretti a cedere il campo, e sbandarsi quà e là, insieme al loro Duce per le campagne romane, onde scampare da obbrobriosa morte, invidiando coloro che aveanla incontrata in battaglia, e che gloriosamente perirono col grido viva l'Italia.

Poggiata la testa sul palmo di una mano stava passando in rivista con la mente i succedutisi avvenimenti dal 1846 sino a quel giorno, e mi rammaricava con me stesso, di non aver potuto versare ancor io il mio sangue in prò della Patria, essendone impedito da circostanze di famiglia, e da mal ferma salute, che mi obbligò a retrocedere dall'intrapresa marcia con i volontari del 1848, perchè colto ad improvviso da un attacco di dolori [p. 6 modifica] artritici, che mi afflissero per vari mesi. Nel rammarico che io sentiva in me stesso pareami essere immeritevole del nome di italiano, e questo sentimento ridotto quasi a fissazione scendeami di continuo straziante al cuore. Confuso da tante idee, balzai da letto ed indossate negligentemente le vesti pensai sollevare alquanto lo spirito uscendo alla campagna onde cacciare: sveglia un mio compagno, Giuseppe Barbagli, che meco risiedeva, e preso ambedue il fucile scendemmo sulle sponde del Bisenzio, allontanandoci alquanto dalla nostra abitazione. Percorso appena un chilometro forse, il mio compagno volle retrocedere per accudire a qualche bisogno che lo attendeva, ed io, più macchinalmente che volontariamente, seguitai ad allontanarmi inseguendo qualche animale, che il mio fido Tamigi3 faceva sollevare avanti a me: ed è così che circa le ore otto io mi trovava vicino all’antica rocca di Cerbajo, e di fronte al mulino di quel nome: che dista chilometri 4 circa da Vajano.

Il rumore improvviso del tuono mi fece avvertito della scomparsa del sole, che poco avanti era sorto inalzandosi su di un puro orizzonte; e vidi allora rapidamente ingigantirsi una nube che gli stava di contro macchiata d’un cupo tetro minacciando un imminente burrasca. Stava per volgere indietro il passo quando mi sentii chiamare da un tal Pispola mulinaro che ben mi conosceva, e che additandomi il vicino temporale mi invitava a ricoverarmi in sua casa. Vinto dalle grossolane ma amichevoli esibizioni di Pispola, accettai l’invito ed entrato in sua casa dovei aggradire una frugale colazione, che mi fu imbandita prestamente dalle donne di famiglia.

Non appena mi ero posto a tavola che grossi e radi goccioloni d’acqua cadevano per farsi quindi più spessi, e succedersi senza interruzione dando sfogo ad una pioggia che perdurò circa tre quarti d’ora. Cessata la pioggia ripresi il mio fucile e accomiatandomi da quella famiglia, mi accingeva a seguire il mio Tamigi, che festoso saltava innanzi a me, in atto di invitarmi a seguirlo.

Giunto sul limitare della casa che guarda il monte vicino, [p. 7 modifica]vidi appressarsi due individui che grondanti per la pioggia caduta, scendevano ed a mia volta venivano; io mi soffermai macchinalmente, e poi ritornando nell’interno della casa attesi che coloro si appressassero; ed infatti avvicinatisi alla porta, e dimandato se potevano entrare, fu loro risposto affermativamente dal mugnajo, che gli introdusse subito in una piccola stanza terrena, ove era un caminetto che fu subito apparecchiato di legna per asciugare le vesti dei sopravvenuti individui.

Nel traversare che essi fecero la stanza ove io me ne stava gravandomi della persona sul mio fucile, facendo di esso appoggio, diedero a me, tale una furtiva sguerciata guardandomi dal capo ai piedi, e che io compresi come indizio di persona, che dubita l’incontro di qualcuno non ad esso propizio.

La curiosità ed il pensiero che costoro fossero del numero di tanti altri, che fuggendo dagli stati Pontificj traversavano quella catena appenninica per mettersi al sicuro, e molti dei quali cadevano negli artigli degli appostati sgherri, che in gran numero fra austriaci e nostrani, in quei monti si nascondevano, mi spinsero a rimanere col desiderio di potere ad essi prestare quell’aiuto che dalla mia pochezza fosse dato poterli offrire.

Mentre che Pispola stava porgendo a loro qualche cibo per ristorarsi e li manteneva vivo il fuoco onde si asciugassero, entrai con una scusa in quella stanza e salutati i due incogniti, che mangiavano, diressi la parola al mugnaio invitandolo a volermi tener compagnia alla caccia in un giorno della veniente settimana, o mandarmi uno dei suoi figli con i propri cani, al che aderì il mugnaio.

I due incogniti frattanto dopo avermi restituito il saluto, mi offrono ciascuno a sua volta da bevere, ed io aggradisco pensando frattanto come attaccare conversazioni onde conoscerli.

Posta la mano in una tasca del mio abito, per estrarre da questa la custodia dei sigari, mi venne fatto di estrarre un giornale, che veduto da uno di essi mi fu cortesemente richiesto, e da me fu subito rimesso; l’uomo che ricevè il giornale diede ad esso rapidamente con l’occhio una corsa e fermatosi ad un punto, atteggiò le labbra ad un sorriso di dolorosa compiacenza, e fatto cenno al suo compagno, indicò al medesimo ciò che [p. 8 modifica]aveva destato la sua ammirazione e ilarità. Questa indicazione che non sfuggì agli occhi miei, cadeva su di alcune notizie, che si davano dai giornali, della caduta della repubblica romana, e della cattura di Garibaldi operata dagli austriaci nelle acque di Venezia.

Risero ambedue insieme gli incogniti, ed io fatto ardito dalla ilarità loro, li domandai se fossero provenienti dagli stati romani, e se avessero potuto darmi qualche sicuro ragguaglio degli affari di Roma, poichè dai giornali, poco potevamo riprometterci di verità essendo molto discordi, e contradittorie le notizie che in quelli si contenevano.

Alla mia dimanda fu risposto che tutto era finito, e che i pochi superstiti degli ultimi fatti di Roma eransi disciolti e sparsi in quà e là per le romane Legazioni.

Un impulso ed un fremito non mai più sentito in me fecemi esclamare «Ed il nostro Garibaldi ove trovasi?»

Una tale dimanda scosse di un subito l’amica coppia ed uno di questi fissatimi gli occhi in viso, e con mille variazioni che nel suo viso rapidamente si succedevano, si slanciò a braccia aperte su me dicendomi «amico, Garibaldi è nelle vostre braccia.

Come scendessero al mio cuore tali parole, e quale fosse la sensazione che io provai in quell’istante, non è possibile descriverlo, ma può solo penetrarlo chi rifletta un momento alla mia posizione. Io rimasi alquanto immobile, e come destato dopo uno stravagante sogno guardaimi intorno, e nessun altro veggendo che i due, poichè per avventura erasi allontanato da qualche momento il mugnaio, feci cenno ai medesimi di tacere e non palesare il loro nome. Narrai con brevi parole a loro a quali, e quanti pericoli si sarebbero esposti rimanendo più a lungo in quella casa ove riducevansi spesse volte nel giorno a refocillarsi, o a gozzovigliare i militi sparsi in quella volta, tendendo agguati ai miseri profughi che di là transitassero. Consigliai loro di fingere la partenza, profittando di mia compagnia, onde mettergli in istrada per raggiungere Pistoia, eludendo così il mugnaio qualora avesse inteso di che si trattava e feci a loro presentire che gli avrei portati invece in una casetta, presso [p. 9 modifica]un bosco vicino, ove sarebbero rimasti sicuri fino a che io non avessi provveduto alla loro salvezza, per la quale, mi sarei immediatamente occupato valendomi di amici, senza misurare il pericolo che poteva incogliermi. Da essi accettato il consiglio, tutti tre ci disponemmo ad abbandonare il mulino. Garibaldi richiesse il mugnaio di quanto doveagli per l’incomodo e vitto somministratogli, ed estrasse a tale uopo dall’abito una piccola borsetta di seta fatta a rete, dalla quale comparivano poche monete d’oro che certamente non sfuggirono alla vista del mugnaio. Io, con un zelo che forse potea tradirmi, impedii che l’Eroe pagasse danaro ed estratta dalla mia tasca una moneta d’argento di paoli dieci sodisfeci il mugnaio rilasciandogliela per l’intero. Qui abbandonerò una ipotesi od un dubbio forse mal fondato, ma che potrebbe anche avere avuto parte in quanto mi accadde dopo l’evasione del prode Generale. Soddisfatto il mugnaio partimmo per recarci al luogo da me prescelto onde lasciare i due illustri profughi nascosti per quel giorno.

Nel poco tempo impiegato per la gita fra il mulino e la casetta da me prescelta, Garibaldi mi presentò il suo amico e compagno aiutante, capitano Luigi Leggiero e narrommi come per otto giorni fosse stato accolto, e tenuto in sicuro dal canonico Verità arciprete di Modigliana, il quale datagli una guida che gli conducesse per il crinale degli appennini, e per il qual sentiero avea divisato Garibaldi di raggiungere i monti di San Marcello e Gavinana per l’Abetone, onde introdursi nel Modanese.

La guida consegnatagli gli servì di scorta fino ad oltrepassare il Valico di Montepiano, e seguitando per contrafforte appenninico detto delle Calvane, ove i viaggiatori incontrarono una folta nebbia ed acqua, si disperse misteriosamente rimanendo presso di essa vari effetti d’uso di proprietà degli illustri fuggiaschi. Chiamata ed attesa inutilmente per qualche tempo la guida né sapendo ove incamminarsi, divisarono prendere la discesa del monte, ove si trovavano, e dopo aver fatta una breve sosta a Montecuccoli in casa Ciampi richiedendo un individuo che non ricordo, il quale gli indirizzò verso il ridetto mulino di Pispola. Giunti alla casetta e messi quivi in sicuro i prelodati individui, mi accomiatai da essi con la promessa di essere [p. 10 modifica]al più presto possibile di ritorno presso di loro, ma però non prima delle ore tarde di sera.

Affrettai il passo o meglio corsi a Vaiano, e chiamato il mio compagno Barbagli, manifestai ad esso la necessità di correre alla città di Prato per un affare di somma importanza. Presa in gran fretta una zuppa, saltai in sella e correndo precipitosamente presso Prato giunsi alla casa del mio amico Francesco Franceschini circa le ore una pomeridiane, e chiesto di lui con grande premura fui introdotto avanti di esso in una camera ove giaceva in letto per una febbre reumatica che da giorni lo travagliava.

Restato da solo a solo con l’amico sofferente, egli scoperse in me una certa agitazione, che male avrei potuto celare anche volendo, sì per la entità dell’affare, che a cercarlo mi spingeva, quanto per la spossatezza in cui mi trovava per quella precipitosa corsa sulle ore meridiane nelle quali era tornato il sole a far sentire il potente ardore degli infuocati suo raggi.

L’amico Franceschini domandommi cosa mai avvenuto fosse, per essere accorso a lui con tanta premura, ed io gli feci in breve il racconto di quanto mi accadea poche ore avanti, e lo richiesi del suo consiglio per effettuare con sicurezza la liberazione di tanto Eroe e del suo compagno, per i quali ero deciso di vender cara la mia vita, quando un qualche cattivo incontro avvenisse e che ben facile era lo inciampare.

L’amico trasalì al mio racconto e penetrato anch’egli della importanza di tanto avvenimento, e presentendo il pericolo che pur troppo si rischiava incontrare, scordò per il momento il malore che in letto lo riteneva ed alzatosi in fretta mi fè cenno di seguirlo.

Usciti dalla sua abitazione che allora esisteva fuori la porta al Serraglio della città di Prato, io lo seguiva in silenzio ed egli mi richiese se conoscessi il cav. Antonio Martini già vecchio liberale, al che risposi, conoscerlo solo di vista. Ebbene dissemi allora l’amico, è a lui che io ti conduco poichè con esso concerteremo il modo di poter fare evadere le persone che attendono il nostro soccorso.

Giunti dal Martini lo ritrovammo che stava riposando dopo [p. 11 modifica]la refezione del mezzogiorno; Franceschini mi presentò ad esso come proprio intimo amico, ed il Martini mi accolse con quella affabilità che è propria dei cuori nobili, e generosi, e come io fossi suo vecchio amico femmi adagiare accanto a se su di un sofà, e domandommi a che dovesse egli attribuire quella mia visita: io risposi essere di somma importanza l’oggetto per cui era venuto in traccia dell’amico Franceschini, e che il medesimo al quale avea manifestato il segreto mi avea colà portato nella certezza di trovare in lui l’uomo che abbisognavami per la circostanza e quindi messo a parte di ciò che trattatasi, non fu senza una profonda impressione che Martini ascoltò l’avvenuto e penetrato anch’egli della gravità del fatto, più del da farsi intavolò vari progetti sui quali tutti e tre discutemmo, e fu convenuto finalmente di abbracciare l’idea venutaci di inviare il Prode Garibaldi per la parte della Maremma toscana passandolo di mano in mano a vari fedeli amici che lungo lo stradale da percorrersi si trovavano.

A coadiuvarci nell’ardua e pericolosa impresa fu chiamato l’amico Tommaso Fontani capo stazione in Prato, il quale si esibì di attendere gli illustri profughi nella stazione medesima, ove io gli avrei condotti oltrepassata la mezzanotte di quel giorno, per non cimentarsi ad entrare in città, e per ivi attendere il momento d’intraprendere il viaggio predestinato.

Frattanto fu deciso che io sarei tornato presso coloro che la mattina avevo lasciati in sicuro, per portarli quindi verso Prato, e fissata l’ora di mezzanotte per trovarsi in luogo detto l’Albereta del Vai, presso la Madonna della Tosse, ivi sarebbe stato ad attenderci una vettura per trasportarci vicino alla stazione.

Pochi istanti dopo i concerti presi con gli amici, io ribatteva la strada che poche ore avanti aveva percorsa, raffrenando il cavallo per obbligarlo ad un passo che non potesse destare la curiosità in chi mi avesse veduto ritornare con la celerità con la quale era venuto, e così mi ricondussi a Vajano al tramonto del sole. Ivi giunto mi trattenni alquanto in casa, e quando già erasi fatta la notte chiesi al mio amico Barbagli di tenermi compagnia in una gita alla campagna, ed armati ambedue con fucili e pistole ci avviammo fuori del villaggio, [p. 12 modifica]fingendo una cacciata notturna L’amico mio non sapendo a qual motivo volessi portarmi in quell’ora, e così armato, alla campagna richiesemi spiegazione della misteriosa gita: allora io gli feci noto, che era per un’operazione arrischiata e pericolosa, alla quale mi accingeva senza misurare il pericolo, poichè trattavasi di mettere in salvo alcuni interessanti personaggi, dei quali la vita era troppo preziosa, e che poco costava in confronto la nostra, spendendola per Essi; e quando Egli non si fosse sentito il coraggio di seguirmi, fosse pure ritornato indietro, che io solo, avrei adempiuto a quanto mi era imposto, fidandomi però del suo silenzio; ed Egli mi rispose se ti salvi te ed Essi, sarò salvo anch’io, e se dovremmo incontrar male non mi lagnerò per questo con te, e tirammo innanzi così.

Giunti presso la casa di un mio conoscente certo Michelangiolo Barni, chiesi a questo di darmi per poche ore il suo cavallo e barroccino; ed avutolo, salimmo sopra, e ci avvicinammo al luogo ove io avea lasciata la interessante coppia che dovea salvarsi.

Arrivati al nascondiglio io feci il cenno che era convenuto fra noi la mattina: Ma oh Dio! qual fu la mia sorpresa quando non sentii rispondermi al 1°, al 2° nè al 3° cenno ripetuto. Io mi sentia gelare, e mille e mille timori opprimevano il mio spirito nè sapeami render ragione del come ciò avvenisse. Fu allora che io feci noto all’amico le persone di cui si trattava: il timore che fossero stati scoperti nel nascondiglio, e l’idea che spontaneamente fossero di colà scomparsi dubitando di un tradimento, erano pensieri che passavano dolorosamente traverso alla mia mente, nè sapeva che fare, che risolvere: ad un tratto una ispirazione di un genio a me ignoto mi suggerì di tornare al mulino di Pispola, ove potevano essersi forse rivolti nuovamente.

Infatti introdotta la mia vettura nel centro delle folte veltrici che esistevano nelle sponde del Bisenzio, mi incamminai verso il mulino, e chiamato il mulinaro entrai, e vidi l’ardito guerriero ed il suo compagno, che in mezzo alla famiglia del mugnaio sedevansi a tavola con una tranquillità, e sicurezza [p. 13 modifica]propria di persone che non hanno nulla a temere, mentre in tale felice condizione non trovavansi davvero coloro che, in guisa di belve feroci, erano inseguiti accanitamente. Eglino alla vista mia e del mio amico, balzarono in piedi ed introdottici seco loro in una misera cameretta, si diedero ad abbracciarci e stringerci al loro petto come altrettanti fratelli; e per brevi istanti successe fra noi un alternato domandare e rispondere che troppo occorrerebbe a descriverlo, e poco interesserebbe a sapersi; solo mi accertai di ciò che premeva cioè, che eglino non avevano per niente declinato i loro nomi, ma avevan detto solo al mugnaio che avevano spesa la giornata aggirandosi per quelle colline in attesa del mio ritorno, come gli avea promesso, per tenergli compagnia fino a Prato, e non vedendomi ad ora tarda, si erano rivolti nuovamente verso quel luogo, onde farsi accompagnare alla città dal mugnaio stesso, o da qualcheduno dei suoi figli, fidando di non destare sospetto in alcuno e raggiunger la meta che si erano prefissi.

Allora io feci noto ad essi quanto avea combinato con gli amici in Prato, e gli disposi a partire. Feci attaccare il cavallo del mugnaio al suo baroccino, e lo pregai di mandare un suo figlio ad accompagnarci. Entrati con le due vetture nella strada che porta a Prato, ci avviammo per quella via così repartiti; io presi meco in legno il Generale al quale consegnai il mio fucile tenendo pronte per me le pistole, guidando il cavallo dell’amico Barni, e feci salire nell’altro baroccino il mio amico Barbagli, ed il capitano Leggiero.

Arrivati a Vajano ci fermammo alla casa Bardazzi ove io risedeva, avendo già avvertito la famiglia che circa la mezzanotte sarei tornato con alcuni amici per prendere un qualche rinfresco e seguitando quindi per Prato; al solo Vincenzo Bardazzi, giovane di cui potea fidarmi, avea accennato segretamente quali erano le persone che si sarebbeso trovate in mia compagnia; infatti lì scendemmo e preso un qualche rinfresco rimontammo subito sulle vetture, e proseguimmo senza incontro veruno fino ad un punto di strada che chiamasi Spazzavento, ove fatti scendere dai legni tutti gli individui, dissi al mio amico Barbagli che essendo la nottata così bella preferivamo [p. 14 modifica]di seguitare fino a Prato a piedi, ma ciò feci solo per eludere sul vero scopo di quel viaggio e per far perdere così le tracce di quei due che a me si erano affidati.

Noi percorremmo così quel tratto di via che dal detto punto occorre per raggiungere la maestà detta la Madonna della Tosse, e cioè il luogo convenuto per l’attesa dell’altra vettura fissata col Martini. Fatto il cenno di convenzione, sortì dall’albereta la vettura guidata da certo Vannuchi giovane ardito, e di buoni principj, ed in essa vettura, trovavasi anche il Martini stesso che era venuto ad incontrarci.

Saliti tutti su quella vettura seguitammo fino presso la Città, e quindi discesi rimandando la vettura, ci inoltrammo per i campi e per la sponda destra del Bisenzio si raggiunse la via ferrata, e varcando questa ci introducemmo nella stazione ove l’amico Fontani ci attendeva.

È ben da ricordarsi che un corpo d’austriaci stanziava in Prato, e che al disotto della stazione stava la sentinella di guardia della quale punto ci curammo, tanto era l’ardire nostro e la intrepidezza degli illustri profughi a noi affidatisi.

Poco dopo l’arrivo in quel luogo io ridiscesi per dove eravamo venuti, e per confondere le ricerche che avrebbe potuto fare la polizia, entrai in Prato dalla porta al Serraglio, ove il custode di allora ben mi conosceva, il quale meravigliandosi di vedermi giungere in quell’ora cioè a mezzanotte e mezzo circa, io finsi essere andato per trovare il mio amico ing. Ciro Mazzi (che ben sapea essere assente dalla città) ed infatti mi portai alla di lui abitazione ove chiamatolo mi fu risposto che egli si trovava a Firenze, ed io allora recatomi presso un tenutario di vetture ripresi il solito Vannuchi, e col suo legno risortii da Prato figurando tornarmene a Vajano, mentre tornavo invece alla Stazione, per attendere l’ora fissata delle due antim. per far riprendere il viaggio all’illustre coppia, che senza incidente veruno percorse la via direttamente, e senza far sosta fino presso il paese di Poggibonsi ove trovavasi ad attenderla l’egregio prof. Burresi che nella sua qualità di medico, e come mio amico era stato da me preventivamente chiamato onde visitare il capitano Leggiero, che trovavasi indisposto sempre per [p. 15 modifica] le fatiche sopportate nelle lotte di Roma, ed anche per qualche ferita non ancora totalmente risarcita.

Da quel punto fino a Massa Marittima, e da lì alla spiaggia marina in luogo detto i Bagni al Morbo nulla avvenne di sinistro, nè di rimarchevole e quivi si compiè la felice evasione, avendo il Generale noleggiata segretamente una barca o paranza mercantile, e preso il largo in mare raggiunse facilmente il Porto di Lavagna nella costa ligure, ove ritornò alla sua piena libertà, ed in sicuro dai comuni nemici della nostra patria.

Prima di lasciare la illustre coppia che mi richiese del mio biglietto, il Generale Garibaldi disse volermi mostrare in qualche modo la propria gratitudine e toltosi dal dito un anello d’oro me lo consegnava dicendomi - questo è l’oggetto che io mi abbia più sacro al mondo, poichè è l’anello nuziale della mia perduta Annita. A te amico io lo consegno come pegno della mia gratitudine ed amicizia - ed io risposi. Generale, è troppo il dono per il poco che io ho potuto far per voi, e lo conserverò religiosamente per ridonarvelo in miglior cicostanza cioè, quando la patria nostra sarà tutta redenta dalla schiavitù. Il capitano Leggero disse: Ancora io vorrei o amico lasciarti un ricordo, ma null’altro possedendo che questo coltello americano in asta, che mi ha servito di difesa quando inerme ho dovuto lottare corpo a corpo col nemico a Roma, accettalo in uno con i miei più vivi ringraziamenti. - Non è a dirsi se quel distacco fu commovente per noi tutti poichè sgorgavano dai nostri occhi alcune lacrime, come bene posson comprendere coloro che leggendo questa storia saranno penetrati dell’importanza dell’avvenuto.

Due giorni dopo la riuscita felice evasione, io mi trovava nelle ore pomeridiane sui lavori di rettificazione della salita di Rilajo presso Vaiano, a me affidati per la loro direzione, allorquando mi venne fatto di vedere transitare per vecchia strada che conduce ad Usella una quantità di poliziotti e guardie municipali, unite a due delegati di pubblica sicurezza.

Una tal vista mi mise in sospetto, ma non sapea realmente a che attribuire questo passaggio di agenti della polizia, che circa due ore dopo ritornavano questi circondando una vettura o baroccio, ove era stata caricata tutta la famiglia del mugnaio [p. 16 modifica] detto Pispola. Allora io ben compresi che dovea trattarsi unicamente del fatto degli individui da me incontrati a quel mulino, e meco allontanatisi nella sera.

Seppi dopo qualche momento del loro passaggio, la loro fermata a Vaiano, e precisamente alla casa Bardazzi per rinfrescarsi.

Fiducioso che nessuno avrebbe potuto conoscere l’avvenuto e più specialmente il nome degli individui che potevano aver motivato questa misura di polizia, mi portai con indifferenza alla mia abitazione, ove il mugnaio appena mi vide esclamò: Vede signore ingegnere, per causa di quei due signori che erano al mio mulino, e che lei menò a Prato, ci hanno arrestati tutti e dicono che uno di quelli era Garibaldi.

Io, sebbene internamente sentissi una qualche agitazione, pure non mi tradii agli occhi dei due delegati che attentamente mi guardavano, forse anche nell’idea di cogliere in me qualche turbamento che mi tradisse, e francamente risposi al mugnaio, nè tè, nè io possiamo sapere chi fossero costoro, poichè non declinarono mai nè i loro nomi, nè la loro provenienza, e solo dissero volersi incamminare verso la città di Pistoia, per il che necessitavano d’esser messi nella via che ve gli avrebbe condotti.

La famiglia del mugnaio rimessa nella vettura, e portata a Prato fu rinchiusa nelle carceri per qualche giorno.

Io corsi a Prato nelle ore tarde di quella sera per conferire e raccontare l’avvenuto ai miei amici, e per consigliarmi seco loro nel caso più che probabile del mio arresto; e siccome tutti eravamo pesuasi che nessuno avrebbe potuto dare per certo che quei profughi fossero quegli che si ritenevano dalla polizia, io protestai che non mi spaventava nè l’arresto, nè la prigionia, che confidava nella prudente condotta tenuta per raggiungere lo scopo della evasione felicemente avvenuta; ma che qualora però si fosse venuto a conoscere il vero dal Tribunale, io solo avrei pagato l’indegno tributo, anche con la perdita della mia vita, contento, e soddisfatto di aver salvata per la patria, quella tanto preziosa del grande Eroe.

Il giorno appresso circa le ore sei ant. era disceso da poco [p. 17 modifica] nella bottega di caffè della casa Bardazzi; mi posi a scrivere una lettera a mio padre, che come io dissi, giaceva malato in Castelfranco di Sopra mio paese natio, situato nell’amenissimo altipiano della valle dell’arno superiore in Provincia di Arezzo. Al momento di chiudere in busta la mia lettera, fu richiamata la mia attenzione dal passo cadenzato di una quantità di militi che si fermarono innanzi la casa, ed uno di questi dalla porta della bottega volgendosi alla padrona, che trovavasi al banco, dimandava se era in casa l’ing. Enrico Sequi, ed io rispondendo per essa, dissi: Sequi è presente, chi è che domanda di esso? Il milite che non mi aveva per anche veduto, fece cenno ad un suo superiore, il quale entrato in bottega, e voltosi a me ridomandò formalmente se io era il sig. Sequi, e dopo la mia affermativa, mi presentò regolare mandato d’arresto, spiccato dal Tribunale di Prato contro di me. Io feci le meraviglie di quest’ordine d’arresto, ma a nulla giovando il discutere con quelli sgherri, per metà cacciatori, e metà guardie municipali, chiesi soltanto il permesso di potermi recare sui lavori, onde lasciare ben disposti i medesimi nella mia assenza, che ritenevo di pochi momenti. Ciò non solo mi fu impedito, ma con precauzione veramente sbirresca, fu mandato a chiamare dai lavori il mio amico Barbagli, il quale restò attonito alla notizia del mio arresto.

Io lo confortai mostrandomi poco preoccupato di questa misura poliziesca, e datili alcuni ordini, mi disposi a partire, dopo aver fatta una semplice colazione, e chiesto di poter cambiarmi di abiti che mi fu accordato. La colazione ed il cambiamento di abiti fu semplicemente uno strattagemma per eludere la vigilanza degli sgherri, che avean circuita la casa per impedirmi la fuga. Data un’occhiata d’intelligenza all’amico Vincenzo Bardazzi, in brevi parole ci intendemmo, e mentre io mi cambiava di abiti, egli approntava con somma precauzione la vettura in rimessa chiusa, con la quale partimmo a gran velocità e ci allontanammo prima che gli scherani governativi si fossero riavuti dalla sorpresa della inaspettata mia fuga. Ciò non fu allo scopo di evitare l’arresto, e le ricerche del Tribunale del quale poco o nulla temeva, e giunto col Bardazzi a Prato alle ore [p. 18 modifica] 7½ circa dopo aver lasciata la vettura, ci portammo al caffè che trovavasi nella piazza ove è situato il Tribunale e l’ufficio di Posta. Lì attendemmo l’apertura dell’ufficio postale, ed anche quello del Tribunale, al quale volontariamente io voleva presentarmi. Direttomi alla posta per far dimanda di corrispondenza a me diretta, incontrai un individuo al pari di me vestito in borghese, che sentito declinare il mio nome all’ufficiale postale, dissemi, è forse lei l’ingegnere Sequi? ed io rispondendo affermativamente, mi vidi con mal grado afferrare per il petto da quel medesimo individuo, che dicendomi di essere un agente di polizia, intendeva arrestarmi. Allora nacque una colluttazione che fu una scena alquanto comica per me, e un poco tragica per il birro, al quale regalai diversi colpi di mano è di piede e così salimmo la scala esterna del Tribunale, cessando la lotta per dato e fatto di due militi, che presomi in mezzo mi condussero dentro il palazzo, in attesa dell’arrivo del delegato di pubblica sicurezza. Circa le ore 10 fui introdotto in una stanza ove erano due impiegati, che io aveva già conosciuti nel paese di S. Giovanni Valdarno, come aiuti cancellieri in quel Tribunale, i quali fidando nella benchè semplice relazione fatta tempo indietro con me, crederono potere strapparmi la confessione del fatto avvenuto; ma io fidandomi poco, anzi nulla di essi, raccontai esser vero avere io incontrati causalmente i due incogniti al mulino di Pispola la mattina del 26 Agosto, che essi senza declinare i loro nomi, mi chiesero del favore di porgli sulla strada retta che da Prato porta a Pistoia, ove diceano esser diretti, e che infatti io nella sera stessa, avendo necessità di andare a Prato, gli accompagnai e gli lasciai prima di entrare in città additandogli la via che dovean seguire. Dopo questo formale e sostanziale interrogatorio, mi si significò, che d’ordine superiore io doveva essere tradotto nelle carceri, e mi si portò in una piccola segreta situata in una certa torre di quel palazzo tribunalizio. Durante la mia prigionia mi furono ripetuti più volte gli interrogatorii con mezzi o parole più o meno suggestive, ma la storiella da me cantata la prima volta, non cambiò mai di metro, e dopo 76 giorni del mio arresto, mi fu significato che sebbene non fosse stato trovato luogo a procedere, [p. 19 modifica] pur tuttavia, io non rimaneva libero dalla imputazione di procurata evasione di due individui che erano colpiti dalla legge, e questa minaccia fu spesso tradotta in atti con persecuzione, e molestie continue che mi seguirono in qualsiasi luogo ove io mi trovassi, e fino al 1859, epoca nella quale cambiarono le sorti della Patria nostra, vendicata col sangue di tanti prodi ai quali fu guida, e sprone, la saggiezza e l’ardire del Re Galantuomo, ed il coraggio, e la lealtà dell’eroe Garibaldi.

A queste mie memorie scritte nel 1860 debbo aggiungere oggi un altro non meno commovente episodio, il quale dimostra quanta forza avesse la gratitudine nel cuore di Giuseppe Garibaldi, a quanto tenesse viva in se la memoria delle persone e dei fatti narrati fin qui. Allorquando accadde lo sventurato incidente, che portò ad esser ferito dalle armi italiane il valoroso Duce Garibaldi ad Aspromonte, e che il medesimo fu trasportato a Pisa onde curarsi della ferita prodottagli, il mio compianto amico dottor Franceschini mi scriveva, il giorno 9 nonovembre 1862, la lettera seguente direttemi a Pistoia ove io mi trovava in qualità di impresario, ed ingegnere, nei lavori della linea ferrata Pistoia-Bologna, lettera che religiosamente conservo in memoria dell’amico perduto, e che qui trascrivo «ivi» «Amico Caro. Sento dai giornali che Garibaldi viene a Pisa. Assicuratene, e poi scrivimi subito per andare insieme da lui. Se tu non potessi farmi il favore di una lettera per il medesimo. Rispondimi subito, subito e credimi

«Il Tuo Affezionatissimo Amico»

«D. F. Franceschini»


Venne in Pisa, come si diceva, il Generale Garibaldi prendendo alloggio all’Hôtel Peverada di quella città, e dopo pochi giorni dalla esegnitali operazione ed estrazione del proiettile, fatta con abile maestria dall’oggi defunto illustre professore Zannetti, io e l’amico Eranceschini ci portammo a Pisa per visitare l’illustre infermo, Franceschini ansioso di farne la conoscenza, io poi, oltre al desiderio di fargli visita di condoglianza per l’avvenutagli sventura, e per congratularmi dell’esito felice [p. 20 modifica] dell’operazione subita, aveva anche animo di mantenere presso il Generale la promessa di restituirli l’anello consegnatomi come ricordo, e che religiosamente aveva conservato, e conservò come vera reliquia. Portatici alla residenza del malato Eroe, io mi rivolsi ad uno dei tanti militi suoi seguaci, che ad assisterlo là si trovavano, e feci noto il desiderio che aveva di salutare il Generale. Un ufficiale Garibaldino, che mi fu indicato come confidente del Generale, mi fece intendere che per ordine dei medici curanti, era espressamente proibito a chiunque di conferire col medesimo paziente, ritenendo che anche la semplice conversazione di poche parole avrebbe potuto nuocere all’illustre sofferente. Dispiacenti io ed il mio amico di non potere nemmeno vedere in viso l’uomo tanto desiderato, ci rassegnammo ad allontanarsi lasciando i nostri biglietti da visita, affinchè il Generale conoscesse la nostra venuta in quel luogo. Il suddetto ufficiale allontanandosi pochi passi da noi per entrare nella camera del paziente, fu da me richiamato per un’idea balenatami nella mente, e che posi in effetto. Toltomi dal dito l’anello di Annita pregai il confidente di unire quello al mio biglietto, e mostrarlo al Generale. Quegli con un’indifferenza, per non dir peggio, prese l’anello entrando in camera, ed io mi restai col Franceschini in attesa di che non sapeva neppure io stesso.

Dopo pochi istanti sentii la voce del Generale che diceva al confidente «fate che passi ed il confidente rispondendo, ma Generale sapete che i medici non vogliano che siate disturbato, si ammutolì alla tuonante ripetizione del Generale medesimo, che disse fate che passi, perdio! Allora il confidente aprì la bussola ed io e Franceschini ci trovammo in faccia all’illustre malato che chiamandomi a braccia aperte mi diceva vieni amico. Non dirò qui le sensazioni da me provate allorquando un vicendevole abbraccio ci riunì in un felice istante, contraccambiandoci fra noi affettuosi amplessi. Io gli presentai il dott. Franceschini che commosso dirottamente piangeva, ed il Generale rivolto al suo confidente che attonito ed immobile era restato al vedere quella scena così sensibile ed inaspettata dissegli: Voi non volevate introdurre da me questo mio amico; questi è il mio salvatore, al quale diedi in ricordo l’anello di [p. 21 modifica] Annita, che voi mi avete rimesso e che restituisco al medesimo. Rivolto a me dissemi, ti prego narrare il fatto avvenuto di mia liberazione ed io ben volentieri narrai in brevi parole i fatti più salienti di quel memorabile episodio.

Volle il Generale che io ed il mio amico accettassimo una colazione, che ci fu immediatamente servita in un tavolo accanto al letto dell’Eroe. Egli restò dolente di non potermi presentare ai propri figli Menotti e Ricciotti, che si trovavano in quel giorno a Genova, e faceva preghiera a noi di rimanervi fino al giorno dopo per fare ad essi la nostra presentazione. Noi ci scusammo di non potere accettare l’invito così onorevole, poichè io dovea immediatamente restituirmi sui lavori che non mi permettevano un’assenza più prolungata.

Congedatisi dal Generale, sortimmo dalla camera, e ci trovammo sorpresi dal vedere riuniti tutti i giovani garibaldini, che messi in completa uniforme ci accolsero con una salva di applausi, e fraternizzando con noi come se vecchie amicizie esistessero, ci abbracciammo, ci baciammo, ed io quasi sollevato di peso da essi, dovei seguirli al caffè dell’Ussero, ove vollero rinnovare la dimostrazione di gratitudine che essi sentivano per me, e per quanti avean contribuito al salvamento di quell’importante personaggio.

Lasciati, sebben con dispiacere, i seguaci del valoroso loro Duce, ritornammo io e Franceschini ai nostri luoghi, e da quell’epoca in poi io non ebbi più la fortuna di rivedere quel sembiante, che ho sempre impresso nella mente e nel cuore.

Castel Franco di Sopra, li 20 Agosto 1882.

Ing. ENRICO SEQUI.

Note

  1. Si allude alla restaurazione del Governo della Toscana.
  2. Si allude al corpo ausiliare austriaco chiamato da Leopoldo, come ne fa fede il Proclama del Barone d’Aspre.
  3. Così si chiamava il mio cane da caccia.