Il sorbetto della regina/Parte prima/XIII

Parte prima - XIII. L'uomo propone, la donna dispone

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CAPITOLO XIII.


L’uomo propone, la donna dispone.


Bruto aveva un compatriota farmacista nel basso della via di Foria, vicino al Giardino Botanico. Questo brav’uomo l’aveva spesso eccitato a venire ad abitare nel quartiere dove egli dimorava da vent’anni, e dove conosceva tutti, e prometteva di aiutarlo. Bruto era andato a trovarlo, per comunicargli la sua risoluzione di cercare un appartamento nelle vicinanze della farmacia.

Don Gaudioso, il farmacista, aveva appunto ciò che faceva al caso di Bruto: un quartierino vuoto, proprietà di un suo cliente, situato sull’alto della collina, dov’è il Giardino Botanico, vicino a Santa Maria degli Angeli. La posizione era bella, benchè un po’ remota. Il fitto non era caro. Il padrone di casa, uomo eccellente, quantunque padrone di casa, era spesso malato e circondato da una famiglia malaticcia.

Don Gaudioso aveva combinato un contratto a cottimo, mediante il quale il proprietario dava l’appartamento ed il medico lo curerebbe tutto [p. 118 modifica]l’anno. Bruto sottoscrisse ad occhi chiusi a queste condizioni.

Quel giorno stesso, dopo il pranzo, si fece lo sgombero. I mobili e le masserizie di don Noè non formavano il carico di una carretta. Ora, nelle sei stanze del nuovo appartamento del dottor Bruto, quelle mobilie elementari facevano l’effetto di una mosca in una cattedrale.

— Ci vogliono arredi e addobbi, disse Bruto passeggiando nelle stanze. Non posso ricevere i miei clienti, se ne ho, e pregarli di seder su i quadrelli del pavimento.

— Certamente, dissero in coro don Gaudioso e don Gabriele.

— Quanto credete voi che potrebbe costarmi il rimpinzar qui dentro seggioloni, divani, sofà, letti, orologi, armadii....

— Avanti, avanti.... delle statue, dei quadri, delle tappezzerie, degli arazzi, eh? disse don Gabriele.

— Ho un’idea, osservò Bruto. Se ho da arredare queste stanze, voglio arredarle per bene.

— In questo caso, l’eredità di tuo zio ti s’inghiotte d’un boccone, disse don Gaudioso.

— O all’incirca, osservò don Gabriele. La è grave. Ma, poichè egli ha un’idea su questo proposito, bisogna effettuarla nel miglior modo. Non mi piacciono le idee che restano pulcellone. Quando si ha un’idea, bisogna che la prolifichi, fosse pure per produrre dei piccoli mostri....

— Allora, disse Bruto.

— Allora vuoi lasciar fare a me? Conosco tutta Napoli, io. So dove si trovano uomini e cose. [p. 119 modifica]

— Ti do carta bianca.

— Non assicuro che sarà qui come al palazzo reale, soggiunse don Gabriele; ma non sarà nemmeno l’appartamento d’un droghiere.

— Comincieremo domani, disse Bruto. Bisogna che la sua camera sia pronta fra otto giorni.

— La camera di chi?

— Di chi? del colonnello, per Dio! Gli scrivo domani di venire.

— E gli dite che sua moglie e sua figlia sono al suo comando?

— Me ne guarderò bene. Gli scrivo: Vieni! e gli mando venti ducati per il viaggio: gli dico di partire senza strepito, per non svegliare la polizia e fra otto giorni il colonnello sarà qui.

— Ed il passaporto?

— Ci penserà lui. Entrerà in Napoli di notte, a piedi, nella sua pelle di sergente, che non desta sospetti.

— Venga, disse don Gabriele, la sua camera sarà pronta. Digli però di fermarsi a Portici, il tal giorno, la tale ora, nel tal sito, ed anderemo a prenderlo.

— No; lascialo fare: la sa più lunga di noi.

Il domani don Gabriele si mise all’opera.

Dove mai abbia frugato, non saprei dirlo. Ma fatto è che disotterrò la più curiosa collezione di sedie, seggioloni, sofà, armadi, tavole, portiere, tappezzerie che siasi mai veduta. L’insieme stuonava; ma ogni cosa, presa a parte, era un gioiello. Delle sedie del secolo XV ad alta spalliera, intagliata a fogliame e coperte di cuoio di Cordova dai gigli dorati, si vergognavano [p. 120 modifica]vicine a quattro cortine di broccatello del 1500; dei canapè del secolo XVIII in arazzo, in legno verniciato azzurro ed oro, coi loro arabeschi, i loro fiori, i loro amorini paffuti, litigavano con due mensole del 1600 in marmo giallo e legno dorato, intagliato a fiori come un merletto.

Ah! se quei mobili avessero potuto raccontare ciò che avevano udito e veduto, donde venivano, per quali peripezie erano passati, come avevano rotolato giù e come dal buio fondaco di un rigattiere, dove si accimorrivano, erano venuti a trovar riposo nel salotto di questo figlio d’un barbiere, embrione di medico, che non li apprezzava punto e che avrebbe preferito l’acagiù, o il palissandro coperto di reps!

Ah! se quegli oggetti d’arte avessero potuto ripeterci le parole del marchesino, i madrigali dell’abate ed i progetti atroci del barone. Che memorie! che cronaca quella di un bonheur-d’un-jour, d’un tabouret, di un inginocchiatoio.

Codeste gravi cose se le susurravano, forse tra loro quei mobili riuniti colà come al festino d’un mago, quando la povera Tartaruga li spolverava per bene, facendosi la croce in tutte le longitudini e latitudini del suo corpo e ruminando dei Magnificat e delle Salve Regina alla vista di certe nudità degli arazzi.

Bruto s’era occupato della sua famosa stanza. Quale non fu lo stupore di Tartaruga, quando vide arrivare un letto di ottone per due persone, un armadio a specchi, una dormeuse e dei coins de feu? Tutte queste cose rivelavano [p. 121 modifica]un partito preso con premeditazione. E’ non era certamente il mobilio di una camera da letto da scapolo.

Nè ciò era tutto. Bruto aveva fatto porre un tappeto; aveva comperato una toilette di marmo con delle porcellane inglesi ed una quantità di boccette di Boemia, delle pomate, degli olii, del cold-cream! Dio buono! perfino del cold-cream! e della cipria! In breve, ciò dette da pensare perfino a don Gabriele.

Non c’era, però, più verso di dubitare; uno scialle, delle gonne, un mantello, dei braccialetti, degli orecchini, uno scheggiale in oro arrivarono alla fine. Or certo tutto codesto non poteva capitar lì all’indirizzo di Tartaruga.

Questa povera vecchia non osava domandare una spiegazione; don Gabriele se lo permise.

— È una commissione per un signore di Moliterno che si ammoglia e che mi ha incaricato di queste compere, rispose Bruto.

Questa risposta non soddisfece punto don Gabriele, ma egli ebbe l’aria di contentarsene, sapendo che, quando la cosa verrebbe ad una conclusione, il primo consultato sarebbe lui e che allora potrebbe dire la sua opinione. Soltanto vedeva con dispiacere che i tremila ducati di don Noè toccavano il fondo. Ora don Gabriele avrebbe voluto economizzare per Bruto almeno di che vivere un anno o due, onde aspettare tranquillamente i clienti.

Dieci giorni dopo che Bruto s’era stabilito nel suo nuovo appartamento, arrivò il colonnello.

Don Gabriele e Bruto s’erano concertati di nascondergli ciò che sapevano di Giuseppina e [p. 122 modifica]di Lena fino al momento in cui sarebbero sicuri di potergli raccontare qualcosa che non fosse un immenso dolore o un’immensa sventura.

Strappare Giuseppina dalla tomba, dove il colonnello la credeva discesa, per gettargliela nelle braccia incarnata in quella Serafina, la sarebbe stata davvero una cattiva azione. Restava Lena; bisognava cercare di salvare questa ragazza e sottrarla a sua madre. Bruto ci pensava.

Lena era sul punto di rappresentare una parte in una nuova commedia ai Fiorentini; passava le mattine alle prove. Quando non c’era nulla a fare al teatro, restava a casa a lavorare. Bruto la incontrò due o tre volte, come per caso, ma non potè parlarle, perchè c’era sua madre. Non osava interrogare i vicini per non destare sospetti. La sua tutela era, dunque, poco efficace. Don Gabriele, occupato del tramestìo dell’ammobiliamento della casa nuova, non aveva avuto tempo di aiutare Bruto; e le cose erano a questo punto quando arrivò il colonnello.

La era una sera di settembre. Le finestre erano aperte. Era l’ora in cui don Gabriele dava rappresentazione al teatro di Donna Peppa. Bruto studiava. Tartaruga pregava sonnecchiando nello stanzino che le era stato destinato, non come ad una serva, ma come ad una house keeper, come dicono gl’Inglesi, cioè qualcosa meno di una padrona di casa, ma qualche cosa di più di una fante.

Il colonnello arrivò a piedi, vestito da ser[p. 123 modifica]gente degli invalidi, una camicia involta in un vecchio giornale, per tutto bagaglio, ed un paio di calze che gli pendevano dalle tasche di dietro, a guisa di pezzuola. Non ebbe duopo di chiedere l’indirizzo; sopra una grande lamina di rame inchiodata alla porta stava scritto:

Bruto Zungo, medico-chirurgo.

Suonò. Tartaruga aprì.

— Dov’è? chiese alla serva.

Poi, senza aspettare la risposta, entrò gridando:

— Olà! Bruto! eccomi qua, fulmine d’un fulmine! Dove diavolo sei? nel tuo palazzo! Parola d’onore! Questo ragazzo si è regalato le Tuileries!

La nota voce, che riempiva l’anticamera ed il salotto, fu udita e riconosciuta da Bruto, che fece un balzo e ricevette il suo amico fra le sue braccia.

Il vecchio soldato ed il suo allievo erano commossi. Tartaruga faceva lume colla candela, non fiatando e non comprendendo che mezz’ora più tardi, che codesto sergente poteva ben essere il sergente cui Bruto attendeva.

— Come! cattivo galuppo, disse finalmente il colonnello, non una parola di lei, nella tua lettera!

— Egli è, mio povero colonnello....

— Che cosa?

— Mille scuse, mio generale.

— Bruto!

— Che il signor barone, che il signor conte [p. 124 modifica]non vada in collera, se abbiamo penetrato nei suoi segretucci. Non è colpa nostra. Egli ci ha autorizzato a far delle ricerche e quella chiacchierona di polizia....

— Ma allora, e lei....

— Ahimè! abbiamo perduto i nostri passi ed il nostro tempo.

Il colonnello sedette. Era stanco, del resto, e rimase silenzioso.

L’accoglimento che riceveva lo commosse.

La settimana di miele fu bella per tutti. Una sera Bruto gli disse:

— Colonnello, m’hanno regalato due biglietti pel teatro, volete venirci?

— Me ne importa poco veramente; ma se ciò ti fa piacere, ragazzo....

— Grande.

— Andiamoci allora.

— Ma voi, forse, non amate la prosa!

— Non amo mica meglio i versi; ci vengo solo per te!

Alle nove — è l’ora del teatro a Napoli — si trovarono seduti su due sedie del teatro dei Fiorentini. Quella sera si dava un nuovo dramma: Il fabbricatore di violini di Cremona, graziosa produzione, che s’aggira sulla manìa del fabbricatore geloso della voce umana e sopratutto del canto della donna; poi sulla maniera con cui se ne vendica una cantante di Milano, che gli fa prendere come allievo un giovane compositore di musica suo amante, il quale fa della figlia del fabbricante una grande cantatrice, e gliela rapisce onde farla esordire sul teatro di Milano nell’Achille in Sciro di Paisiello. [p. 125 modifica]

La figlia del fabbricante di violini, Ondina, cantava dietro le quinte la cavatina di quello spartito, un vero capolavoro. A quel canto la intera platea scoppiò in applausi frenetici e chiese la replica.

Ripetuta la cavatina, si chiamò fuori l’artista.

Era Lena. La sua bellezza cangiò il successo in frenesia. Fu ammirabile in tutta la sua parte. Bruto s’accorse che il colonnello diveniva tristo.

— Vi sentite male, o è l’emozione che vi produce il dramma? gli chiese.

— Ho voglia di fischiare questa giovine attrice. Andiamo via.

— Ve ne prego, colonnello, aspettiamo la fine....

Il colonnello si rannicchiò nella sua seggiola e parve addormentarsi. Nuova scena di Lena, un rondò di centomila diavoli, un fuoco d’artifizio di suoni arzigogolati, vocalizzati con abilità straordinaria, che passavano dai sibili d’una tempesta al dolce respiro d’una fanciulla addormentata. Nuovo diavoleto d’applausi.

Il colonnello non potè più resistere ed uscì.

Il dramma, del resto, finiva. Bruto l’accompagnò. Rientrarono senza dir parola.

Il colonnello aveva mal di capo ed andò a coricarsi. Bruto passeggiò nella stanza fino alle due del mattino e non chiuse occhio tutta la notte.

Al domani egli ebbe un lungo colloquio con don Gabriele. Discussero se dovessero svelare al colonnello di aver ritrovato la sua vecchia amante e la di lei figlia.

Don Gabriele fu d’opinione di non dir niente, [p. 126 modifica]poichè la vecchia gli sembrava sempre più equivoca ed infame. Bruto lo invitò a pranzo il giorno dopo.

Il pranzo fu allegro.

— Quando avremo preso il caffè, disse Bruto, usciremo. Vi preparo una sorpresa da quindici giorni. Voglio presentarvi ad una famiglia di mia conoscenza.

— Quale famiglia? domandò don Gabriele.

— Quella della mia fidanzata: prendo moglie.

— Come? sclamarono in coro il colonnello, il burattinaio e Tartaruga.

— Sì: vado a presentarvi la mia promessa. Non vi ho annunziati; ma, ne son certo, la vostra visita la colmerà di piacere.

Seguì un movimento di silenzio. Tartaruga si ritirò nella sua stanza e si mise a piangere.

Il sergente accese la pipa, don Gabriele incrociò le braccia dietro la schiena, Bruto cacciò le mani nelle tasche e via. Si sarebbe detto che seguissero un funerale: silenzio su tutta la linea. Percorsero così la via Foria, il Largo delle Pigne, Toledo; poi ascesero pel vico Tre Re e presero a sinistra per la strada Speranzella.

— Dove diamine andiamo? chiese don Gabriele.

— Poco lontano di qui, rispose Bruto.

— Sarebbe mai da?... disse egli con ansietà.

— Ancora due passi, voltate a dritta, là!... Siamo nel vico. Al numero 3. Lo conosci tu, don Gabriele?

— L’avevo indovinato. Non fa nulla, sei un bravo giovane e che il diavolo porti chi non ti vuol bene. [p. 127 modifica]

— Andiamo al settimo piano, colonnello, siete stanco?

— Andate avanti, vi seguo anche al decimo.

Ed eccoli all’uscio.

Bruto picchia: silenzio! Picchia di nuovo: silenzio! Don Gabriele assale la porta a pugni. Silenzio! Il colonnello batte con la sua gamba di legno. Nessuno!

— Sono uscite, dice Bruto.

S’apre l’uscio del sesto piano. Una donna viene sul pianerottolo e dice:

— Chi cercate, signori?

— Serafina Minutolo, risponde Bruto con voce turbata.

— È scomparsa da tre giorni, ella e sua figlia, risponde la donna.

— Come? sclamò Bruto.

— Sono venuti a cercar la Lena: gente di teatro, capite. Nè ella nè sua madre non stanno più qui. È tutto ciò che posso dirvi.

— Bisogna ricominciare! brontolò don Gabriele. Andiamo, Fuina, alla riscossa.

Il colonnello restò al buio di tutto. Alla sua volta si mise a frugar Napoli in cerca di Giuseppina.