Il sorbetto della regina/Parte prima/X

Parte prima - X. Dove si vede la coda del diavolo

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CAPITOLO X.


Dove si vede la coda del diavolo.


Fra le tante singolarità, don Noè aveva quella di essere molto ghiotto di lumache.

La sua tavola lasciava spesso scorgere la povertà, ma i ravanelli e le lumache ci mancavano di rado.

Bruto spiegava questa predilezione per non so quale conformità organica, che suo zio avrebbe trovato molto impertinente.

Il fatto sta che don Noè amava quei crostacei e ne mangiava molti. Da parecchi anni ne faceva impunemente sua delizia. Ma sia che questa volta avesse passato la misura, sia che avesse commesso l’errore di aggiungervi una gran scodella di fagiuoli, sia per altra causa, don Noè si trovò sotto le strette della digestione.

Don Noè, non sentendosi bene, non era andato alla chiesa. Il parroco l’aveva fatto chiamare, avendo da comunicargli nientemeno che una lettera dell’arcivescovato. Sapendo che il sagrestano era ammalato e trovandosi col suo fratello, lo pregò di andarlo a visitare. [p. 93 modifica]

Il dottor Tibia si recò subito da don Noè, e lo vide contorcersi, raggricciandosi sopra una sedia, mentre Tartaruga restava indecisa se egli facesse delle smorfie per celia o sul serio.

I dolori colici per altro crescevano, la fisonomia dell’ammalato si alterava sempre più, s’aggomitolava sopra di sè, come una pergamena sui carboni ardenti; aveva gli occhi scintillanti, la bocca aperta, la lingua fuori. Visto il dottor Tibia, gridò:

— Dottore, dottore, presto soccorrete il povero sagrestano di vostro fratello, mandate al diavolo le mie lumache.

Il dottore comprese tutto. Ma aveva più voglia di smascellar dalle risa che aiutare il povero paziente.

Tartaruga si segnava dalla testa ai piedi come faceva Luigi XI. Finalmente il dottore scrisse una ricetta: decozione di china con tintura di gluton e mandò Tartaruga a prenderla, mettendosi intanto al capezzale dell’ammalato fino all’arrivo di Bruto.

Trattandosi del sagrestano della parrocchia, lo speziale troncò a mezzo la storiella d’un beccaio che aveva battuto sua moglie, da cui doveva ricavare i numeri del lotto, e preparò la medicina.

Quando ritornò Tartaruga, il male aveva fatto spaventevoli progressi.

Il dottor Tibia non dubitava però di vincerla: perchè nulla resiste alla china rafforzata dalla tintura.

Don Noè istintivamente respingeva il beverone, pensando bisognargli piuttosto ciò che il [p. 94 modifica]cardinal Dubois riservava al conte di Laval chiuso nella Bastiglia, nonostante che il reggente avesse protestato: “poichè non gli resta che questo divertimento bisogna lasciarglielo.„ Il dottore gli fece inghiottire la pozione per forza, ad onta delle sue proteste e del suo furore.

In quel momento arrivò Bruto tutto ansante: poichè era passato dalla chiesa ove il parroco gli aveva raccontato il caso di suo zio, consegnandogli una lettera per quest’ultimo. Bruto gettò il cappello sul tavolo e la lettera e, corso al letto di don Noè, restò come fulminato; aveva compreso tutto, vedendo il dottor Tibia.

— Che cosa gli ha dato, maestro, chiese egli.

— Ha una indigestione di lumache, rispose il dottore, gli ho dato una decozione di china con tintura di gluton.

Bruto trasalì, si coperse il viso fra le mani, poi rizzandosi d’un sbalzo, gridò:

— L’avete assassinato.

Indi con un gesto della mano indicò al dottore la porta e si avvicinò a suo zio. Il dottore lo guardò con aria di sprezzo ed uscì senza aprir bocca.

— Non c’è più nulla a fare, mormorò il sagrestano. La mia ultima ora è venuta; questo Tibia è il più gran asino che io abbia incontrato in settant’anni di mia esistenza.

— Povero zio! disse Bruto.

— Gli perdono, ma egli mi ha ucciso. Ti lascio mio erede. Sii economo. Ho raggranellato alcuni scudi a forza di litanie: non divorarli con delle ballerine o delle bagasce. Raccomando la mia anima a Dio, il corpo a te. Don Gennaro ti [p. 95 modifica]farà un paio di calzoni colla mia sottana nuova: manda la mia veste da camera a mio padre, mangia qualche volta delle lumache ma con discrezione, perchè sono esse che mi uccidono.

— Giammai! esclamò Bruto, le detesto come la polizia.

— Fatti restituire dallo spazzino della chiesa un asciugamo nuovo ed un fazzoletto con tre buchi che gli ho prestato. Tutto viene in acconcio ed ogni cosa ha il suo tempo. Il parroco ha il Cristoforo Colombo del Ciarlone; riprendilo e leggilo tu che ti occupi di teatro. È un capolavoro. Il parroco quando è sazio lo trova sublime.

— Vi obbedirò.

— Abbandona il dottor Tibia; è peggio del coléra.

— È cosa fatta.

— Ti raccomando Tartaruga. Tu non puoi farle la buona compagnia che le ho fatto io per quindici anni, ma non la maltrattare, povera donna! È la creatura la più idiota e più religiosa di tutta Napoli. Pagami una necrologia del giornale l’Omnibus; tutti si prendono questo piacere postumo.

— Ve lo prometto.

— Recita i sette salmi penitenziali una volta al giorno e non dimenticare il tuo povero zio, che ti ha amato tanto.

— Tartaruga! Tartaruga! chiamò Bruto.

— Eccomi, signore. In questa casa non si ha neppure tempo di dire il rosario.

— Tartaruga, corri dal parroco, la comunione, gli oli santi.... un confessore.... [p. 96 modifica]

— Sta cheto, disse don Noè. Ho vissuto cinquant’anni di coteste mercanzie! Basta così.

— Tartaruga, un rinfrescante per lo zio.

Ne obliviscaris servum tuum, Domine, sclamò don Noè con voce morente.

Amen, rispose Tartaruga.

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.

Amen, rispose Tartaruga.

Sat prata biberunt!

Amen, disse Bruto alla sua volta.

— L’olio è consumato, la lampada si spegne, brontolò il moribondo con voce appena intelligibile.

— Tartaruga! Tartaruga! gridò Bruto,

— Che cosa si ha da fare? Abbiamo tempo fino a domani.

— Tartaruga, lo zio è morto.

— Quell’uomo l’ha ammazzato, gridò la governante con accento disperato, sciogliendosi in lagrime e gettando tali strida, che tutto il vicinato accorse.

Bruto con una lagrima negli occhi, che si ostinava a non voler varcare la palpebra inferiore, restò immobile, agghiacciato, irrigidito, pallido da far paura, i capelli irti, contemplando il cadavere. Non pareva più di questo mondo, non vedeva e non udiva più nulla. Finalmente quella lagrima cristallizzata si scioglie e cade; delle scintille traversano i suoi occhi, un brivido le sue membra; si fa rosso il viso, gli zufolano le orecchie, si lascia cadere in ginocchio, nasconde la faccia tra le mani e mormora:

— Quel miserabile l’ha assassinato!