IX. In cui il banditore Scarrone trova gaio il legislatore e l’innamorato Marbando trova iniqua la legge

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IX. In cui il banditore Scarrone trova gaio il legislatore e l’innamorato Marbando trova iniqua la legge
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Capitolo IX.

In cui il banditore Scarrone trova gaio il legislatore, e l’innamorato Marbaudo trova iniqua la legge.


Lungo la strada di Croceferrea, che di là aveva a passare Scarrone per recarsi a Millesimo, il gaio banditore raggiunse una piccola brigata di contadini, che andavano taciti in fila verso il colmo del poggio.

Tra essi riconobbe Dodone, che era l’ultimo e andava più lento, a capo chino, e con le mani intrecciate dietro le reni.

Dalla presenza di Dodone il banditore argomentò facilmente che fosse Ingetruda quella giovane donna, che lo precedeva di pochi passi, raccolta in un lungo mantello di pannolano, il cui lembo superiore le involgeva anche la testa.

Dodone udì lo scalpitìo del cavallo sul [p. 155 modifica] ciottolato del sentiero, e si tirò da un lato, contro una siepe di rovi, per lasciar passare il frettoloso cavaliere.

Ma il banditore non aveva la fretta che il passo della sua cavalcatura accennava. Vide Dodone, e tosto mise il cavallo al passo, per barattare quattro parole col villano.

— Buon dì, vecchio Dodone! — gli disse. — Si fa per un tratto la medesima strada.

— Buon dì! — rispose asciuttamente Dodone.

— Vedi? — ripigliò il banditore, che voleva ad ogni costo discorrerò. — Oggi fatichiamo per te e per la tua casa. Gran degnazione è stata quella del conte Anselmo, di pensare alle nozze della tua cara figliuola. —

Dodone tentennò la testa e borbottò qualche parola, che non giunse chiara all’orecchio del cavaliere.

— Ed è questa la bella Ingetruda, non è vero? — soggiunse il banditore, giungendo a pari della giovane. — Alza la fronte, fanciulla, e lascia vedere il tuo viso. Sei bella, perdiana! e se io avessi solamente dieci anni di meno, ti giuro che vorrei mettermi in gara, [p. 156 modifica] per falciare quel prato. Ma, dimmi, sei contenta dell’editto del conte?

— Obbedisco al nostro signore e padrone, — rispose Getruda.

— E tu, vecchio Dodone?

— Mia figlia li ha risposto anche per me.

— Buona gente, così va fatto, — sentenziò il banditore. — Obbedire al nostro signore e padrone. Chi obbedisce non fallisce. Poi il nostro signore ò giovane, e i giovani padroni son tutti buoni, perchè son gai, e vogliono esser serviti da gente allegra. Lo dice anche il salmo: Servite Domino in laetitia. A te, Ingetruda, il nostro gaio signore vuole assicurare per marito il più forte uomo dei suoi dominii. Tu devi andarne superba, mi pare. Bella sposina, io m’auguro di passare un altro anno da Croceferrea, per berne un calice di quel buono, che tuo padre tien chiuso nelle sue cantine, e di propinare alla salute del tuo primo nato. Ah, i bei frutti della falciatura! E tu arrossisci, Ingetruda? Mi piace il tuo rossore, perchè, se è possibile, ti rende ancora più bella. [p. 157 modifica] Getruda chinò la testa, e si trasse anche il lembo del mantello sugli occhi.

— Se tu pensi che io ne sposi uno, dei tuoi maledetti falciatori! — diss’ella in cuor suo. — Piuttosto il diavolo, che non è bello, ma è gran signore, e non sarà poi così brutto quanto si dipinge. —

La udiste voi, Gabriele, angelo custode delle ragazze, come il vostro collega Raffaele è custode dei giovanetti? Sicuramente, a quella bestemmia, voi celaste il bel viso tra le grandi ali del cigno. Ma un altro, in quel punto, battè allegramente le sue di pipistrello.

Il banditore Scarrone non udì nulla, egli che non era angelo, nè diavolo; e salutati quei due, che avevano così poca voglia di discorrere, tirò innanzi glorioso con la sua piccola masnada.

— Perdiana! — diss’egli, come fu venti passi più avanti. — È davvero un fior di ragazza. Chi di voi altri, figliuoli, si sente di falciare il prato?

— Io, sicuramente; — rispose lo scherano più vicino. [p. 158 modifica] — Ed io, perbacco! — aggiunse un secondo.

— Diciamo pure che ci proveremo tutti quanti; — gridò un terzo, ridendo; — se a tutti il castellano Rainerio darà libertà per quel giorno, come ce l’ha promessa stamane.

— Ah! sì! — mormorò il banditore. — 11 nostro castellano vede assai di buon occhio Dodone, e vuol procurargli un genero di gusto. —

Marbaudo, frattanto.... Dov’era, Maritando? Il povero giovanotto, quella mattina, aveva veduto Getruda, ma non si era avvicinato a lei, che non si degnava di rivolgergli uno sguardo, nell’entrare in chiesa, come altre volte faceva. Contentandosi dunque del saluto di Dodone, il nostro innamorato si era messo dalla banda degli uomini, adocchiando la ragazza da lungi; e ancora una volta, finito l’ufizio solenne, che alcuni incominciavano a chiamare la messa, ed altri seguitavano a chiamare la colletta, l’oblazione, il mistero divino, aveva cercato inutilmente lo sguardo di lei, mentre esciva sul sagrato. Poi aveva [p. 159 modifica] veduto il banditore, con la sua masnada; e si era fermato a sentire; e la lettura dell’editto comitale lo aveva fatto tremare e fremere di sdegno, parendogli grave offesa, non pure all’amor suo, ma alla dignità di Getruda, quello strombazzare in piazza il nome di lei. È sempre cosa spiacevole udir nominare in pubblico luogo la donna che si ama. Chi proferisce quel nome ha sempre l’aria di profanarlo. E quella, per Marbaudo, era una profanazione in cui egli sentiva la mano del castellano Rainerio. Tutti, frattanto, mentre il banditore leggeva, tutti si voltavano a guardare Marbaudo; e Marbaudo avrebbe voluto, in quel punto, essere due spanne sotterra.

Rimase immobile, con la fronte abbassata, fin tanto che il banditore non ebbe terminata la sua lettura. E però non vide Getruda e Dodone che si allontanavano solleciti, a mala pena conobbero di che si trattasse in quella pagina comitale. Come il banditore ebbe finito di leggere, ed anche di commentare il suo testo, qualcheduno si avvicinò a Marbaudo, per dirgli: [p. 160 modifica]

— Eccoti una bella occasione, giovanotto!

— Occasione! di che? — domandò egli confuso.

— Di farti onore, perbacco! Non sei tu che l’hai falciato l’anno scorso, il fieno di San Donato?

— Ebbene, che significa ciò?

— Significa che tu sai meglio d’ogni altro quante giornate ci vogliono, e questo è già un buon punto guadagnato per te.

— L’anno scorso, — disse Marbaudo, — ci ho speso otto giorni.

— E non sarai stato con le mani in mano; — soggiunse quell’altro. — Tu sei uno di quelli che parlano poco, quando sono sul lavoro, e non si perdono a veder saltare i grilli.

— Già! — mormorò Marbaudo, tentennando la testa.

Così lasciò cadere il discorso, e gl’importuni lasciarono libero lui di pensare a sua posta.

Pensò, non dubitate, pensò lungamente; assai più che non usasse parlare, rispondendo [p. 161 modifica] ai compagni. Che follia era mai saltata in capo al conte Anselmo? Perchè si occupava il signore, che viveva in Acqui, di dar marito a Getruda, di cui fino alla vigilia di quel giorno non aveva forse neanche conosciuta l’esistenza? Sicuramente, c’era sotto una cattiveria del castellano Rainerio. Questi sapeva bene che un anno prima il fieno di San Donato lo aveva falciato Marbaudo. Sapeva ancora che Marbaudo era invaghito della bianca Getruda, e che il vecchio Dodone l’avrebbe data in moglie a lui più volentieri che ad un altro.

Dunque?... Dunque, non essendo egli nelle grazie di Rainerio, e non potendo credere che la prova della falciatura fosse ordinata per fargli piacere, Marbaudo doveva conchiudere che quella prova era stata ordinata per nuocergli. Ma in che modo? Questo non gii era facile intendere, e non lo intese, per fantasticar che facesse sul tema.

Andava frattanto verso la casa degli Arimarmi, e perciò costeggiando la lunga distesa del prato famoso. I contadini che lo vedevano passeggiar lento sul confine del vasto [p. 162 modifica] maggese, poterono pensare ch’egli già facesse i suoi conti sulle giornate di lavoro, che sarebbero occorse per vincer la gara. Egli, in quella vece, andava dicendo tra sè:

— Ecco la legge del conte! Io amo una donna, e questa donna ama me; il conte si frappone, con la prova della falce, e un altro vince la prova; e ciò che Iddio aveva ispirato nel cuor mio e nel cuore di quella donna, non vale, dev’essere soffocato, in obbedienza alla legge del conte. Oppure, io amo una donna che non m’ama, e vinco la prova, e quella donna è mia, contro i voti del suo cuore. Legge del conte! legge iniqua! Pure, io debbo passare di qua. Voglio Getruda, la bella Getruda, che mi è tanto severa. E perchè severa? Che ambizioni hanno mutato in tal guisa il suo cuore? Pur troppo, io non sono che un povero aldione; ed essa è troppo bella. Una donna bella può giungere a tutto; e l’uomo ha da rimanere incatenato al posto che gli ha assegnato il suo destino. Eppure, qualche volta un uomo forte ed audace.... Ah, sì, se io fossi soldato.... se la fortuna mi arridesse tanto da [p. 163 modifica] far guadagnare anche a me il mio lembo di paese.... Ma ecco, io frattanto dovrei lasciare Getruda, e un altro l’avrebbe in mia vece. Che mi gioverebbe allora la fortuna? a che mi avrebbe condotto la forza? Ahimè! più ancora che la terra su cui vive e l’umiltà dei natali, i medesimi affetti che dovrebbero innalzarlo incatenano l’uomo alla povertà della sua condizione. —

E sospirò, il disgraziato. Il sospirare è una maniera di pensare, e sta in luogo di conclusione che non si trova.

Fatto il giro del prato, e dovendo pur volgere un’occhiata al campo della prova futura, Marbaudo calcolò che, non perdendo tempo, si poteva falciare tutto il maggese in sei giorni. L’anno addietro egli ne aveva spesi otto; ma era anche andato tardi sul lavoro; spesso si era indugiato a barattar parole coi viandanti, secondo l’uso dei contadini, che in questa guisa, anche restando inchiodati sul loro lembo di terra, vivono un po’ della vita del mondo.

Per altro, se egli poteva compiere quella [p. 164 modifica] fatica in sei giorni, anche un altro poteva agguagliarlo.

Per resistere come lui a sei giorni di assiduo lavoro, Marbaudo non credeva che ce ne fossero due entro il giro di dodici miglia. Ma egli pensò ancora che se erano in gara parecchi, la prova della resistenza non sarebbe stata possibile, perchè in capo ad un giorno il prato sarebbe, stato falciato tutto quanto. Perciò non bisognava fissarsi su ciò che un uomo potesse fare, lavorando sei giorni alla fila, ma su ciò che potesse, facendo lo sforzo maggiore, in un giorno..

E in questo caso non bisognava più offrirsi per falciare il prato in sei giorni, ma in cinque, ed anche in meno.

Marbaudo si fermò risoluto sui quattro. Andando con una buona falce, bene arrotata, anzi con due o tre lame già debitamente preparate, in modo da non dover perder tempo a ridargli il filo, si poteva anche dir quattro.

Non c’era che un pericolo: che egli si fosse trovato solo alla prova: nel qual caso, avendo promesso di compiere ia fatica in quattro dì, [p. 165 modifica] non gli sarebbero durate tanto la lena e la furia del primo.

Ma quello era un caso improbabile. Alla più trista, poi, avrebbe lavorato di notte, e nell’ultima falciata di fieno avrebbe lasciala anche l’anima.

Quella sera il giovanotto si arrisicò di salire a Croceferrea, e di passare davanti alla casa di Dodone.

Non era stato lassù il giorno prima, e già gli pareva mill'anni. Getruda rispose freddamente al suo saluto; ma quella freddezza esteriore non era una cosa nuova, ed egli ci s’era avvezzato fin dai tempi in cui sperava di più. Dodone, per contro, gli fece un’accoglienza più affettuosa del solito.

— E così, — gli disse, traendolo in disparte sotto la pergola, che incominciava a rivestirsi di pampini; — hai sentito il bando del nostro signore?

— Sì; — rispose Marbaudo; — e ho subito detto tra me; tanto meglio!

— Ah! — borbottò il vecchio. — Questo è un tiro del castellano. [p. 166 modifica]

— Ebbene, che vuol dir ciò? Ti ripeto: tanto meglio! — disse Marbaudo. — Sicuro della tua benevolenza, padre mio, lavorerò per quattro.

— E in quanti giorni?

— L’anno scorso ho falciato tutto quel maggese nel termine di otto giorni. Quest’anno lo falcerò in quattro.

— Tu puoi prometter tanto?

— Perchè no, se debbo guadagnar la mano di tua figlia? —

Dodone stette alquanto sopra pensiero; poi disse:

— Anch’io ho misurato il prato, quest’oggi, e ti ho veduto da lungi, che gli giravi attorno per la stessa cagione. È il lavoro di diei giorni, per un uomo robusto e di buona volontà. Tu hai potuto compierlo in otto, perchè sei tu, e nessuno è più forte e più pronto di te. Facendo miracoli, puoi compierlo in sette; mettiamo anche in sei. Ma come potresti riprometterti di darlo falciato in quattro? Ciò è sopra le forze di un uomo.

— Lo so; — rispose Marbaudo. — Lo so [p. 167 modifica] che sarebbe impossibile durare quattro giorni, lavorando a furia come il primo. Ma tu non pensi, o padre, che saremo parecchi in gara, con gli scabini che faranno il conto e giudicheranno in proporzione, misurando il lavoro di quattro giorni promessi sul lavoro compiuto in quel primo ed unico giorno.

— Capisco; — disse Dodone. — Ma tu, ad ogni modo, in capo al primo giorno dovrai aver falciata la quarta parte del campo. Ti ammazzerai a tentarlo. —

— Mi ammazzerò, ma avrò vinto: — replicò Marbaudo.

— Che Iddio ti assista, figliuolo! E implora il suo aiuto, prima di metterti all’opera. Lo senti, Getruda? — soggiunse il vecchio, muovendo verso l’uscio della casa, dov’era la fanciulla seduta. — Questo povero nostro Marbaudo vuol morire, per guadagnar la tua mano. Che gli rispondi?... —

Getruda aveva un gran desiderio di non risponder nulla. Ma suo padre domandava, e a suo padre bisognava rispondere.

— Io gli consiglierei di badare alla sua [p. 168 modifica] salute; — disse ella. — Che sono io, per meritare tanta fatica, col pericolo della vita? Se non vincerà la prova, vorrà dire che noi non eravamo nati l’uno per l’altro.

— Che ragioni son queste? — gridò il vecchio sdegnato.

— È giusto, — disse Marbaudo, frapponendosi. — Lo so bene che sarà stata la volontà di Dio. Ma egli mi ha date queste braccia, perchè io tenti di fare quanto è in poter mio. Se un altro ha da essere il vincitor della gara, sappi almeno, o Getruda, che io ti avrò contesa fino all’ultimo soffio di vita. Ed ora, il Signore ti guardi! —

Se ne andò, dette queste parole; se ne andò con la morte nell’anima. Amava disperatamente, il povero Marbaudo, e sentiva dentro dell’anima che se egli non vinceva la gara, quella era stata l’ultima volta in cui aveva veduto Getruda.

Dodone lo seguitò, e lo accompagnò un tratto di strada per consolarlo della durezza di sua figlia.

Il vecchio aldione incominciava a [p. 169 modifica] dare a sé stesso che spirito maligno gli avesse generato in casa quella indiavolata ragazza. Ah, gli perdonasse quella buon’anima di sua moglie il sospetto ingiurioso! ma egli non riconosceva più in quella stizzosa fanciulla il suo sangue.

Marbaudo si avviò la mattina seguente a Cairo, per presentarsi al castellano Rainerio.

— Ah, sei qua, tu? — gli disse il nero personaggio. — Scommetto che vieni per farti scrivere tra i falciatori della gara.

— Per l’appunto, mio signore: — rispose Marbaudo, arrossendo, ma con accento risoluto.

— Gran giornata vuol esser quella, per voi altri, aldioni e innamorati! — riprese il castellano, ghignando. — Ma intanto ecco una giornata che incomincia male, e vuole seguitar peggio, per me. Non siamo ancora a terza, e tu sei gia il settimo. Quanti sarete a nona?

— Come, — aveva esclamato Marbaudo, turbato da quella ressa di contendenti.

— Sicuro, già il settimo; — rispose Rainerio. — ciò significa che sei innamorati si sono fatti già scrivere nel registro prima di te. [p. 170 modifica] — E in quanti giorni, — balbettò il giovane, — si offrono essi di falciare il prato?

— Eh, veramente in troppi. La più parte dicono in sei giorni; uno in cinque....

— Ed io in quattro; — interruppe Marbaudo, a cui ritornava un po’ di spirito in corpo.

— È un bel numero! — disse il castellano, sempre ghignando. — Ma vedi? Ce n’è uno, di questi primi sei, che promette di falciarlo in tre giorni.

— Impossibile!

— Impossibile! Perche? Credi tu d’essere il più forte di queste valli?

— No, — disse il giovane, — ma conosco i più forti, e so quanto possano le braccia di un robusto lavoratore. Dammi l’uomo più robusto del mondo, sia pur egli Sansone; se tu gli avrai messa in mano una falce lunga come quella che è usata da tutti, egli non potrà mica in un colpo tagliare tre volte più fieno di un altro. Bene potrà più d’un altro alla fatica continua; ma questo vantaggio si può calcolare fin dove vada; tanto più che [p. 171 modifica] Sansone ò morto, e io non vedo chi possa sperare di uguagliarlo, tra i vivi. Io dunque dico, messere castellano, che è impossibile ad un uomo di falciar da solo il maggese di San Donato in tre giorni. Chi lo promette, inganna sè stesso, o vuole ingannar gli altri, facendo troppo assegnamento sul numero dei competitori, il cui lavoro lo salverà dal rischio di dover giungere ad una chiara dimostrazione della sua tracotanza.

— Di questo giudicherò io, con gli scabini che mi assisteranno; — rispose Rainerio. — Non m’insegnare come giustizia vada fatta, villano! Se vuoi entrare in gara, devi cianciar meno e operare di più, accettando di provarti con chi propone il termine più breve. E tu e gli altri vi aggiusterete come potrete. Chi avrà miglior lino farà miglior tela. —

Si ragionava male, col castellano Rainerio. Nè altro osò aggiungere Marbaudo; tanto più che un gesto del castellano gli diceva chiaro: — non ho altro tempo da perdere con un villano tuo pari.