Il poeta fanatico/Atto III

Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera con lumi.

Brighella solo.

Ah pazienza! Per esser un povero servitor, non ho podesto far cognosser la mia abilità. No i m’ha volsudo dar permission che recita anca mi in accademia la mia composizion. Pazienza1. El me patron se saria anca contentà, e quei siori accademici, ignoranti e superbi, no i s’ha degnà. Ma so mi perchè no i ha volesto che recita; perchè i ha avudo paura che le mie composizion butta in terra le soe, e infatti, se recitava sti pezzi de ottave, i se podeva andar a nasconder tutti. De sta [p. 598 modifica] sorte de roba no i ghe n’ha mai fatto, e no i ghe ne sa far. Rime balzane! Rime balzane! Ah che bella cossa! Rime balzane. L’è vero che me le son fatte far, ma nissun sa gnente, e le poi benissimo passar per mie. (legge)

Canto la guerra delle rane antiche,

Allor che i sorci andavano in carretta,
E quando si vendevan le vessiche
Per far delli vestiti a una civetta.
Una truppa di gravide formiche
Stava intanto giocando alla bassetta,
E finalmente un campanil di vetro
Ad un gobbo gentil saltò di dietro.

SCENA II.

Beatrice e detto.

Brighella2. Cara siora padrona, per carità, la senta ste ottave balzane3.

Beatrice. Va dal signor Tonino, portagli la cioccolata per lui e per la sua consorte.

Brighella. La cioccolata?

Beatrice. Sì, la cioccolata, con i suoi biscottini.

Brighella. Come hala fatto mai a cambiarse a favor de sto forestier? La lo4 trattava da scrocco, da impostar, da vagabondo, e5 con tanto amor la ghe parecchia la cioccolata?

Beatrice. Ho conosciuto che è un giovane virtuoso, onorato e dabbene; e per questo lo vo’ trattar come merita.

Brighella. Donca podemio sperar che ella no la sia più tanto nemiga della poesia?

Beatrice. Ho principiato a pigliarvi un poco di gusto. [p. 599 modifica]

Brighella. Da vero?

Beatrice. Così è certamente.

Brighella. Quando l’è cussì, la me fazza una grazia. La senta sto par de ottave balzane.

Beatrice. Non voglio sentir niente6.

Brighella. La ghe ne senta almanco una.

Beatrice. Sbrigati.

Brighella. Una sola, per carità.

Beatrice. (Oh che seccatori che sono questi poeti!) (da sè)

Brighella. Montò a caval d’una montagna un’occa,

     Sfidando ai pugni un orso barbaresco;
     E un albero senz’occhi e senza bocca
     La furlana ballò con un Todesco.
     Un gatto s’innamora d’una rocca,
     Una cicala si mangiò un pan fresco,
     Un becco s’affatica notte e giorno,
     E un cervo astuto gli regala un corno7. (parte)

SCENA III8.

Beatrice sola.

Assolutamente questi poeti io non li posso tollerare. Non vi è stato altri che il signor Tonino, che colla dolcezza dei suoi bei versi mi abbia dato piacere. Egli merita tutto, e non mi dispiacerà che resti ospite in casa nostra. Che uomo civile! Che giovine prudente e sincero! (1) (2) (3) [p. 600 modifica]

SCENA IV9.

Ottavio e detta.

Ottavio. Dov’è il signor Tonino?10

Beatrice. Nella sua camera.11

Ottavio. Grand’uomo è quello! Gran bella mente! Gran prontezza! Grande spirito, gran poeta!

Beatrice. Certamente egli è un giovine che merita assai.

Ottavio. Merita tutto. Avvertite bene, non me lo disgustate.

Beatrice. Io gli farò tutte le finezze possibili.

Ottavio. È vero che vuole insegnare anche a voi la poesia?

Beatrice. È verissimo.

Ottavio. E voi l’imparerete?

Beatrice. Spero di sì.

Ottavio. Bravissima, stategli appresso, e non dubitate. Ma voglio che dia qualche lezione anche a mia figlia.

Beatrice. Oh, non istà bene che un giovine faccia il maestro ad una ragazza.

Ottavio. È un giovine tutto dedito alla virtù.

Beatrice. L’occasione fa l’uomo ladro.

Ottavio. Sì? E con voi questo ladro non potrebbe rubar qualche cosa?

Beatrice. Io sono una moglie onorata.

Ottavio. E Rosaura è una figlia da bene.

Beatrice. Io vi consiglierei di dar marito12 a questa vostra figliuola.

Ottavio. Oh pensate! La mia figliuola! La mia petrarchessa! La voglio con me; la voglio con me.

Beatrice. Vi sarebbe per lei un ottimo partito.

Ottavio. No, no, non voglio che me la rovinino; non voglio che perda il gusto della poesia.

Beatrice. Anche maritata potrebbe comporre.

Ottavio. Oibò! L’amor del marito, le gelosie, i figliuoli, i parenti, [p. 601 modifica] son tutte cose che traviano la mente e fanno perder l’amore alle Muse.

Beatrice. Guardate che ella non vi precipiti.

Ottavio. Non mi seccate.

Beatrice. Maritatela.

Ottavio. Non mi seccate.

Beatrice. Ve ne pentirete.

Ottavio. Gente cui si fa notte innanzi sera.

Beatrice. Questa13 canzone non la posso soffrire. (parte)

Ottavio. Ho piacer di saperlo; quando vorrò farla andar via, principierò a dire:

Gente cui si fa notte innanzi sera.

SCENA V.

Brighella colla cioccolata, ed Ottavio.

Ottavio. Che cos’è quella?

Brighella. La cioccolata.

Ottavio. Chi te l’ha ordinata?

Brighella. La patrona.

Ottavio. Mia moglie?

Brighella. Signor sì.

Ottavio. Come! Così mi consuma la cioccolata? Così ne tien conto?

Brighella. Me pareva anca mi, che la fusse buttada via.

Ottavio. E a chi la devi portare?

Brighella. Al signor Tonin e alla so consorte.

Ottavio. Oh sì, sì, ai poeti, sì. Portala, portala.

Brighella. E no l’è buttada via?

Ottavio. Anzi è impiegata benissimo. Ai poeti? Tutto. Presto, porta la cioccolata, e di’ loro che desidero rivederli, che anderò a ritrovarli, se mi permettono. [p. 602 modifica]

Brighella. Porto la cioccolata ai do poeti,

     Ma i torria più tosto do zalletti. (parte)

Ottavio. Che asino! Rimare zalletti con poeti. Poeti si scrive con un t solo, e zalletti con due. Ma quanti vi cadono in quest’errore! Io non ci caderò certamente, poichè non faccio rima senza l’aiuto del mio rimario. Benedetto Stigliani! Ti sono pure obbligato. Oh, quanti avranno a te quest’obbligazione! Quanti poeti cercano le rime sul rimario, e misurano i versi sulle dita!

SCENA VI.

Lelio ed Ottavio.

Lelio. Riverisco il signor Ottavio.

Ottavio. Addio, Ovano Pazzio. Io mi chiamo Alcanto Carinio.

Lelio. Il mio carissimo signor Alcanto, la nostra accademia principia male.

Ottavio. Perchè dite questo?

Lelio. Perchè si ammettono genti forestiere, senza sapere chi siano, e invece di formare un’accademia di persone dotte e civili, faremo un’unione di vagabondi e d’impostori.

Ottavio. Come! La virtù merita in chi si sia essere rispettata. Il signor Tonino è una persona civile, e poi è un eccellente poeta.

Lelio. Un eccellente poeta? Mi meraviglio di voi, che per tale credere lo vogliate.

Ottavio. Non avete sentito con che bravura ha improvvisato?

Lelio. Io stimo infinitamente gli improvvisatori, ma fra questi vi sono delle imposture assai.

Ottavio. Sia comunque volete voi, vi saranno degl’improvvisatori cattivi, ma il signor Tonino certamente è uno dei buoni.

Lelio. Se è tale, conviene meglio sperimentarlo. Anticamente dai Greci e dai Latini, per provare i poeti, si accostumavano li certami, nei quali combattè principalmente coi versi Omero con Esiodo, Pindaro con Corinna, e Nerone istesso cantò nei certami, e vinse varie corone. [p. 603 modifica]

Ottavio. Omero con Esiodo? Pindaro con Corinna? Nerone istesso? E voi sapete tutte queste cose?

Lelio. L’arte poetica l’ho imparata con fondamento.

Ottavio. Peccato che siate così satirico. Ditemi dunque, che cosa intendete di dire coll’istoria dei certami?

Lelio. Io dico che la competenza e il confronto fanno conoscere i veri e i falsi poeti. Che però conosco io un improvvisatore veneziano vero e reale, che non ha studio, che non ha fondo di scienza, ma canta egregiamente all’improvviso, senza cabale e senza imposture. Se volete che lo mettiamo al cimento con questo signor Tonino, scopriremo la verità.

Ottavio. Sì; bravissimo, facciamolo prestamente. Ritrovate questo onorato galantuomo, conducetelo qui da me, e facciamo questo certame. Vedete se mi ricordo del termine? Certame14

Lelio. Se potrà venire, verrà.

Ottavio. Manderò subito ad avvisare gli accademici nostri, perchè siano presenti al certame. Ora vado dal signor Tonino.

Lelio. Non gli dite nulla, non gli date campo che si prepari.

Ottavio. Bravo. Mi avete illuminato. Anderò a ritrovare mia figlia, a vedere se ha fatto qualche capitolo petrarchesco.

Lelio. Benissimo...

Ottavio. Ah! Che dite di mia figlia? Quello è un portento. Andatene a ritrovare un’altra. Non c’è, non c’è stata, e non ci sarà. Che Petrarca! Che Ariosto! Che Tasso! Ma dite la verità, non è una cosa che fa stordire? Non fa dar la testa nelle muraglie? Fidalma Ombrosia, Fidalma Ombrosia.

Fidalma, a te m’inchino;

Fidalma, onor del sesso femminino. (parte)

Lelio. È pazzo per questa sua figlia. Io me lo godo infinitamente. [p. 604 modifica]

SCENA VII.

Brighella dalla camera di Tonino, e Lelio.

Brighella. Servitor umilissimo, signor Lelio mio patron.

Lelio. Oh Brighella! Che si fa?

Brighella. Eh! Se va facendo qualche cosa cussì bel bello.

Lelio. Bravo, fatevi onore.

Brighella. Comandela sentir un’ottavetta balzana?

Lelio. No, no, non v’incomodate. Ho premura, e me ne devo andare.

Brighella. Un’ottavetta sola.

Lelio. Ma se è tardi.

Brighella. Un’ottavetta, per carità.

Lelio. Via, spicciatevi. (Gran difetto è questo di noi altri poeti!) (da sè)

Brighella. Era di notte, e non ci si vedea,

     Perchè Marfisa aveva spento il lume.
     Un rospo colla spada e la livrea
     Faceva un minuetto in mezzo al fiume.
     L’altro giorno è da me venuto Enea,
     E mi ha portato un orinal di piume.
     Cleopatra ha scorticato Marcantonio,
     Le femmine son peggio del demonio.

Lelio. L’avete fatta voi quest’ottava?

Brighella. Certissimo, l’ho fatta mi.

Lelio. Compatitemi, io non lo credo.

Brighella. No la lo crede? No son fursi anca mi poeta?

Lelio. Sì, ma siete solito a fare qualche verso stroppiato.

Brighella. La s’inganna, per scander i versi no gh’è un par mio. E all’improvviso, all’improvviso.

Lelio. Sì? Bravo. Ditemi qualche cosa all’improvviso.

Brighella. La servo subito. Per obbedire a vostra signoria, Faccio due versi, e poi me ne vado via. (parte) [p. 605 modifica]

Lelio. Oh che somaro! Ha fatto un verso di dodici piedi. Si vede che l’ottava non è sua.15 Oh quanti si fanno merito colla roba d’altri, e sono forzati ripetere tante volte gli autori quei versi di Virgilio:

Sic vos, non vobis, mellificatis, apes,

Sic vos, non vobis, fertis aratro, boves.

SCENA VIII.

Corallina e Lelio.

Lelio. Ecco qui la signora Incognita.

Corallina. Serva umilissima, mio signore.

Lelio. La riverisco. Dove si va, padrona mia?

Corallina. A dare il buon giorno alla padrona di casa.16

Lelio. Trattenetevi ancora un poco. (Costei non mi dispiace). (da sè)

Corallina. Avete qualche cosa da dirmi?

Lelio. Vi dirò una cosa ch’io so, e a voi non è nota.

Corallina. La sentirò volentieri.

Lelio. Voi forse non sapete

     Che v’apprezzo, vi stimo, e mi piacete.
Corallina. Rispondo immantinente,
     Che di saperlo non m’importa niente

.

Lelio. Voi mi disprezzate? Sappiate che posso anch’io contribuire alla vostra fortuna.

Corallina. La conoscete voi la fortuna?

Lelio. La fortuna è quel bene che tutti cercano, che tutti sospirano. [p. 606 modifica]

Corallina. Eh, che non la conoscete!

La fortuna è come un corno,

     Ch’ora salta qua e là.
     Prego il ciel vi salti attorno,
     E v’aggiusti come va.
     Che v’interni i suoi favori,
     E che più non esca fuori.

Lelio. Obbligatissimo alle vostre grazie. Ditemi: il signor Tonino è veramente vostro marito?

Corallina. Chi d’altrui pensa male,

     Il cor palesa al pensamento eguale.

Lelio. Certamente sarete voi altri una coppia d’eroi. Un uomo ed una donna, che vanno per il mondo a far mercanzia di versi e di rime, che s’introducono nelle case a scroccare, saranno qualche cosa di buono.

Corallina. Qualche cosa di buono io sarei stata,

     Se il vostro genio avessi secondato;
     Ma poichè son per voi troppo onorata,
     Meco tosto d’umor siete cangiato.
     Questa pur troppo è la dottrina usata,
     Si disprezza virtute, il vizio è amato;
     Ma siatemi severo, o pur cortese,
     Io vi manderò sempre a quel paese. (parte)

Lelio. O che femmina impertinente! Ma è così; le donne, quando sanno qualche cosa, pretendono cacciarsi gli uomini sotto i piedi. Se studiassero, poveri noi! Ma farò io calar la superbia a questi impostori.

L’asino, travestito da leone,

Alfin si scopre, e l’albagia depone. (parte)

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SCENA IX.

Camera.

Florindo e Rosaura.

Rosaura. Avete sentito, come chiaramente la signora Beatrice ha parlato? Mio padre non vuole ch’io mi mariti.

Florindo. E pure mi comprometto, che il signor Ottavio non dirà sempre così.

Rosaura. È un uomo che si fissa moltissimo nelle cose sue, e non è facile il fargli mutar risoluzione.

Florindo. Egli si è fissato principalmente nella poesia, e questa Lo farà smuovere da ogni altra minor fissazione.

Rosaura. Appunto per la poesia non vuole ch’io mi stacchi da lui.

Florindo. E voi minacciatelo di non voler più comporre. Fate la lezione ch’io vi ho insegnata, e non dubitate.

Rosaura. Eccolo ch’egli viene.

Florindo. Vi vuol coraggio.

Rosaura. E ho da fingere?

Florindo. Siete donna, siete poetessa, e avete della difficoltà a fingere? Poverina! Credo che appunto finghiate, quando mi dite di non saper fingere.

SCENA X.

Ottavio e detti.

Ottavio. Figliuola mia, cosa si fa di bello? Avete composta qualche canzone, qualche sonetto?

Rosaura. Signor no, non ho composto niente.

Ottavio. Per amor del cielo, non perdete il vostro tempo così inutilmente. Il mondo aspetta da voi gran cose.

Rosaura. Il mondo avrà finito d’aspettarle da me.

Ottavio. Come! Oh cielo! Che cosa mai dite?

Rosaura. Un sogno, o sia visione, di questa notte mi ha empita di spavento, e non posso certamente comporre. [p. 608 modifica]

Ottavio. Eh via, che sono i sogni della notte

Immagini del dì guaste e corrotte.

Animo, animo, a scrivere, a comporre

Rosaura. Non comporrò mai più certamente.

Ottavio. Mai più?

Rosaura. Mai più.

Ottavio. Rosaura, io mi vado a gettare in un pozzo.

Rosaura. Finalmente, che gran male sarà s’io tralascio di comporre?

Ottavio. Che male sarà? La morte di tuo padre, la rovina di questa città, il pregiudizio di tutta Italia. (Signor Fiorindo, per amor del cielo, ditemi voi, se sapete, perchè Rosaura non vuol più scrivere, non vuol più comporre?)

Florindo. Sentite. Signora Rosaura, con vostra buona licenza...

Rosaura. Già non fate nulla. Non voglio comporre mai più.

Ottavio. Oh povero me!

Florindo. (E diceva che non sapeva fingere). (da sè) Sentite, signor Ottavio. Io ho penetrato il cuore della signora Rosaura. Ella è una figliuola savia ed onesta; ha sentito rimproverarsi dalla matrigna, e da altri ancora, che una giovine da marito fa cattiva figura a trattare familiarmente coi giovani poeti, a scrivere composizioni amorose, a perdere il tempo colla poesia, e che nessuno farà conto di lei, e niuno la vorrà per moglie, a causa di questa sua poesia. Onde la povera signora si è fissata su ciò, e non vuol più comporre.

Ottavio. Che lasci dire, che lasci cianciare. Ella non ha bisogno di marito. Starà con me, starà con me.

Florindo. Voi non viverete sempre. Se morite voi, la povera giovine resterà screditata.

Ottavio. Credete voi ch’io voglia morir domani?

Florindo. Il cielo vi conservi, ma siamo mortali.

Rosaura. Mai più, mai più.

Ottavio. No, cara, non dir così.

Florindo. Sentite: io anzi vi consiglierei maritarla, e allora non avrà più difficoltà di comporre. [p. 609 modifica]

Ottavio. E se il marito fosse nemico della poesia17?

Florindo. Si può trovare un marito poeta.

Ottavio. Oh cielo! Basta... Con un poeta, forse forse indurre mi lascierei.

Florindo. Ed ella allora sarebbe contenta, e comporrebbe felicissimamente.

Rosaura. Comporre? Mai più.

Ottavio. Eh aspetta, aspetta con questo mai più. Ma chi sarà mai questo fortunato poeta, a cui toccherà in sorte una virtuosa di questo grido?

Florindo. Non saprei; bisognerà ricercarlo.

Ottavio. Caro il mio caro Breviano Bilio, voi potreste essere questo sposo felice.

Florindo. Oh io non merito quest’onore!

Ottavio. Dovendola maritare, a voi la darei più volentieri, poichè maggiormente la vostra Musa, unita a quella di Rosaura, farebbero stupire il mondo.

Florindo. Certamente potrei chiamarmi fortunatissimo.

Rosaura. Voi discorrete, ed io vi dico mai più.

Ottavio. Mai più, mai più, ed io vi dico sempre, sempre.

Rosaura. A una figlia nubile non conviene.

Ottavio. Converrà dunque a una maritata.

Rosaura. Ma se sono... fanciulla.

Ottavio. Ma se sarete... maritata.

Rosaura. Io?

Ottavio. Signora sì.

Rosaura. Con chi?

Ottavio. Con Breviano Bilio.

Rosaura. Mi burlate?

Ottavio. Breviano, ditelo voi.

Florindo. Così è, signora Rosaura; se vi degnate, io sarò vostro sposo.

Rosaura. Ah!(respira) [p. 610 modifica]

Ottavio. Mai più, mai più?

Rosaura. Sempre, sempre.

Ottavio. E senza lo sposo, mai più?

Rosaura. Per cagione dell’onestà.

Ottavio. Via dunque, andate subito a compor qualche cosa.

Rosaura. Oh, finchè non sono sposata, mai più.

Ottavio. Quand’è così, non perdiamo tempo. Venite con me, diciamolo anche a mia moglie, e su due piedi sposatevi, e non mi fate più sentire quel18 mai più.

Rosaura. Oh, quando sarò sposata, sempre, sempre.

Ottavio. Vieni in nome d’Apollo,

Vieni, in grazia d’Amore,
A porti al collo una catena, e al core. (parte)

Rosaura. Dolce catena, che mi giova e piace;

Per cui spero goder riposo e pace. (parte)

Florindo. E diceva che non sapeva fingere. Ma questo è l’effetto della gentilissima poesia. Suo padre me la concede colla speranza ch’ella abbia a scrivere sempre, sempre; ma quando l’avrò condotta a casa mia, farò che nuovamente ella dica, mai più19. (parte)

SCENA XI.

Sala dell’accademia.

Tonino ed Eleonora.

Tonino. Cossa vuol dir? Un’altra accademia! S’ha da far la lizion do volte al zorno?

Eleonora. Sono stata anch’io poco fa invitata con un’ambasciata dal signor Ottavio, ma non so a qual fine.

Tonino. Sarà per goder qualche frutto della virtù della gentilissima siora Eleonora.

Eleonora. Voi mi mortificate, signor Tonino; sarà più tosto per ammirar nuovamente la prontezza del vostro spirito. [p. 611 modifica]

Tonino. Le mie leggerezze no le merita incomodar soggetti de tanta stima.

Eleonora. Avete dunque deciso, che la grazia sia preferibile alla bellezza?

Tonino. Sta decision per altro no l’ha gnente da far con ella.

Eleonora. No certamente, perchè io non sono nè graziosa, nè bella.

Tonino. Anzi perchè la grazia e la bellezza le se trova in ella unide perfettamente.

Eleonora. Voi mi mortificate.

Tonino. (La fa bocchin. La gode anca ella sentirse lodar. Tutte le donne le xe compagne). (da sè)

Eleonora. Voi per altro vi siete protestato, che una donna bella vi piace.

Tonino. Cospetto del diavolo! A chi no piaseravela?

Eleonora. Ma qual è la bellezza, che a voi piace più delle altre?

Tonino. Ghe dirò: quando m’avesse da innamorar, me piaserave una donna de statura ordenaria, ma più tosto magretta, perchè el troppo grasso me stomega. Averia gusto che la fusse brunetta, perchè dise el proverbio: El bruno el bel non toglie, anzi accresce le voglie. Voria che la gh’avesse do bei rossi vivi sul viso, la fronte alta e spaziosa, la bocca ridente coi denti bianchi, e sora tutto do bei occhi negri, piccoli e furbi. Una bella vita, un bel portamento, un vestir nobile e de bon gusto, che la parlasse presto e pulito, e che sora tutto la fusse bona, sincera, e affabile, e de bon cuor20.

Eleonora. È difficile trovar unite tutte queste prerogative.

Tonino. E pur la me permetta che el diga, le se trova in ella epilogade perfettamente.

Eleonora. Voi mi mortificate.

Tonino. (La va in bruo de lasagne). (da sè)

Eleonora. Voi siete un grazioso poeta.

Tonino. Son tutto ai so comandi. [p. 612 modifica]

SCENA XII.

Beatrice e detti

Beatrice. Signor Tonino, mi rallegro della bella conversazione che sta godendo.

Tonino. Adesso la sarà veramente perfezionada.

Beatrice. Eh, io non sono poetessa; non ho da mettermi in confronto delle virtuose.

Eleonora. (Oh21 maledetta invidia). (da sè)

Tonino. La poesia no xe necessaria per far el merito de una persona.

Eleonora. Signora Beatrice, io sono qui venuta per un’ambasciata del signor Ottavio.

Beatrice. Sì, sì, fra voi altri poeti e poetesse ve l’intendete bene.

Eleonora. Con vostro marito io non ho che fare. Quando avessi a scherzare poeticamente, lo vorrei fare con qualche cosa di meglio.

Beatrice. Sì, sì, fatelo col signor Tonino.

Eleonora. Egli è in casa vostra, tocca a voi.

Tonino. (Oh care, co22 le godo). (da sè)

Beatrice. Io non sono poetessa.

Eleonora. La poesia non è necessaria per fare il merito d’una persona.

Beatrice. Questa proposizione è verissima.

Eleonora. Io non la contradico.

Beatrice. Che ne dite, signor Tonino?

Eleonora. Non l’accordate anche voi?

Tonino. Tutto quel che le comanda elle, patrone.

SCENA XIII.

Ottavio, Rosaura, Florindo e detti.

Ottavio. Evviva gli sposi. Adriatico Pantalonico, Cintia Sirena, ecco uniti, stretti e coniugati nell’amoroso laccio matrimoniale [p. 613 modifica] Fidalma Ombrosia e Breviario Bilio. Destate le vostre Muse dal neghittoso silenzio, e cantate epitalamici versi alle glorie d’un così degno connubio.

Eleonora. Mi rallegro infinitamente con voi, o felicissimi sposi. Venere sparga il vostro letto di rose, e Amore sia sempre indiviso dei vostri cuori.

Ottavio. Oh bellissima prosa, sullo stile del Sannazzaro.

Florindo. Vi ringrazio di vero cuore.

Rosaura. Io pure mi protesto tenuta...

Ottavio. (Ringraziatela in versi. Ditele quei due versi sì fatti). (piano a Rosaura)

Rosaura. Quel nume, che d’amor fa ch’i’ m’accenda,

     A voi, Cintia, per me le grazie renda.

Ottavio. Ah, che ne dite, eh? Avete sentito mia figlia? Si può far di più? Compone anco all’improvviso.

SCENA XIV.

Corallina e detti.

Ottavio. Signora Corallina, avete saputo il maritaggio di mia figliuola?

Corallina. Coppia gentil, che il faretrato Amore

     Unì soavemente in dolce nodo,
     Della pace, che prova il vostro cuore,
     Veracemente mi consolo e godo.
     Il cielo vi difenda da ogni affanno,
     E vi doni un bambino in capo all’anno.

Ottavio. Bravissima.

Rosaura. Vi sono molto tenuta.

Ottavio. (Rispondetele in versi). (a Rosaura, piano)

Rosaura. (All’improvviso non so comporre).

Ottavio. (Diavolo! Non vorrei che rimaneste in vergogna). (a Rosaura, piano)

Rosaura. Sì, cara signora Corallina, vi sono tenuta... [p. 614 modifica]

Ottavio. Il matrimonio ha fatto fuggire dalla fantasia di mia figlia le Muse, che sono vergini e vergognose. Risponderò io, per lei. Ore, odo, anno.

Magronia, voi ci fate troppo onore,

Voi eccedete in troppo alto modo,
Poichè Imeneo col marital calore
La mia figlia... toccò... siccome il sodo
Della prole risponde al primo anno,
Donna fia sempre donna, e non è danno.

Corallina. Bravo, bravo. Me ne rallegro.

Ottavio. Compatirete.

SCENA XV.

Lelio e detti.

Lelio. Signor Ottavio, è qui l’amico.

Ottavio. Per il certame?

Lelio. Per l’appunto.

Ottavio. Bravissimo. Signor Tonino, sapete voi cosa siano i certami?

Tonino. Certame voi dir combattimento.

Ottavio. Siete sfidato a singolar certame.

Tonino. Da chi?

Ottavio. Da un estemporaneo vate.

Tonino. Venga chi vuol venir meco a cimento;

     Non temo no, se fossero anche cento.

Ottavio. Fatelo entrare. (Lelio fa cenno che passi) Sediamo. (tutti siedono)

SCENA XVI.

Messer Menico col chitarrino, e detti.

Menico. A sti signori fazzo reverenza,

     E li prego volerme perdonar,
     Se alla prima con tanta impertinenza
     Co sto mio chitarrin vegno a cantar.
     Protesto esser vegnù per obbedienza,
     Per perder certo, e no per vadagnar.

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     Tutta la gloria e la vittoria cedo

     Al poeta mazor, che in fazza vedo.
Tonino. Compare mio, per quel che sento e vedo,
     Vu sè, come son mi, bon Venezian.
     Onde de provocarme ve concedo.
     Cantemo, se volè, sin a doman.
     Che voggiè rebaltarme mi no credo,
     Perchè saressi un tristo paesan;
     Ma mi ve renderò pan per fugazza,
     Se vederò che siè de trista razza.
Menico. Mi poeta no son de quella razza,
     Ch’altro gusto no gh’ha che criticar.
     Lasso che tutti diga e tutti fazza,
     E procuro dai altri d’imparar.
     Vorria saver da vu, come che fazza
     Una donna più cuori a innamorar.
     E bramaria che me disessi ancora,
     Se la donna anca ela s’innamora.
Tonino. La donna qualche volta s’innamora,
     Perchè fatta la xe de carne ed osso;
     Ma quando con più d’un la se tra fora,
     Crederghe certamente più no posso.
     Parerà che la pianza e che la mora,
     Ma mi sta malignazza la cognosso;
     So che quando la finze un doppio affetto,
     No la gh’ha per nissun amor in petto.
Menico. Pol darse che le gh’abbia amor in petto
     Per uno, e che le finza con quell’altro.
     Pol esser che le ama un solo oggetto,
     E le finza con do coll’occhio scaltro.
     Ma stabilir no voggio per precetto,
     Che la donna tradissa e l’uno e l’altro.
     Le donne, che in speranza molti tien,
     Le porta sempre el più diletto in sen.

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Tonino. La donna, che fedel gh’ha el cuor in sen,

     No se butta con questo e po con quello,
     Perchè la sa che farlo no convien,
     E al so moroso no la dà martello.
     Ma quella che a nissun za no vol ben;
     No se schiva con tutti a far zimbello.
     Onde chi fa l’amor con più de un,
     Compare mio, non amerà nissun.
Menico. Compare, disè ben, no gh’è nissun
     Che possa contradir quel che disè.
     De provocarve esser vorria a dezun,
     Perchè vu più de mi ghe ne savè.
     Pur in sta radunanza gh’è qualcun,
     Che creder fa che un impostor vu siè.
     Ma mi, che son poeta e Venezian,
     Digo che chi lo dise, xe un baban23.

Lelio. Chi lo dice son io, e sostengo che quello è un impostore, e voi un ignorante. Non voglio più soffrire simili impertinenze. Con questa sorte di gente non mi degno di stare in società. Vada al diavolo l’accademia, straccio la patente, e non mi vedrete mai più. (parte)

Ottavio. Ah, sacrilego profanatore delle vergini Muse! Ma non importa. Vada al diavolo quel satirico pestilenziale. Faremo senza di lui.

Menico. Missier Alcanto, no ve desperè,

     Se Ovano Pazzio alfin v’ha abbandonà,
     Che dei Ovani ghe ne troverà,
     E dei pazzi poeti in quantità.
     Esser poeta bona cossa xe,
     Che onor, decoro alle persone dà.
     Ma in chi la sol usar senza misura,
     La poesia deventa cargadura.

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Tonino. E più sorte ghe xe de cargadura

     Rispetto al gusto della poesia.
     Gh’è quelli che ogni piccola freddura
     I corre a recitarla in compagnia.
     Gh’è chi crede coi versi far fegura,
     E se mette per questo in albasia.
     E gh’è de quei, che invece de panetti,
     I se la passa via con dei sonetti.

Ottavio. Bravo, evviva.

Florindo. Bravo, evviva. Ma io non voglio essere certamente nel numero dei fanatici. Signor suocero caro, con vostra buona grazia, conduco a casa mia moglie. Ella qualche volta comporrà per piacere, ma, per l’accademia, di noi non fate più capitale.

Ottavio. Come! Siete voi diventato pazzo?

Florindo. Pazzo sarei, se per cagion dei versi e delle rime abbandonar volessi gl’interessi della mia famiglia.

Ottavio. Bene, abbadateci voi, e non impedite che mia figlia faccia onore a sè, alla mia casa, alla città tutta.

Florindo. Rosaura è cosa mia; voglio che alla casa mia faccia onore; e questo succederà, se ella apprenderà le regole d’una buona economia. Signor suocero, vi riverisco. Eccovi le vostre patenti.

Ottavio. Ah traditore! E voi, Rosaura, avete cuore d’abbandonarmi?

Rosaura. Verrò a vedervi.

Ottavio. Comporrete voi?

Rosaura. Per l’accademia mai più.

Ottavio. M’avete detto sempre, sempre.

Rosaura. Ed or vi dico, mai più.

Florindo. Signor suocero....

Ottavio. Andate via.

Rosaura. Signor padre....

Ottavio. Ingratissima figlia!

Florindo. Venite nella vostra camera, che vi aspetto. (a Rosaura)

     Più della poesia sia dolce cosa

     L’ore liete passar fra sposo e sposa. (parte)

Ottavio. Che tu sia maledetto. [p. 618 modifica]

Rosaura. Del mai, del sempre il senso questo fu,

     D’amarlo sempre, e non compor mai più. (parte)

Ottavio. Oh cara! Oh che versi! E dovrò perderla? E non la sentirò più comporre? Moglie mia, voi resterete vedova.

Beatrice. Il cielo lo faccia presto.

Menico. In fatti no ghe xe piacer al mondo

     Mazor de quel d’un matrimonio in pase.
     L’omo colla muggier vive giocondo,
     Quando la cara compagnia ghe piase.
     Ma po el deventa tristo e furibondo,
     Se el trova una de quelle che no tase.
     Ghe ne xe tante, che gh’ha un vizio brutto,
     Che le vol contradir e saver tutto.
Tonino. Anca mi lodo certo sora tutto,
     El benedetto e caro matrimonio,
     Ma presto ogni contento vien destrutto,
     Quando de gelosia gh’intra el demonio.
     O che bisogna che il mario sia mutto,
     O che el ghe trova più d’un testimonio;
     E quando che cussì nol pol placarla,
     Bisogna che el se sforza a bastonarla.

Ottavio. Cari amici o compastori, voi mi consolate della perdita dolorosa che ho fatto. Staremo qui fra di noi. Cintia Sirena non ci abbandonerà.

Eleonora. Perdonatemi. Fino che vi era fra gli accademici vostra figlia, io pure poteva starci. Ora una donna sola non istà bene; onde me ne vado ancor io, e non mi vedrete mai più; prendete la vostra patente.

Ottavio. Vi è mia moglie.

Beatrice. Io non sono poetessa.

Eleonora. Sentite? Ella non è poetessa, ma il signor Tonino la farà diventare.

Presto si riempirà d’un nuovo estro,

Sotto l’abilità d’un tal maestro. (parte)

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Menico. No ve stupì se la xe andada via,

     Che questa delle donne xe l’usanza,
     Muar24 sistema nella fantasia,
     E poderse vantar dell’incostanza.
     Diseghe, se la va, bondì sioria,
     Che delle donne ghe ne xe abbondanza.
     No ghe ne manca no de ste mattone,
     Ma pochettine ghe ne xe de bone.
Tonino. Saveu perchè ghe n’è poche de bone?
     Perchè i omeni i xe pezzo de elle.
     L’omo ghe dona el titol de parone,
     E superbe el le fa col dirghe belle.
     Elle, che no le xe gnente minchione,
     Le ne vorave scortegar la pelle;
     Tutte le ne maltratta a più no posso,
     E i pi cazzar nu se lassemo addosso.

SCENA ULTIMA.

Arlecchino e detti.

Arlecchino. Patroni cari, con sopportazion,

     Reverisso el mio caro sior cugnà.
     Un caro portalettere minchion
     De carta certa lettera el m’ha dà.
     Mi che omo fedel e presto son
     L'ho tolta, ve la porto, eccola qua;
     Ve la dago, averzila, e po lezela,
     E per far fazzoletti adoperela. (dà una lettera a Tonino)
Menico. Me consolo con vu, compare caro,
     Che savè poetar all’improvviso. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Ogni mattina a poetar imparo,
     E se volè, ve poeterò sul viso.

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Menico. Prego el ciel che ve soffega el catarro,

     Avanti che me dè sto bell’avviso.
Arlecchino. Caro poeta mio, scusa domando,
     E ve mando ben ben, e ve stramando. (parte)

Tonino. Muggier carissima, sta lettera ne porta un motivo de dolor e un altro de allegrezza. Xe morto el mio povero pare, e la natura no pol de manco de no resentirse; ma me consola che anderemo a Venezia, e saremo patroni de tutta l’eredità, e vu, poverazza, averè fenio de penar.

Ottavio. Come! Anche voi mi piantate? Anche voi ve ne andate?

Tonino. Andemo al nostro paese, ringraziando el nostro carissimo sior Ottavio de averne benignamente accolti, soccorsi e compatii.

Ottavio. Povero me! Povera la mia accademia! Eccola in un giorno fatta e disfatta. Ecco dove vanno a finire tutte le attenzioni, e le diligenze di chi procura instituire simili radunanze. Finiscono in disunioni, dispiaceri, e per lo più in derisioni.

Beatrice. Questo succede quando il capo non ha cervello, e lo fa senza regola e senza fondamento. Abbandonate una volta questo pazzo spirito di poesia. (parte)

Ottavio. Andate al diavolo quanti siete.

     Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Gente cui si fa notte innanzi sera. (parte)
Menico. Gente cui si fa notte innanzi sera,
     Segondo lu, vuol dir gente ignorante.
     Perchè la so accademia è andada in tera,
     El deventa furente, e delirante.
     El dirà i so sonetti alla massera25,
     Per sfogar el so estro stravagante.
     Ma anca mi chiappo suso e vago via,
     E no vôi seguitar la poesia. (parte)
Tonino. Xe impussibil che el lassa la poesia,
     Impussibile xe che el cambia usanza.

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     Quando un omo gh’ha impressa una pazzia,

     Che el varissa ghe xe poca speranza.
     Signori, la commedia xe fenia:
     Domando ai nostri errori perdonanza.
     Se la ve piase, e la volè doman,
     Disene bravi, e po sbattè le man.

Fine della Commedia.



Note

  1. Bett. aggiunge: Stanotte non ho mai dormito dalla passion, dalla rabbia, dalla desperazion.
  2. Precede nell’ed. Bettin.: «Beatr. Zitto, di’ piano».
  3. Segue nell’ed. Bett.: «Beatr. Sta zitto, ti dico, non far rumore. Brigh. Cossa vol dir? Ch’è qualche ammalado? Beatr. Non sai che in quella camera vi è il signor Tonino che dorme? Lascialo dormire, poverino, e non lo turbare. Brigh. Sarà mezza mattina, no credo che el dormirà più. Beatr. Va bel bello alla porta e senti se è svegliato, e se fosse alzato, portagli subito la cioccolata ecc.».
  4. Bett.: Jeri la lo.
  5. Bett.: e oggi.
  6. Bett. aggiunge: Va a vedere se il signor Tonino dorme.
  7. Continua questa scena nell’ed. Bett.: «Beatr. Queste scioccherie non le posso soffrire. Brigh. Mo no ela amante anca ella della poesia? Beatr. Mi piacciono i versi del signor Tonino. Br. La diga, la perdona se m’avanzo troppo, ghe piase la poesia, o ghe piase el poeta? Beatr. Animo, sbrigati, e va a vedere se e levato. Br. La servo subito! (So che ora che l’è), va nella camera; poi torna. Beatr. (Povero giovine! Bisogna trattarlo bene, acciò faccia delle belle composizioni). Br. L’ho sentido a parlar; l’ha averto le finestre, el sarà leva. Beatr. Presto, Va a prendere la cioccolata. Br. Vado subito. La senta un’altra ottavetta. Beatr. Non voglio sentir altro. Br. Ghe lo domando per carità. Beatr. Oh che noia! E tutti i poeti sono così. Br. In un castello fatto di ricotta - Con la salciccia si legò una matta. - E dieci grilli navigando in frotta - Nel giocare alla mora han fatto patta. - Una donna gentil di carne cotta - Ha infilzata in un spiedo la pignatta. - Un cospetton inghiotte una saracco, - E la signora Checca fa la cacca, parte».
  8. È unita alla scena preced. nell’ed. Bett.
  9. Sc. III in Bett.
  10. Bett.: Ehi, è levato il signor Tonino?
  11. Bett.: Credo di sì, ma ancora non ha aperta la stanza.
  12. Bett.: stato.
  13. Bett.: Questa maledetta.
  14. Zatta, con punteggiatura diversa: «del termine certame».
  15. Bett. aggiunge: Oh quanti fanno così!
  16. Segue nell’ed. Bettin.: «Lel. Voi, se voleste, potreste dare il buon giorno anche a me. Cor. Io credo che, in vece del buon giorno, prendereste volentieri la buona notte. Lel. Perchè no? Sareste voi in caso di darmela la buona notte? Cor. Non vorrei dare a voi, quello che da voi ricevere non potrei. Lel. Bravissima. Voi avete uno spirito molto pronto. Cor. Io gioco che, più della prontezza di spirito, a voi piacerebbe la prontezza di corpo. Lel. Può essere che questa volta l’indovinate. Cor. Dunque sarà meglio ch’io me ne vada. Lel. Trattenetevi ancora un poco, ecc.».
  17. Bett. aggiunge: povera lei e povero me.
  18. Bett.: quel maledetto.
  19. Bett.: mai più, mai più.
  20. Questo era il ritratto di quella che faceva la parte di Eleonora: la signora Vittoria Falchi. [nota originale]
  21. Bett.: Gran.
  22. Come, quanto.
  23. Baban, babbeo, sciocco, uomo rozzo: v. Boerio.
  24. Mutare.
  25. Serva.