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Il vitellino tossiva: Io sentirono tutti gli assalariati dal letto; mentre si faceva giorno e si destavano. Picciolo si disperava, e Lorenzo gli domandò, arrabbiato, se s’era fatto la croce per le sue costole.

Dovevano chiamare il veterinario? Eppure la bestiola era meno abbattuta del giorno avanti, e dimenava la coda; benché non riescisse a tirarsela su per la groppa come pareva che volesse fare.

Berto lo disse a Remigio; quasi rimproverandolo, perchè da sé non se n’accorgeva. Allora, andò giù nella stalla; per sentire come tossiva. Picciolo gli disse:

— Scommetto che non è niente: gli dev’essere restato un pezzetto di foglia attraverso la gola.

Il vitellino aveva mangiato poco del granturchetto tagliato da Dinda: l’aveva sbavato e basta. Eppure aveva fame, perchè leccava anche la fune!

Disse Lorenzo: [p. 179 modifica]— Proviamo a dargli soltanto la semola!

Remigio non se n’intendeva e non sapeva che dire; e ascoltava tutti, approvando sempre l’ultima cosa udita. Berto dette una spallucciata a Tordo, accennandoglielo; per deriderlo. Poi, escì dicendo:

— Oggi, voglio ridere!

A momenti, il vitello doventava allegro; e i suoi occhi turchinicci parevano scucirsi di tra il filo bianco delle sopracciglia lunghe.

Gli avevano fatto un giaciglio di paglia pulita, molto alto, perchè potesse arrivare con il muso alla mangiatoia, ma, il più delle volte, si buttava steso; e, per farlo rialzare, Picciòlo lo doveva tirare su pigliandolo tra le braccia.

Quando Remigio escì dalla stalla, trovò Berto che gli fece cenno di volergli parlare di nascosto. Gli disse, dietro il muro della parata:

— Sono più di cento lire buttate via! L’ha voluto comprare lui, e non ci capisce niente! L’ha fatto per superbia, perchè poteva farsi consigliare da me. Perchè, ieri mattina, non m’ha detto che andassi con lui alla fiera? Ma, se fossi il padrone io, farei in un altro modo!

— Credi che quel vitello non possa campare?

— Questo non lo so: non pretendo mica d’essere indovino o sant’Antonio! Ma, certo, [p. 180 modifica]non ci troverà quel guadagno che ci sarebbe dovuto essere!

Remigio, convinto da Berto, tornò nella stalla, e disse a Picciòlo:

— Un’altra volta, alla fiera tu solo non ci andrai.

— E perchè mi dice così, padrone?

— Non vedi quel che hai comprato?

— Lei mi aveva detto di spendere poco. E io ho creduto di fare il mio dovere. Ma io voglio restare responsabile di quel che ho fatto. E se la bestia non figurerà come m’aspetto, lei non mi pagherà il salario. È contento? Ma non mi deve umiliare con codeste parole.

— Non posso dirti quel che penso?

— Lei è venuto nella stalla come se mi si volesse avventare addosso!

— Non è vero!

— Un altro, voglio dire Berto, avrebbe preso la forca; e, scusi la mia verità, avrebbe fatto qualche brutto sproposito; piuttosto che farsi dire quel che mi ha detto lei. È vergogna, e non me lo merito; perchè un altro che le voglia bene come me non lo trova.

Remigio, incapace di dire altro, balbettò:

— Ma tu vuoi proibirmi di comandare.

Picciòlo si strinse la testa fra le mani, come il latte accagliato per fare il cacio; e disse:

[p. 181 modifica]— È meglio che io non le risponda. Dica quel che vuole.

Prese la sua zappa e andò nell’orto; dove c’era da fare le fossette alle piante dei fagioli incannucciati; perchè, ora che li annaffiavano, bisognava che l’acqua andasse a tutte le barbe. Ci trovò Berto, che gli disse:

— Ho sentito come vi ha trattato.

Picciòlo non voleva rispondergli, sospettando che l’avesse messo su lui. Ma, alla fine, rispose:

— Mi sta bene, perchè faccio più di quello che dovrei.

Berto, non riescendo a tirarlo dalla sua, lo minacciò:

— Coteste parole mi garbano poco. Volete alludere a me?

Ma Picciòlo fu prudente:

— Io non alludo a nessuno.

— Voi credete di essere un santo. E noi non lavoriamo quanto voi?

Picciòlo, sempre più controvoglia, rispose:

— Lasciatemi in pace, Berto!

I due assalariati benchè fossero vicini non si vedevano; perchè i fagioli erano alti e folti. Finite le fossette, Picciòlo prese il cesto di latta verniciata e cominciò ad annaffiare l’orto. I fontini si votavano; e, dentro la mota e le alghe, restavano le rane che invece di saltare via ci si ficcavano. Moscino [p. 182 modifica]le chiappava; per mangiarle. Si stendeva in terra, all’orlo dei fontini; e, affondando le braccia fino al gomito, non ce ne lasciava nè meno una. A casa, tagliava loro la testa; e Dinda le spellava.

Quella sera, Picciòlo era di malumore: per solito, allora, si lamentava che gli dolevano i fianchi; e non voleva mangiare. Lorenzo gli chiese:

— Vi hanno fatto qualche cosa? Perchè voi non dite mai niente a quelli della vostra famiglia?

Picciòlo sarebbe stato zitto perchè il figliolo aveva ragione; ma rispose:

— Niente! Niente!

— A me non la date a bere. Fatevelo dire voi, mamma, quel che ha.

Dinda lo sapeva e ci aveva pianto, andando a sfogarsi con Luigia, che le aveva promesso di riprendere Remigio; ma non voleva che Lorenzo leticasse. E Lorenzo, comprendendo il suo animo, si lasciò pigliare dall'ira:

— Allora, se vi hanno magari legnato, hanno fatto bene!

— Si dice così al babbo?

Picciòlo si rincantucciava, e il suo viso si faceva anche più desolato. Andò a letto subito, come se si sentisse male.

Luigia disse a Remigio:

— Perchè hai trattato male Picciòlo?

[p. 183 modifica]— Perchè se lo meritava.

— Bisogna che tu sia giusto con tutti. E bada di non farti mettere su da nessuno.

— Berto, ed ha fatto bene, mi ha detto che quel vitello è mezzo malazzato.

— Non gli devi dare retta.

— E da me non lo vedo?

— A me pare un vitello discreto, e vedrai che ci guadagneremo.

— Lei fa per proteggere Picciòlo; perchè, quando ha preso una simpatia, è sempre disposta a dare ragione.

— Io faccio per la verità.

— Ma sarebbe meglio che anche lei guardasse ai nostri interessi.

— Ci guardo più che tu non creda. Io, il vitello sono andata a vederlo quando tu eri nel campo; dopo che t’ho sentito bisticciare con Picciòlo.

Remigio, però, ora, come gli avveniva tutte le volte che s’era arrabbiato con qualcuno, aveva voglia di scherzare; e sorrise a Ilda; che, quando Luigia brontolava, faceva sempre la sorniona. E siccome aveva una grossa treccia di capelli biondi, che le arrivava ai fianchi, untandole il grembiule su le spalle, gliela tirò forte.

Ma Luigia non stette zitta, come le altre volte: dette un ceffone a Ilda, che doventò di bragia; e disse a Remigio:

— Non la devi avvezzare male questa [p. 184 modifica]bambina! E io non voglio che tu rida di me! Ho tutt’altro nel cuore.

Egli, però, continuò a ridere; e cercò di far ridere anche Ilda. Allora, la matrigna gli disse:

— Senti: tu hai capito come sono fatta io! Sono più buona del pane; e da me ci puoi ricavare quel che vuoi; ma rispetto lo voglio. E da te più che da tutti gli altri! Abbastanza, io sono stata sempre sacrificata! Quanto avrei fatto meglio a starmene a casa mia! Avrei guadagnato facendo la sarta, e non mi sarei trovata mai male!

— Mi sembra, però, che di me non possa dire niente!

— Si starà a vedere! Non dipende dalla tua volontà: dipende da come andranno le cose. E tu non puoi essere capace a mandare avanti la Casuccia, come faceva tuo padre.

— Mi dice sempre lo stesso!

— Se non vuoi sentire, bisogna che prima mi mutino.

— Dipende da me? Io faccio quel che posso.

Berto, scalzo, scendeva nell’aia e si metteva ad ascoltare, sotto la finestra; fingendo di prendere il fresco. Così, tutto quel che si dicevano Luigia e Remigio, i contadini lo risapevano subito; e capivano meglio di loro che il podere andava a rotoli.

[p. 185 modifica]Tordo non si licenziava perchè non avrebbe potuto trovare dove lavorare poco a quel modo; Picciòlo e Dinda avevano deliberato di rimanere fino a quando sarebbe stato possibile; e Berto voleva attendere un altro anno: lì, ormai, quasi tutti i lavori più faticosi erano finiti e per l’invernata aveva messo in serbo molte legna da bruciare. Dunque, non gli conveniva fretta.

Remigio sentiva la sfiducia; ma non sapeva bene di che si trattava. Gli dicevano:

— Per il podere, bisognerebbe spendere di più!

E avevano l’aria di dirgli anche: «Lo sappiamo che i denari non ci sono!»

Dopo questi discorsi, egli ricordava certe giornate; quando, guardando il turchino, gli era parso di vedervi l’immutabilità della sua tristezza. Ma, mentre d’allora gli restava come un compenso dentro la coscienza, ormai trovavasi di fronte alle cose, come a una inimicizia. Anche il suo podere era un nemico; e sentiva che perfino le viti e il grano si farebbero amare soltanto se egli impedisse a qualunque altro di doventarne il proprietario. La casa stessa gli era ostile: bastava guardare gli spigoli delle cantonate. Se non aveva l’animo di distruggerla e di ricostruirla, anche la casa non ce lo voleva. Da tutto, la dolcezza era sparita.

L’avvocato gli aveva detto che era riescito [p. 186 modifica]a rimandare di due mesi la causa; e Remigio sperava che finisse senza che Giulia vincesse. Ma, intanto, s’aggiungeva anche la querela di Chiocciolino; e capiva che quattro assalariati, con un ragazzo, non potevano fare in tempo tutte le faccende. C’erano restate le viti da sarchiare: una vergogna grossa; e le viti pativano, piene di succhioni più lunghi dei tralci, con i filari empiti di erbacce. Tutti le vedevano, e pareva che non avessero padrone! La terra, restata soda, vi nascevano le canapicchie e gli stoppioni.

Lorenzo l’aveva arata soltanto dov’era meno faticosa, perchè le vacche sarebbero crepate dalla fatica; anche se non avessero avuto poche settimane alla figliatura. Ci sarebbe voluto un paio di bovi, di quelli grossi! Giacomo li comprava sempre, tutte le primavere; quando non mancava da governarli a piacere con l’erbaio; senza manomettere il fieno, e li rivendeva quando l’erba nei campi cominciava a finire. Allora, le vacche potevano riposarsi; e figliavano bene! Tutti gli anni due vitelli! Le mandava al pascolo, giù tra i pioppi, dove l’umidità della Tressa faceva crescere l’erba più alta; e mangiavano quanto volevano. Tornavano su gonfie! Quest’anno, invece, erano magre e sciupate. Stronfiavano anche a tirare il carro; e Lorenzo aveva avuto paura che [p. 187 modifica]abortissero. Giacomo teneva almeno anche quattro maiali, per ingrassarli; e, nell’inverno, tre li vendeva e uno lo faceva scannare per casa. Il podere era arato, e la terra pulita; ora, invece, cominciavano da per tutto le gramigne; e mancava il tempo di potare l’uliveta.

Anche i solchi acquaioli, che tutti gli anni bisogna ripulire, restavano interrati; e non servivano più a niente. Così, quando pioveva, l’acqua andava già a scatafascio; guastando le semine. Poi, bisognava fare altri lavori, per la casa: il pozzo non reggeva più l’acqua; due travi della stalla dovevano essere rinforzate; e, prima che venisse l’inverno, era necessario trovare da dove la pioggia passava in cantina; perchè tra le botti, l’acqua ci faceva la melma e ci nasceva l’erba; lunga lunga e gialla. Anche le finestre avevano bisogno d’essere riverniciate; e il muro dell’aia era stato spaccato spingendoci il carro carico, senza sapere da chi.