Il martirio dei monumenti/Il martirio dei monumenti

Il martirio dei monumenti

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Incisioni

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Questo discorso è stato tenuto, per invito del
Sindaco di Firenze, nella Sala dei Cinquecento
in Palazzo Vecchio, il 1.° luglio 1917.




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Il martire quando patisce non a sè
solo ma ai suoi cittadini patisce: a
sè in premio, ai cittadini in esempio.



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IL MARTIRIO DEI MONUMENTI


Trattare d’arte e di monumenti, trasferirsi per loro nei ricordi del più lontano passato, passeggiare sia pure con disperata tristezza nei chiusi e pettinati giardini della storia, piangere sulle pietre ferite quando le carni di centinaja di migliaja d’uomini fratelli nostri sanguinano e spasimano, sembra, cittadini, uno svago da oziosi e un diletto da eruditi i quali si vogliano difendere contro il fragore e il terror della guerra dietro le trincee dei loro libri compatti. Altro s’ha oggi da fare: combattere, resistere, vincere. Per [p. 2 modifica]le lacrime, le proteste, i rimbrotti, le accuse, avremo, si dice, tempo dopo.

È un errore. Esso deriva, prima di tutto, dall’avere per troppi anni separato l’arte della vita, e considerato l’arte non più un bene e un bisogno di tutti, una continua e viva funzione sociale, un’espressione sincera del nostro carattere nazionale, un documento solenne e inconfutabile della nostra storia. Ce le avevano seppellite sotto l’erudizione le nostre statue, le nostre pitture, i nostri monumenti, prima di demolirceli a cannonate, questi nostri nemici occhialuti e maligni. Le saccate dietro le quali avete difese persino le porte del vostro Battistero e le statue del vostro Orsanmichele che, state tranquilli, nessuna ira nemica riuscirà mai a colpire, non sono tanto spesse ed ermetiche quanto quelle trincee e quelli [p. 3 modifica]sbarramenti di carte erudite con le quali esse erano ormai state escluse dal nostro godimento quotidiano, dalla nostra semplice ammirazione, dal nostro lieto orgoglio di italiani legati quasi da un’intimità familiare a quelle serene bellezze, sangue del nostro sangue, pietre dei nostri monti, volti della nostra razza, sorrisi della nostra fede.

Gran tesoro, certo, la dottrina, tutta la dottrina, anche quella minuta, microscopica e quasi stizzosa che s’esercitava sui cartellini inchiodati ai piedi dei dipinti o, chiusa negli archivii, quasi dimenticava d’andar a guardare i dipinti stessi e, se li guardava, più non li vedeva. Essa ci ha dato una storia abbastanza solida dell’arte nostra, o meglio elenchi, dizionarii, notiziarii, repertorii utili e precisi che [p. 4 modifica]usurpavano il nome, di storie, perchè la storia vera e piena è fatta di dottrina e d’arte e deve rappresentarci con passione, accanto al fatto politico, militare, economico, artistico, anche la vita e l’anima del genio o dell’eroe, del popolo o della classe che hanno in quel tempo potuto, dovuto, voluto, saputo creare quel fatto. Ma, ripeto, la presunzione, il sussiego, la boria professorale, l’arcano linguaggio dei dotti della «specialità» quasi tutti tronfiamente tedeschi o tedescamente tronfii, s’imponevano ormai con tanto fastidio che il pubblico anzi il popolo per cui l’arte era fatta, e che l’arte doveva innalzare, consolare, esortare, glorificare, se n’era distaccato e straniato, specie in Italia, con un addio tanto rassegnato che tutti ormai potevano veder i danni di questo distacco: due [p. 5 modifica]principalissimi, e cioè la fine del gusto che dev’essere appunto il legame fra l’artista che crea e lo spettatore che ammira; la fine d’un’arte italiana e d’uno stile singolarmente italiano, perchè lo stile è un fatto non di volontà ma d’istinto, non d’uno solo ma di tutti, non di pura fantasia ma di accettata continuità e universalità, fatale e corrente e visibile dovunque, nella moneta come nel palazzo, nella chiesa di Dio come nel boccale del bevitore, nel monumento per l’eroe come nell’anello per la sposa. Ricordate invece le aberrazioni e i balordi svaghi delle esposizioni e dei concorsi nel nostro tempo d’archeologia e di pace? Gli artisti divisi in scuole non più secondo l’anima o la razza loro, ma secondo la loro tecnica; o la loro teoria anzi la loro calligrafia, impressionisti, divisionisti, sintetisti, cubisti; [p. 6 modifica]gli architetti perduti nel caos dell’antico e dell’esotico, le stazioni in stile gotico, i palazzi delle Borse in stile Impero, i cimiteri in stile faraonico, i villini in stile svizzero, cinese, annamita. Persino i colori da dipingere ci avevano falsificati questi industriali del buon mercato e del sottoprezzo, così che i quadri dipinti jeri con colori tedeschi sono oggi sporchi lividi e stonati: una truffa tedesca di più.

E intanto dalle chiese e dalle case di città e di campagna, via i quadri, le statue, gl’intagli, gl’intarsii, le vetriate, i bronzi che consolavano il viandante, che ricordavano alla nostra ignavia e alla nostra miseria presente i tempi gloriosi quando gl’italiani erano tutti italiani anche se nei discorsi dei ministri e dei depurati lo gridavano meno; quando in cima a ogni [p. 7 modifica]monte, in fondo a ogni valle la chiesuccia più umile recava un’immagine di Dio il quale riceveva da mano italiana volto italiano. Via quadri, statue, bronzi, ceramiche, via nei musei, tutt’in fila col passo di parata, col «passo dell’oca», nella stessa luce, sotto un numero progressivo da ergastolani, perchè il Signor Professore tedesco, solo capace di scrivere la storia dei nostri liberi comuni, delle nostre superbe città, delle nostre arti popolane e sincere, se li potesse studiare seduto, elargendoci consigli autorevoli, quando i suoi emissarii non erano riusciti a rapirci pei suoi musei nebbiosi e lontani, contro la legge e contro il decoro, le effigie dei nostri Santi e delle nostre Madonne che erano i ritratti dei nostri uomini e delle nostre donne. E noi zitti, rassegnati ormai a non [p. 8 modifica]ammirare più un quadro se non sapevamo con precisione il nome, il cognome, il soprannome, l’età, i maestri e gli scolari del pittore che l’aveva dipinto, e se non avevamo letto tutto quello che almeno i tedeschi vi avevano scritto sopra. Zitti e rassegnati a misurare la bellezza delle nostre opere d’arte dai due o dai tre asterischi dell’ottimo signor Baedeker di Lipsia.


Ed è scoppiata la guerra. Freddamente, al momento che essi hanno creduto più utile ai loro fini di briganti invasati da un orgoglio quasi messianico, i tedeschi di Germania e d’Austria, gl’imperiali di Germania e d’Austria hanno cominciato la guerra contro questi popoli liberi minorenni disordinati e feminei che essi credevano definitivamente domati dai loro [p. 9 modifica]professori e dalle loro spie, dalla maraviglia o dallo spavento della loro onnipotenza e onnipresenza. Eccoli in Belgio, eccoli in Francia. Il 19 agosto 1914 essi entrano in Lovanio che è l’Atene del Belgio, la sede dell’Università di Erasmo, dell’Università i cui maestri schierandosi implacabili a difesa del nostro Rinascimento contro la Riforma tedesca salvarono la tradizione latina del Belgio. Nella notte fra il 25 e il 26 agosto la biblioteca dell’Università, la chiesa collegiale di San Pietro, le Halles quattrocentesche di Lovanio sono incendiate scientificamente, in poche ore, tanto che la sera un terzo della città è distrutto.1 [p. 10 modifica]

Il 4 settembre i tedeschi entrano in Reims e ne devono fuggire, sconfitti sulla Marna, otto giorni dopo. L’anima di Reims è tutta, lo sapete, nella sua cattedrale, che è il sacello della storia di Francia perchè là Giovanna d’Arco s’è inginocchiata, perchè là da Luigi ottavo in poi sono stati incoronati tutti i re della Francia, perchè l’arte francese, architettura, scultura, vetriate dipinte, ha lì il suo modello singolare perfetto e venerato. Il 18 settembre comincia il bombardamento della cattedrale. Gli edifici in un raggio di cinquecento metri intorno alla chiesa sono schiantati abbattuti frantumati. La cattedrale tutta pietra, solenne, immane, potente, resiste. Non ha più vetri, non ha più statue, ma agli occhi del nemico che spia dalle colline di Berru e di Brimont la mole di [p. 11 modifica]quello scheletro ha ancóra il profilo superbo della cattedrale com’era prima, intatta e miracolosa. E l’ira, per due e tre anni, si muta in rabbia davanti a quel miraggio.

Lovanio era poco nota fuori del Belgio. Ne leggemmo la storia nei giornali, allora, in quei primi giorni in cui nel mondo appena scosso dal suo sonno di pace era più stupore che orrore. Reims, no, era celebre nel mondo. Nella Francia fu un grido solo, nella Francia risorta alla speranza dopo la vittoria della Marna. Reims, Reims, il cuore della sua storia, il focolare della sua fede, il fulgore dell’arte sua. E d’un tratto, davanti a tutti i francesi, il monumento dell’arte tornò ad essere il documento, il pegno del passato all’avvenire, il segno dell’unità e della continuità d’un popolo e d’una [p. 12 modifica]nazione, la formula sacra d’un giuramento concorde, il volto dell’anima comune, la bandiera d’un esercito, il simbolo d’una religione umana prima che divina, d’una religione per cui si vive, si muore e si rivive in eterno: la patria.

L’estetica, la critica, la cronologia, le attribuzioni, le monografie, gl’influssi, le derivazioni, i confronti: carte, parole, cenere e polvere e fumo e niente. Tutta la Francia, dal contadino al poeta, dalla beghina al filosofo, urlò per quel colpo, sanguinò da quella ferita.

Erano i giorni ansiosi della nostra neutralità quando a non affrontare il nemico fuori pareva dovessimo affrontarlo in casa. Anche per quello strazio della cattedrale di Reims si videro presto gli animi degl’italiani [p. 13 modifica]divisi: taluni ammonirono sommessamente che ad accettar la guerra noi avremmo avuto su tutto il suolo della patria danni siffatti e più atroci, e che quello era un esempio; altri, alle sfacciate proteste degl’imperiali non essere irreparabile la rovina ed essere stata quella non un’offesa ma una difesa perchè i francesi avevano poste artiglierie sul sagrato della cattedrale e osservatori e mitragliatrici sui due campanili, chiesero che noi da perfetti neutrali, anzi direi da greci perfetti, sospendessimo ogni giudizio; altri infine cui ormai bastava la violazione del Belgio per giudicare in eterno che valga tra galantuomini la parola d’un tedesco, immaginarono da quel delitto l’immensità del pericolo comune per la comune civiltà e per la libertà. E ai dubbii dei filosofi equanimi e [p. 14 modifica]immobili risposero semplicemente andando a vedere le rovine e ad interrogare sul luogo i testimonii.

Andai a Reims nel marzo del 1915. Vidi la cattedrale agonizzante con quelle sue due torri levate al cielo come le due braccia d’un genuflesso che implora di là dal martirio il suo Dio, vidi sui pinnacoli, sui portali, sotto i baldacchini le cento e cento statue schiantate dalle esplosioni, decapitate dalle schegge, consunte dall’incendio, e fra tutte un’altra volta mi presero il cuore le due statue della Visitazione, la Madonna e Santa Elisabetta, classiche e nobili, quasi romane o pisane, accanto alle francesissime snelle argute figure della Vergine Annunziata e della Regina di Saba. Erano intatte quelle due statue celeberrime, e parevano fra tanta rovina affermare ancóra, sotto la [p. 15 modifica]mitraglia degl’immutabili barbari, con divina serenità la parentela di quel cuor della Francia col cuore di Roma. Mucchi di ferrame contorto e di legname annerito e di vetriate in frantumi e di pietre scheggiate, pozze di piombo colato giù dalle fenditure della vôlta e rappreso sulle pietre del suolo; e tutt’attorno alla chiesa martire e testimonio, per tre e quattrocento metri, la rovina fatta dai colpi male aggiustati sul vero bersaglio. E al limitare di quell’arena sanguinosa che dal suo podio sulle colline settentrionali l’imperatore luterano pareva fissare furente perchè le porte di Parigi gli erano state chiuse sulla faccia per sempre, nella candida stanza d’un convento dove s’era tra un colpo e l’altro riparato dopo che il suo palazzo era stato distrutto, trovai il [p. 16 modifica]cardinale Luçon vescovo di Reims. Ed egli mi ripetè quel che aveva dichiarato senza ambagi a tutti: — Mai un solo cannone è stato posto sul sagrato, mai un solo ufficiale o soldato è salito sulle torri della mia cattedrale. E tutta la popolazione di Reims può testimoniarlo insieme a me. — Aggiungeva: — Io vorrei che dopo la pace la cattedrale restasse per qualche tempo com’è oggi (e da allora per altri venticinque mesi, fino a jeri, i tedeschi l’hanno bombardata) calcinata, diruta, spoglia, e vorrei che tutti i francesi venissero a contemplarla e a genuflettersi. E, se vorranno, verranno anche i nemici.

Intanto il martirologio continuava: Ypres, Soissons, Senlis, Arras, Verdun.

Poi si entrò in guerra anche noi.

V’era chi pensava: — I tedeschi, sì, [p. 17 modifica]gli austriaci, no. Reims, Soissons, Arras, Louvain, Ypres, sì; ma Venezia, Ravenna, Verona, no. — In tanti anni di pace la civiltà e anche la «cultura» s’erano occupate con tanto petulante affetto dei monumenti d’Italia, e prima di tutto di Venezia. Tutto il mondo e primi, per la quantità, tedeschi, austriaci e magiari erano venuti ad adorare in ginocchio Venezia e la sua bellezza tra sospiri e serenate e giuramenti d’amore. Per l’Italia, giardino d’Europa, culla dell’arte, patria di Raffaello, di Michelangelo e di Leonardo e degli altri illustri che tutti sanno di nome, regno degli albergatori, méta degl’innamorati, sposa prediletta del capitale tedesco o almeno delle banche tedesche con capitale italiano, anche Attila divenuto ormai esteta, professore e banchiere, avrebbe [p. 18 modifica]fatto un’eccezione utile a ricordare, chi sa, nel giorno della pace.... Il Soprintendente ai monumenti del Veneto aveva mandato al Governo una sua proposta particolareggiata per mettere un ospedale in Palazzo Ducale. Una gran croce rossa sulla copertura di piombo del Palazzo: e tutto sarebbe stato salvo.

Noi, e s’era in pochi, ci affannavamo in quell’inutilissimo gioco che consiste a voler convincere il prossimo cogli ammaestramenti della storia. L’ira dei barbari contro i monumenti latini dura da secoli, irriducibile, fatta d’invidia e di viltà: invidia di quello che essi, i nostri nemici, non hanno, che non potranno mai avere, e che è il segno dovunque e sempre riconoscibile della nostra nobiltà, così che ferir l’Italia nei suoi monumenti e nella [p. 19 modifica]sua bellezza dà a costoro quasi l’illusione di colpirla sul volto; viltà perchè sanno che questa nostra singolare bellezza è fragile e non si può difendere, e percuoterla e ferirla le come percuotere davanti alla madre il suo bambino. Ma per trovar le prove di quell’ira non era necessario risalire ad Attila e a Genserico, sebbene dieci mesi di guerra altrui ci avessero ormai provato che, sotto il velo del progresso, le razze e le loro affinità e i loro istinti restano implacabilmente immutate.

Bastava ricordare ai troppi immemori la storia di ieri, e le guerre del nostro ultimo Risorgimento.

Il 10 giugno 1848 verso il tramonto la brigata austriaca agli ordini del generale barone Culoz conquistava il Santuario di Monte Berico sopra Vicenza assediata. La resistenza delle [p. 20 modifica]truppe del generale Durando era stata così accanita su pei Portici lungo il colle e intorno al convento che nemmeno la santità del luogo frenò la rabbia degli invasori. Il principe di Lichtenstein volle entrare nella chiesa a cavallo, e un nostro ferito, rifugiato là dentro, alzandosi sopra un gomito contro il sacrilego lo abbattè con una rivoltellata. I soldati austriaci traevano intanto fuor dagli armadii della sacrestia i paramenti sacri, se ne vestivano per ludibrio e ballavano così mascherati davanti agli altari. Nella notte saccheggiarono il convento e penetrati nel refettorio squarciarono con le baionette il gran quadro di Paolo Veronese che raffigura la Cena di San Gregorio Magno, sotto due angeli volanti che reggono un cartiglio col vano augurio «Pax Domini sit semper [p. 21 modifica]vobiscum». La mattina all’alba il padre Ferdinando Mantovani entrando lì col generale Culoz vide i croati calpestare i brandelli del dipinto. Li tolse di sotto i piedi di quei forsennati per ordine dello stesso generale: erano cinque o sei pezzi. Vi tornò nel pomeriggio per porli al sicuro: lo scempio era stato continuato, a freddo: i pezzi erano trentadue. Quando il generale Culoz lo seppe, obbligò il padre Mantovani ormai prigioniero di guerra a firmare una dichiarazione che il dipinto del Veronese era stato ridotto in quelle condizioni dai soldati italiani durante la difesa del convento.

Da Vicenza a Venezia, giusto un anno dopo. Fu il primo bombardamento di Venezia; fu, naturalmente, opera degli austriaci; e cominciato il 13 giugno 1849 durò ventiquattro giorni. [p. 22 modifica]Ventimila proiettili caddero sulla città: quasi mille al giorno. E colpirono nella chiesa di Santa Maria del Carmine il dipinto di Palma il Vecchio la Moltiplicazione dei pani; nella vicina Scuola dei Carmini l’Apparizione della Vergine sul Carmelo di Giambattista Tiepolo e un tondo del Padovanino; l’affresco del Cedini sulla vôlta di San Barnaba; il soffitto del Fiumani a San Pantaleone; tre quadri del Tintoretto — La caduta della manna, il Castigo dei serpenti, la Strage degl’innocenti — nella Scuola di San Rocco; i soffitti affrescati di San Tomà e di San Luca; la tavola di Paris Bordone a San Giobbe. Una palla ferì un arco del ponte di Rialto. Un’altra precipitò dentro la sala delle pergamene papali nell’Archivio di Stato ai Frari. Un’altra forò il soffitto del [p. 23 modifica]teatro della Fenice. Ventidue palle caddero intorno e dentro l’edificio dell’Accademia di Belle Arti, offendendo soltanto l’Adorazione dei Magi del Bonifacio.

Il 25 luglio vi era stato perfino un tentativo, il primo, credo, nella storia degli assedii, di bombardarla dal cielo: duecento palloncini da ciascuno dei quali pendeva una bomba di trenta libbre erano stati col vento propizio mandati sulla città dal piroscafo Vulcano ancorato fuori del porto di Lido; ma il tentativo fu vano, anzi alcuni palloni andarono a finire verso Mestre e verso il campo austriaco con molta ilarità degli assediati. Ma il feldmaresciallo Thurn, che era succeduto al Haynau come capo delle truppe d’assedio, emulò la lealtà del generale Culoz narrando, in un comunicato [p. 24 modifica]ufficiale sul Lloyd Tedesco, d’aver potuto distinguere da terra la devastazione fatta da quelle bombe e «d’avere sospeso per sentimento d’umanità l’ulteriore bombardamento nell’aspettativa che quella città sventuratamente cieca rientrasse in sè stessa e si arrendesse, perchè altrimenti sarebbe stato facilissimo ridurla un mucchio di rovine».

Quando nell’agosto del 1849 non gli austriaci ma la fame e il colera costrinsero anche Venezia ad arrendersi, undici chiese e quattordici palazzi erano stati colpiti. E se non erano stati distrutti il merito spettò ai projettili d’allora innocui al confronto di quelli d’adesso. Accanto al teatro della Fenice, nel Campo delle Baie (Campo delle Palle) si vede ancora una strana casetta con la facciata [p. 25 modifica]simmetricamente adorna di tutti i projettili austriaci che molti anni dopo un veterano di quell’assedio, Giorgio Casarini, aveva potuto raccogliere nella città.

Sulla facciata della chiesa degli Scalzi una lapide in pietra racconta: «Imperatore Caesare Francisco Jos. I reparatum aere publico». L’imperatore Francesco Giuseppe aveva paternamente curato nel 1862, col denaro dei veneziani, il restauro della chiesa danneggiata dalle sue bombe nel 1849. Chi leggeva più quell’epigrafe? Forse qualche austriaco, sorridendo.


Noi italiani abbiamo tanta storia che ce la dimentichiamo con un’eleganza di nobili cui dispiace ripetere in pubblico i proprii titoli e le sonanti gesta degli avi. Ma gli austriaci, no, sono sempre quelli, e, se contano sul nostro [p. 26 modifica]oblio, non mutano d’animo nè in tempo d’alleanza nè in tempo di guerra. Sempre quelli, puntualmente. La guerra fu dichiarata la sera del 23 maggio 1915. La mattina del 24 alle cinque due idrovolanti nemici apparvero sulla città che tutta rosea si liberava appena dagli azzurri veli della notte: e le lanciarono quattro bombe. E una cadde a cento metri da Palazzo Ducale.

La stessa mattina alla stessa ora una squadra di navi austriache postasi davanti ad Ancona, porto non più fortificato, lanciava sette projettili di grosso calibro contro la cattedrale di San Ciriaco ben visibile dal mare, isolata com’è sulle pendici del monte Gasco.

La chiesa di San Ciriaco sorse tra il 1094 e il 1174 al posto d’una [p. 27 modifica]chiesa distrutta dai Saraceni. È a croce greca, con tre navate per ogni braccio, e tiene del bizantino e del romanico. Nel palazzo episcopale lì accanto morì nel 1464 Pio secondo Piccolomini, il papa umanista che fu glorificato dal Pinturicchio negli affreschi della Libreria di Siena, e che era venuto ad Ancona per ordinare un’ultima crociata contro i turchi. È quello insomma, nell’Italia adriatica, uno dei luoghi più sacri alla storia e alla pietà perchè vi si affollano i ricordi del nostro dominio e della nostra vita in Oriente: e la bella chiesa alta sui leoni del suo portale pare stia lì di faccia al mare a benedire dal suo monte dirupato chi salpa per la riconquista.

Sei projettili colpirono la chiesa, ne sconvolsero l’interno. Uno colpì la torre campanaria sul fianco orientale. [p. 28 modifica]

Così fu iniziata dagl’imperiali anche in Italia la coraggiosa guerra contro i monumenti: di là una nave corazzata lontana otto dieci quindici chilometri o una macchina volante all’altezza di tre o quattromila metri e alla velocità di cento o centoventi chilometri; di qua una chiesa, quattro mura, una cupola, marmi, mosaici, tele e vetri dipinti, un Crocifisso e un’ostia consacrata, senza altra difesa sotto il rombo e sotto i colpi che la loro santità, la loro bellezza, l’implorante pietà delle donne che vi si raccolgono inginocchiate.

— Da che parte è la giustizia? — si domanda ancóra qualche neutro che dubita più di sè stesso che della verità. — Da che parte è la verità? — si domandano perfino uomini nati in Italia che s’illudono d’innalzare la [p. 29 modifica]loro anima bolsa gonfiandola di parole così che salga più su della mischia. La giustizia, la verità? Dalla parte di chi bombarda le chiese munite solo di fede e di bellezza e gli asili colmi di fanciulli, o dalla parte di chi difende con tutta la sua intelligenza, con tutta la sua energia, con tutto il suo sangue i suoi figli, le sue chiese, la sua storia, la sua civiltà tre volte millenaria? Sì, la guerra è atroce e i colpi non si dànno a patti, e in ogni battaglione italiano son molti gli ardimentosi che fanno ogni notte una scommessa con la morte e saltano di trincea, sgusciano sotto un reticolato, fra due cavalli di Frisia, e un soldato austriaco vivo o morto lo riportano al loro capo, anzi più d’uno. Ma immaginate voi nell’esercito italiano un capo che ordini a un aviatore della [p. 30 modifica]sua squadriglia di alzarsi per andar a bombardare laggiù oltre il mare questa chiesa o quell’altra?

In cima a un monte sull’Isonzo a cento metri da Liga è una cappellina misera senz’altro valore che la santità del suo nome: Maria Zell, Maria Coeli, che è anche il nome d’un fastoso tempio della fine del secento, non lontano da Vienna, nel quale son seppelliti arciduchi e arciduchesse dentro cenotafii di marmi più rari di loro. Al principio della guerra si sparse la voce che non so più quale arciduca sepolto nella grande Mariazell dell’Austria era sepolto nella minuscola Mariazell del Friuli. Lo credereste? Da allora la cappellina che restava sotto il tiro continuo, sbrecciata ora di qua ora di là da un projettile, è stata gelosamente custodita da un buon [p. 31 modifica]carabiniere imperterrito che quando dà il cambio al suo compagno gli spiega rispettoso che lì dentro è sepolto un arciduca....

Poco più a mezzodì, sopra un’altra collina tra Quisca e la Piumizza, è un’altra chiesetta, il Calvario di Quisca, costruita sui ruderi d’un antico castello, venerata da tutti i contadini del Collio cioè di quella regione collinosa chiusa tra Gorizia il Sabotino il Planina e lo Judrio. Dentro non aveva di pregevole altro che un gran polittico di legno scolpito e dipinto, un polittico del mezzo cinquecento, di scuola tirolese rozza e tozza ma vigorosa ed espressiva. Quando il Sabotino non era nostro, quella chiesuccia era il facile bersaglio delle artiglierie nemiche, e un proiettile, fra gli altri, andò a colpire quel [p. 32 modifica]polittico, sconnettendolo, sbruciacchiandolo, frantumandolo. Tutto quel che ne restava è stato raccolto dentro un telo da tenda, e il Comando Supremo l’ha mandato qui a Firenze perchè, sotto la sorveglianza di chi dirige le nostre gallerie, esso sia ricomposto e restaurato e, nel giorno della pace, ricondotto lassù insieme ai suoi fedeli oggi profughi, dispersi tra Italia e Austria.

Ma io divago chè gli esempii potrebbero essere cento, tra Condino e Monfalcone. In tutti noi, anche nei più semplici e indòtti, vive ancóra il pregiudizio generoso di Leon Battista Alberti: «Che cosa si può fare dall’arte degli uomini tanto stabile che sia fortificata abbastanza contro l’ingiuria degli uomini? La bellezza sola impetrerà grazia dagli uomini ingiusti che [p. 33 modifica]modereranno le stizze loro e non soffriranno che le sia fatta villania. E io voglio ardire di dir questo: nessun lavoro per nessun’altra causa può mai essere più sicuro dalle ingiurie degli uomini e illeso quanto che per la dignità e venustà della sua bellezza.»2. Dopo quattro secoli e mezzo, può la nostra civiltà trovare parole più pure?

Continuiamo il martirologio, dicendo solo dei martiri più gloriosi nel nostro ricordo e nel nostro dolore.


Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, alle ore dieci e mezzo, una bomba cadde sulla chiesa degli Scalzi e distrusse tutta la vôlta dipinta dal Tiepolo. L’affresco che il Tiepolo vi aveva dipinto quasi cinquantenne, tra il 1743 e il [p. 34 modifica]1750, rappresentava la Traslazione della Santa Casa di Loreto, e l’entusiasmo che suscitò quell’opera tutta luce e musica e volo, fu tanto che passò le Alpi e indusse il vescovo di Würzburg, Carlo Filippo di Greiffenklau, a chiamare il pittore per confidargli a Würzburg la decorazione del suo palazzo. Di questo capolavoro, dopo l’esplosione non restarono che i pennacchi ai lati, perchè dipinti sul muro pieno: bellissimo, fuor da un mantello color ruggine, un vecchio che sostiene con una mano sul petto un giovinetto roseo e biondo, dagli occhi tondi e stupefatti, vestito d’un giustacuore di raso azzurro, adorno d’una catena e d’una medaglia d’oro, chinato sopra una balaustrata a guardare giù la grande chiesa, — e adesso la grande rovina. I ritratti, si narra, di [p. 35 modifica]Giambattista Tiepolo e di suo figlio Domenico. A fissarli, così soli, sospesi su quella distruzione, tra il cielo scoperto e il monte dei rottami, nelle prime ore dopo la catastrofe, commovevano come la presenza di figure vive, riapparse lì per un prodigio d’amore e di pena.

Si pensi che, essendo l’unica navata lunga circa trenta metri, quasi duecentocinquanta metri quadrati di pittura del più luminoso immaginoso lieto delicato illustre pittore del nostro settecento furono annientati da quella offesa nemica.

Tre mesi dopo, Ravenna. Il 12 febbraio 1916 in un’incursione sulla città aperta di Ravenna una bomba fu gittata proprio sulla chiesa di Sant’Apollinare nuovo, la chiesa palatina di Teodorico, eretta nel primo [p. 36 modifica]quarto del sesto secolo, e dall’arcivescovo Agnello nel 560, quando passò al rito cattolico, ornata dei celebri mosaici con la processione delle Vergini e dei Martiri bianchi. Questa processione sul cielo d’oro è così pura e divina nella sua simmetria e nella sua monotonia che un lento ritmo di musica liturgica pare accompagni le Vergini sui gigli e le rose verso Gesù bambino e, di contro, i Martiri verso Gesù Redentore, dietro la porpora sanguigna di San Martino che li conduce.

Un miracolo salvò questa bellezza d’una gloria e d’uno splendore senza pari, rispettata e adorata in tutti i secoli, dagli esarchi bisantini e dai longobardi, dai tumulti dei guelfi e dei ghibellini, dal nefando saccheggio del 1512 e dagli stolti restauri settecenteschi e ottocenteschi. La bomba, invece [p. 37 modifica]che nel mezzo della navata centrale, cadde, per fortuna, verso la facciata, scoppiando, dopo l’urto sul tetto, nell’interno; abbattè l’angolo superiore sinistro della fronte e tre campate del portico, distaccando solo un lembo dei mosaici verso l’ingresso così che poche ore dopo precipitavano.

Ancóra una sosta di quattro mesi. Sembra quasi che, compiuto un misfatto tanto vile e, per la guerra, tanto, inutile, i nemici vogliano sempre aspettare che, fra tante vicende dell’immane tragedia, esso venga dimenticato, e gl’ingenui, che sono tanti, riprendano fiducia e speranza. Il 23 giugno, alle due e trenta del mattino, un idrovolante austriaco lanciava a Venezia sulla chiesa di San Francesco della Vigna due bombe potentissime. Una colpì il campanile, ne scheggiò la cornice, si [p. 38 modifica]ficcò nella terra. L’altra aprì due larghe brecce nel muro della sacrestia; sconvolgendo soffitto e pavimento, ferendo sull’altare un bel trittico della scuola de’ Vivarini.

Poi Venezia dovette pagare la presa di Gorizia come Reims aveva dovuto pagare la vittoria della Marna. A Gorizia entrammo il 9 d’agosto. Nella notte del 10 una bomba incendiò e scoperchiò Santa Maria Formosa da dove era stata messa in salvo diciassette mesi prima la popolarissima Santa Barbara di Palma il Vecchio; un’altra arse la cupola della chiesa di San Pietro in Castello che era stata dal 1451, cioè dalla fondazione del Patriarcato di Venezia, fino al 1807, la chiesa dei patriarchi i quali ebbero lì accanto il loro palazzo. E una bomba era già caduta su questo palazzo abbattendone un’ala. [p. 39 modifica]

La sera del 4 settembre una bomba incendiaria cadde a due metri dalla porta centrale di San Marco, e sul luogo dove cadde sarà posta una lastra di granito rosso perchè non solo i veneziani e gl’italiani ricordino per sempre l’attentato ribaldo. E il 13 settembre all’una e quaranta del mattino fu colpito il tempio di San Giovanni e Paolo, il Pantheon di Venezia, dove riposano tutti i suoi dogi e capitani più insigni, dove tutta la storia politica di Venezia sembra racchiusa e, con la storia, monumenti d’arte d’ogni secolo e d’ogni materia cominciando dalla grande vetriata del Mocetto che Corrado Ricci aveva fatto smontare e portar via nel 1914 insieme alle tele di Bartolomeo Vivarini, del Cima, del Lotto, di Rocco Marconi: tesori che oggi, senza quella previdenza, [p. 40 modifica]sarebbero cenci e frantumi. Due bombe furono lanciate su questa chiesa, ma una cadde a poca distanza, sulla Casa di Ricovero detta volgarmente l’Ospedaletto, che accoglie cinquecento vecchi, e ne forò i tre piani, passando a mezzo delle corsìe tra due file di letti, e andando a conficcarsi inesplosa nelle fondazioni. L’altra entrò nella chiesa per un foro di quasi due metri dall’alto della navata destra, andò a colpire in alto il muro opposto della navata centrale; scoppiò scagliando grosse schegge sul monumento di Pietro Lombardi al Doge Pietro Mocenigo a sinistra di chi guarda la gran porta, e sul monumento Valier, i quali, per essere tutti e due stati coperti con gravi saccate di sabbia, restarono illesi; ferì un quadro del Bissolo; con la convulsione dell’aria staccò l’intonaco da [p. 41 modifica]tutta la vôlta e dilaniò la tela del Piazzetta: la sua tela più celebre, più bella e più delicata, perchè i toni di rosa e d’ambra, intorno alle tonache nere dei domenicani e alla veste turchina dell’angelo che solleva il Santo, v’erano rimasti intatti, ciò che ormai è raro nelle pitture di lui.

Da allora, Venezia non è stata più colpita.3 Le perdite subite ad ogni incursione, l’efficacia sempre più stretta e sicura; della difesa aerea della città, i nuovi mezzi escogitati da [p. 42 modifica]questi difensori pazienti e ormai espertissimi, mezzi che oggi non è lecito rivelare, e non certo il rimorso pei delitti perpetrati o la condanna di tutto il mondo civile, hanno indotta il nemico ad evitare quel cielo. L’11 novembre, quando volò su Padova per uccidervi cittadini inermi e donne e fanciulli, esso passò studiatamente al largo dalla zona battuta dalle artiglierie veneziane, e così dovette fare più volte fino alla notte del 3 giugno quando queste artiglierie lo respinsero dai dintorni di Venezia dove si rassegnò a gittare le sue bombe ferendo due borghesi e una donna.

Ma il nemico sa che anche fuori del regno nelle terre occupate, l’esercito nostro ad ogni passo che fa nell’aspra via della vittoria, ritrova nelle forme dei monumenti, nelle pergamene degli [p. 43 modifica]archivii, nei nomi delle antiche tombe i segni delle sue glorie e le prove del suo diritto. Egli sa che l’arte romana, l’arte veneziana, l’arte lombarda, di secolo in secolo, hanno illuminato tutte le valli del Trentino e i colli e la piana del Friuli e la laguna: da Cimego nelle Giudicarie ad Aquileja e a Grado.

Bisogna aver veduto, nei primi mesi della nostra guerra, i soldati italiani entrare nella basilica o nel museo d’Aquileja, riconoscere stupefatti in quei mosaici, in quelle colonne, in quei bronzi, in quei vetri Roma, Napoli, Pompei, Venezia per sapere quanto possa l’arte nella storia e nell’energia d’un popolo. Era il documento tangibile del loro diritto ad essere là, armati e vittoriosi; e la fede dei più incolti era la più commovente perchè non si perdeva in raffronti minuti ma [p. 44 modifica]sorrideva sicura come di chi in terra lontana rioda all’improvviso la propria favella e il proprio dialetto.

Ed ecco che appena il volo sul cielo di Venezia gli è sembrato troppo pericoloso, s’è precipitato sopra Aquileja, scagliando il 13 maggio una bomba sul piccolo museo archeologico dal quale aveva sottratto i milleseicento pezzi più preziosi nell’aprile 1915, nei giorni cioè in cui il dono del famoso parecchio pareva allargarsi fino all’Isonzo e includere Aquileja; e scagliando altre due bombe sulla basilica, una esplosiva — vedete i consigli dei barbari sapienti — che vi sconnettesse il gran soffitto di legno, e súbito dopo una incendiaria che gli appiccasse il fuoco. La bomba incendiaria fallì il bersaglio per pochi metri. [p. 45 modifica]

Colpirci in quel che abbiamo di più singolarmente nostro, in quel patrimonio di storia e d’arte e di tradizioni che niente può sostituire perchè a un velivolo austriaco abbattuto da noi si può subito sostituire un altro velivolo, ma alla basilica di San Marco se fosse distrutta niente potremmo sostituire che la valesse, e intimidirci e impoverirci: ecco il loro programma metodico. E adopero la parola impoverirci nel senso più misero perchè quando il nemico ebbe polverizzato il soffitto del Tiepolio agli Scalzi, qualcuno con l’infrenabile e ciarliera bontà di troppi italiani si chiese se il nemico avesse proprio voluto deliberatamente colpire un monumento tanto insigne: ma s’affrettò a rispondergli lo stesso nemico. L’ufficioso Fremdenblatt del [p. 46 modifica]14 novembre 1915 dichiarò infatti che anche agli austriaci dispiaceva la distruzione dei tesori dell’arte, ma questo dispiacere era diminuito dalla gioia per il danno arrecato alla nostra ricchezza e alle nostre rendite per «l’industria dei forestieri», e sperava che «questo pensiero avrebbe nell’avvenire servito di guida agli aviatori». E così fu, per Ravenna, per Venezia stessa, per Verona colpita nella piazza dell’Erbe, per Aquileja. Con lo stesso animo, per lo stesso scopo pratico — impoverire il nemico — i tedeschi in Francia, solo nei tre dipartimenti dell’Oise, dell’Aisne e della Somme hanno metodicamente tagliato ottantamila alberi da frutto. Ma, più astuti, non se ne sono vantati nei giornali.

Il Fremdenblatt infatti fu troppo sincero. Il governo tedesco e austriaco e i [p. 47 modifica]comunicati ufficiali dei loro Supremi Comandi hanno ancóra altra maestà di linguaggio perchè hanno ancóra altra vastità di illusioni. Da qualche mese non si perdono più nemmeno nella monotona menzogna di accusare l’esercito francese d’aver collocati posti d’osservazione e innalzalo mitragliatrici fin sui campanili di Reims, di Senlis, di Soissons, e quello italiano d’aver fatto lo stesso uso del campanile di San Marco il quale dal principio della guerra ha la sua cella chiusa da un tavolato. Erano ciarle pei neutri, e i neutri che restano sono pochi e di facile persuasione.

La verità è un’altra, la ragione del delitto è altrove: è nel folle orgoglio del nemico.

Muoja il mondo ma si salvino la Germania e l’Impero, e con la [p. 48 modifica]Germania si salvino la nobile Austria e la Turchia nobilissima finchè son necessarie all’Impero e finchè accettano di essere un paradiso pei tedeschi. Il popolo tedesco è il popolo di Dio. Chi l’ajuta è benedetto, è l’unto dell’Imperatore che è l’unto del Signore. Chi gli è contro, è maledetto nei suoi figli, nelle sue donne, nei suoi beni, nel suo presente e nel suo passato chè dell’avvenire non si parla sperando la Germania di foggiarselo a suo modo, e a suo vantaggio per la nostra più serena felicità.

Certo, per convincere un popolo ad ajutare e a servire la divina Germania, si possono adoperare il sorriso, la buona bugia, il mellifluo consiglio, la dottrina addottrinata, la promessa da non mantenere. E noi e i belgi e i francesi e i russi e gl’inglesi e gli [p. 49 modifica]americani l’abbiamo provato a nostre spese; anzi i russi lo provano ancóra, a spese loro e nostre. Se quei procedimenti non bastano, si passa, nel giorno più opportuno, all’intimidazione. Se l’intimidazione non basta, si passa alla guerra. Ma la guerra deve essere selvaggia, senza legge e senza pietà; tremenda come un cataclisma perchè così è più adatta a domare e a convincere i popoli inferiori, cioè i popoli non tedeschi e non obbedienti ai tedeschi, — e perchè così è più breve.

Più breve? Ecco l’ostacolo inatteso, l’errore della teoria, la meraviglia da cui i nemici non si sono ancóra riavuti e non si riavranno più. La guerra è lunga, lunga, è vero, per noi; ma più lunga per loro che la credevano rapida, che la immaginavano una corsa alla vittoria, con la complicità del [p. 50 modifica]loro Dio. Ogni giorno che passa cade un poco d’orgoglio tedesco, cade un poco d’orgoglio austriaco, anche se quel giorno non muojono nè un soldato tedesco nè un soldato austriaco.

Resistere, resistere oggi è quanto combattere: anzi oggi è per noi vincere. Che era al principio della guerra per la Germania e per l’Austria la Francia? Un popolo frollo che al primo urto sarebbe caduto a terra, esausto per sempre. E l’Inghilterra? Un popolo d’egoisti miopi e lenti, ormai paurosi del rischio. E l’Italia? Un popolo di femmine, di retori e di vigliacchi dove i pochi uomini capaci di star ritti erano pronti a fare da spie o da agenti o da fautori del nemico.

Ed eccole invece tutte e tre, Italia, Inghilterra, Francia, ferme, incrollabili, lealmente legate ad un patto, non [p. 51 modifica]vittoriose ancóra, ma oramai invincibili. E di là dall’oceano una nazione nuova sana ricca, una nazione che non conosce il dubbio, una nazione che sembra tutto un fiore di giovinezza, s’alza a chiudere l’orizzonte. Resistere, resistere che ormai anche a star fermi la vittoria ci viene incontro. Resistere non solo per la fede nel nostro avvenire, non solo con la forza del nostro presente, ma anche con l’orgoglio del nostro passato.

Il nemico, quando s’è accanito a distruggere i monumenti che sono i testimonii di questo nostro passato, ci ha indicato dov’è la sorgente della nostra vita morale, della nostra energia, dell’orgoglio che ci deve fare attraversare a testa alta questi mesi e questi anni di prova suprema. Egli ha detto: — Questi vivi son da temere [p. 52 modifica]non solo per quel che essi valgono, ma anche pei morti che rivivono in loro, che sono l’anima loro.

Accettiamo la sfida. In questo Palazzo posto nel cuore di Firenze a guardia della vostra libertà comunale, in questa sala dove cinquantun anno fa fu proclamata contro lo stesso nemico la guerra che oggi noi continuiamo e concluderemo, ripetiamo, cittadini, a noi stessi e al nemico la promessa virile di resistere non solo per difendere la libertà nazionale, non solo per raggiungere finalmente la libertà di tutti gli italiani che il dominio straniero strazia ancóra e contamina, ma anche per difendere in faccia ai barbari la civiltà che i nostri morti hanno fissata nella loro arte serena, la civiltà umanissima che per misura s’era scelto l’uomo, non [p. 53 modifica]l’infinito e l’assurdo, la civiltà della ragione contro l’istinto, della bontà contro il delitto, della giustizia contro la forza, della verità contro la menzogna, della libertà contro l’impero.


  1. Mentre ardeva l’edificio della biblioteca universitaria di Lovanio, un Padre Giosefita richiamò l’attenzione dell’ufficiale che comandava gl’incendiarii, sui tesori raccolti là dentro. L’ufficiale rispose: — Es ist Befehl, è ordine. (Léon van der Essen, L’invasion allemande en Belgique. Paris, ed. Payot, 1917, pag. 297.)
  2. L. B. Alberti, Dell’architettura, ecc., libro VI, cap. II, pag. 133. Bologna, 1782.
  3. Queste parole erano pronunciate il primo di luglio 1917. Nella notte sul 13 agosto 1917 il nemico in una nuova incursione nel cielo di Venezia colpiva presso San Giovanni e Paolo la Scuola Grande di San Marco adesso Ospedale Civile, uccideva e feriva i ricoverati, e faceva crollare il mirabile soffitto di legno intagliato eseguito tra il 1519 e il 1535 da Vittorio da Feltre e Vincenzo da Trento. Già l’11 luglio in un’altra incursione su Cividale aveva gittato una bomba su quel Museo Archeologico insigne per le sue raccolte d’arte medievale: ma il museo era vuoto. Delle recenti incursioni di aeroplani tedeschi e austriaci su Padova, qui è memorabile quella nella notte tra il 30 e il 31 decembre 1917 che abbattè il fastigio della facciata del Duomo, schiantò muri e pilastri all’ingresso del Museo Civico, squarciò le porte di bronzo della basilica del Santo, sconnesse le mura e danneggiò gli affreschi della vicina Scuola, fra i quali son celebri quelli di Tiziano e del Montagna.