Il guarany/Parte Seconda/Capitolo IX

Parte Seconda - IX. Il testamento

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José de Alencar - Il guarany (1857)
Traduzione dal portoghese di Giovanni Fico (1864)
Parte Seconda - IX. Il testamento
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CAPITOLO IX.


IL TESTAMENTO.

Nel momento che Cecilia lasciava Isabella, don Antonio de Mariz saliva lo spianato, preoccupato da qualche affare importante, che dava alla sua fisonomia un’espressione ancora più grave del consueto.

Il vecchio fidalgo scôrse da lungi suo figlio don Diego e Alvaro, che passeggiavano lungo lo steccato che cingeva la casa al basso, e fece loro segno di avvicinarsi.

I giovani ubbidirono prontamente, e accompagnarono don Antonio de Mariz fino alla sua sala d’armi, piccola stanza attigua all’oratorio e che nulla avea di notabile, all’infuori della porticina di una scala che discendeva in una specie di grotta o canova, che serviva di polveriera. [p. 100 modifica]

Nell’atto che si ponevano i fondamenti della casa, gli operai scoprirono una cava sotterranea, profonda, tagliata nel masso, e don Antonio, previdente com’era, pensando al bisogno che forse avrebbe in avvenire di non far assegnamento che sulle proprie forze, volle trar partito di quel luogo, e farne un magazzino capace di contenere parecchie misure di polvere.

Il fidalgo traeva da questo suo trovato ancora un altro gran vantaggio; ed era la tranquillità della famiglia, la cui vita non sarebbe soggetta alla negligenza di qualche domestico o avventuriere; perocchè nella sua piccola armeria nessuno entrava, se non quando egli era presente.

Don Antonio si assise ad un tavolino coperto di un cuoio di moscovia, e fece segno ai due giovani di sedergli allato.

— Ho bisogno di parlarvi di un affare molto serio, di un affare di famiglia, disse il fidalgo. Vi chiamai affinchè mi udiste, trattandosi di cosa che riguarda voi e me sopra tutti.

Don Diego inchinossi avanti suo padre, e Alvaro fece il somigliante, non potendo a meno di non provare un certo turbamento all’udire quelle parole gravi e posate del vecchio fidalgo.

— Ho settant’anni, continuò don Antonio; sono vecchio. Il contatto di questo vergine suolo del Brasile e l’aria pura di questi deserti mi ringiovanirono alquanto nei miei ultimi anni; ma la natura riprende i suoi diritti, e sento che l’antico vigore cede alla legge della creazione, [p. 101 modifica]che vuol ritorni alla terra quanto venne dalla terra.

I due giovani stavano per pronunciare alcuna di quelle dolci parole, con cui ci studiamo di velare la verità a coloro che ci sono cari; e ci sforziamo di illudere noi stessi.

Don Antonio li contenne con un gesto nobile.

— Non interrompetemi. Non è una querimonia che bramo farvi udire, bensì una dichiarazione che dovete ricevere, perocchè è necessario a ben intendere quello che sto per dirvi. Quando per quarant’anni si pose a cimento quasi ogni dì la propria vita, quando si mirò cento volte la morte sopra il capo; o a’ propri piedi, ben puossi guardar tranquilli al termine del viaggio che facciamo in questa valle di lagrime.

— Oh! giammai dubitammo del vostro coraggio, padre mio! sclamò don Diego; ma è già la seconda volta in due giorni che mi parlate della possibilità di una tal disgrazia; e questa sola idea mi contrista! Siete ancor forte e vigoroso!

— Sì certo, riprese Alvaro; diceste poc’anzi che il Brasile vi avea ringiovanito; e io vi accerto che ancora siete nella gioventù di questa seconda vita, che vi spirò il nuovo mondo.

— Obbligato, Alvaro, obbligato, figlio mio, disse don Antonio sorridendo; voglio dar fede alle vostre parole. Tuttavia converrete esser cosa prudente per un uomo che tocca all’ultimo quarto della sua vita, disporre della sua ultima volontà, e fare il suo testamento. [p. 102 modifica]

— Il vostro testamento, padre mio! disse don Diego pallido.

— Sì: la vita appartiene a Dio, e l’uomo che pensa al futuro, deve prevenirlo. È costume incaricare di ciò un notaio; ma nè l’ho qui presente, nè lo giudico necessario. Un fidalgo non può affidar meglio la sua ultima volontà, che a due anime nobili e leali come le vostre. Una carta può perdersi, lacerarsi, andar in cenere; il cuore d’un cavaliere che tiene la sua spada per difesa, e il suo dovere per guida, è un documento vivo e un esecutore fedele. Questo pertanto sarà il mio testamento. Ascoltatemi.

I due cavalieri conobbero dalla fermezza con che parlava don Antonio, che la sua risoluzione era irrevocabile, e si disposero ad udirlo con un senso di mestizia e rispetto.

— Non trattasi di voi, don Diego, il mio patrimonio vi appartiene, come capo che sarete della famiglia; non trattasi di vostra madre, perchè perdendo uno sposo ancor le rimane un figlio affettuoso: vi amo ambedue e vi benedirò nell’ultima ora. Vi hanno però due cose che sommamente apprezzo in questo mondo, due cose sacre, che debbo custodire come un tesoro, anche dopo che sarò partito da questa vita. È la felicità della mia figlia e la nobiltà del mio nome; una fu un dono ricevuto dal cielo, l’altra un legato lasciatomi da mio padre.

Il fidalgo tacque un momento, e dal volto addolorato di don Diego volse lo sguardo sul [p. 103 modifica]sembiante d’Alvaro, che stava in un’estrema agitazione.

— A voi, don Diego, trasmetto il legato di mio padre; sono persuaso che serberete il suo nome puro quanto la vostra anima, e che vi studierete di innalzarlo, servendo a cause sante e giuste. A voi, Alvaro, affido la felicità della mia Cecilia; e ho fede che Dio, inviandovi a me, or sono dieci anni, non fece se non rendere più compito il dono che mi concesse.

I due giovani aveano piegato un ginocchio a terra, e baciavano le mani del vecchio fidalgo, che collocato nel loro mezzo li comprendeva in un medesimo sguardo di amore paterno.

— Alzatevi, figli miei, abbracciatevi come fratelli, e ascoltatemi ancora.

Don Diego aperse le braccia, e strinse Alvaro al petto; quei due nobili cuori batterono un istante l’uno contro l’altro.

— Ciò che mi rimane a dire è malagevole; rincresce sempre confessare un fallo, anche allorquando si parla ad anime generose. Ho una figlia naturale: la stima che porto a mia moglie e la tema di far arrossire quella povera fanciulla del suo nascimento, mi obbligarono a darle in vita il titolo di nipote.

— Isabella?... sclamò don Diego.

— Sì, Isabella è mia figlia. Vi chiedo ad entrambi di trattarla come tale; che l’amiate come sorella, e la circondiate di tanto affetto, di tanta tenerezza, che possa esser felice, e mi perdoni [p. 104 modifica]l’indifferenza che le mostrai, e l’infelicità involontaria che cagionai a sua madre.

La voce del vecchio fidalgo si fece un po’ tremola e commossa; s’accorse che una memoria dolorosa, sopita nel fondo del suo cuore, si era ridestata.

— Povera donna!... mormorò egli.

Sorse in piedi, passeggiò per la stanza, e riuscito a dominare la sua emozione, si rivolse ai due giovani.

— Questa è la mia ultima disposizione; so che l’adempirete; non vi chieggo un giuramento; mi basta la vostra parola.

Diego stese la mano, Alvaro mise la sua sul cuore: e don Antonio che comprese quanto diceva quella muta promessa, li abbracciò.

— Adesso cacciate la tristezza; voglio vedervi lieti; io pur lo sono, mirate! La tranquillità sul futuro va a ringiovanirmi di nuovo; e forse aspetterete ancora molto tempo, prima che vi occorra di eseguire la mia volontà, che fino allora dee rimaner sepolta nel vostro cuore, come testamento che ella è.

— Così l’avea intesa, disse Alvaro.

— Or bene, replicò il fidalgo sorridendo, dovete pur avvertire ad un altro punto; ed è che forse toccherà a me stesso di eseguire una delle parti del mio testamento. Sapete qual’è?

— Quella della mia felicità!... rispose il giovane arrossendo.

Don Antonio gli strinse la mano. [p. 105 modifica]

— Sono contento e soddisfatto, disse il fidalgo; peccato ch’io mi abbia un doloroso ufficio a compire. Avete nuova di Pery, Alvaro?

— Lo vidi poc’anzi.

— Andate, e fate che venga da me.

Il giovane ritirossi.

— Fate chiamare vostra madre e vostra sorella, figlio mio.

Don Diego obbedì.

Il fidalgo si assise al tavolino e scrisse un pezzo di pergamena, che legò con un filo di seta ritorto e suggellò colle sue armi.

Donna Lauriana e Cecilia entrarono accompagnate da don Diego.

— Sedetevi, moglie mia.

Don Antonio ragunava la sua famiglia per dare una certa solennità all’atto che stava per compire.

Quando Cecilia entrò, se la fece chinare sulla spalla, e le susurrò all’orecchio:

— Che vuoi tu dargli?

La fanciulla capì all’istante; l’affezione poco comune che avea per Pery, la gratitudine che gli serbava, era una specie di segreto fra que’ due cuori; era una pianta esotica che ascondeva agli sguardi altrui, onde non destar meraviglia per quell’amistà tanto profonda e tanto delicata verso un selvaggio.

Udendo la dimanda di suo padre, Cecilia, che in quel dì era stata in preda ad emozioni tanto svariate, ricordossi di che si trattava. [p. 106 modifica]

— Come! avete ancora in animo di licenziarlo! sclamò ella.

— È necessario; te lo dissi.

— Sì; ma pensate che poi risolverete in contrario.

— Impossibile!

— Che male fa egli qui?

— Sai quanto lo stimo; quando dico che è impossibile, devi credermi.

— Non andate in collera!...

— Quindi non ti opponi?

Cecilia si tacque.

— Se tu nol vuoi assolutamente, nol faccio; ma tua madre soffrirà, ed io pure perchè le promisi.

— No; la vostra parola prima di tutto, padre mio.

Pery comparve sulla porta della sala; una vaga inquietudine si sparse sul suo volto quando videsi in mezzo della famiglia radunata.

La sua attitudine era rispettosa, ma il portamento serbava quell’alterezza innata che è propria delle tempre privilegiate; i suoi grandi occhi neri e limpidi percorsero la stanza e si fissarono sulla fisonomia venerabile del cavaliere.

Cecilia, prevedendo quel che sarebbe per accadere erasi nascosta dietro suo fratello don Diego.

— Pery, sei persuaso che don Antonio de Mariz è tuo amico? dimandò il fidalgo.

— Lo sei, quanto un uomo bianco può esserlo d’un uomo di colore. [p. 107 modifica]

— Sei persuaso che don Antonio de Mariz ti stima?

— Sì; perchè lo disse e lo mostrò.

— Sei persuaso che don Antonio de Mariz desidera poterti ricambiare di quello che facesti per lui, salvando sua figlia.

— Se ve ne fosse bisogno, sì.

— Or bene, Pery; don Antonio de Mariz, tuo amico, ti chiede che faccia ritorno alla tua tribù.

L’Indiano trasalì.

— Perchè mi chiedi ciò?

— Perchè così fa di bisogno, amico.

— Pery comprende; sei stanco di dargli ospitalità!

— No!

— Quando Pery ti disse che rimaneva, non ti chiese nulla; la sua casa è fatta di paglia sul vertice di un masso; gli alberi del bosco gli danno l’alimento; la sua camicia e la sua tunica furono tessute da sua madre, che gliele recò la luna scorsa. Pery non ti costa nulla; solo vuol vedere la sua signora e servirla.

Cecilia piangeva; don Antonio e suo figlio eran commossi; donna Lauriana stessa parea un po’ scossa.

— Non dir ciò Pery! Giammai a casa mia ti mancherebbe la menoma cosa, se tu non ricusassi tutto e non volessi vivere appartato nella tua capanna. Ancor’adesso dì quello che desideri, o ti aggrada, ed è tuo.

— Perchè dunque licenzii Pery? [p. 108 modifica]

Don Antonio non sapea che rispondere, e videsi costretto a cercare un pretesto per render ragione all’Indiano del suo procedere. L’idea religiosa, che i popoli tutti comprendono, gli parve la più adatta.

— Tu sai che noi Bianchi abbiamo un Dio, che dimora lassù, che amiamo, rispettiamo e obbediamo.

— Sì.

— Questo Dio non vuole che viva fra noi un uomo che non l’adora e non lo conosce; fino a questo giorno gli abbiamo disubbidito; adesso egli comanda.

— Il Dio di Pery comandava pure ch’egli restasse con sua madre, nella sua tribù, vicino alle ossa di suo padre; e Pery abbandonò ogni cosa per seguirti.

Vi fu un momento di silenzio; don Antonio non sapea che replicare.

— Pery non vuole dispiacerti; solo aspetta gli ordini della signora. Comandi che Pery se ne vada, signora?

Donna Lauriana, che non sì tosto udì parlar di religione, avea ripreso le sue preoccupazioni contro l’Indiano, fece un gesto imperioso a sua figlia.

— Sì! balbettò Cecilia.

L’Indiano abbassò il capo; una lagrima gli rigò la faccia e gli cadde sul petto.

Quello che soffriva è impossibile a dire; la parola non sa il segreto di quei dolori muti di un’anima forte e vigorosa, che per la prima volta si sente vinta dal dolore.