Il guarany/Parte Prima/Capitolo II

Parte Prima - II. Un antico fidalgo

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José de Alencar - Il guarany (1857)
Traduzione dal portoghese di Giovanni Fico (1864)
Parte Prima - II. Un antico fidalgo
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CAPITOLO II.


UN ANTICO FIDALGO.

L’abitazione che abbiam descritta, apparteneva a don Antonio de Mariz, fidalgo portoghese, e uno dei fondatori della città del Rio de Janeiro.

Era uno dei cavalieri che più si segnalarono nelle guerre della conquista contro l’invasione dei Francesi, e gli assalti dei selvaggi.

Nel 1567 accompagnò Mem de Sà al Rio de Janeiro, e dopo la vittoria riportata dai Portoghesi aiutò il governatore nelle fatiche della fondazione della città, e dell’assodamento del dominio del Portogallo in quella regione.

Nel 1578 fece parte della celebre spedizione del dottor Antonio de Salema contro i Francesi, che si erano stanziati al Capo Freddo per far contrabbando di legno brasile. [p. 9 modifica]

In quello stesso tempo fu provveditore dell’azienda regia, e poi della dogana del Rio de Janeiro; e in questi uffici diè sempre prova di zelo per l’erario e di devozione al re.

Persona di valore, sperto in guerra, attivo, avvezzo a combattere gl’Indiani, prestò grandi servigi nelle scoperte e nelle esplorazioni dell’interno di Minas e dello Spirito Santo.

In ricambio de’ suoi meriti, il governatore Mem de Sà aveagli fatto dono di un pezzo di terreno di una lega situato nel deserto, che egli, dopo aver esplorato, lasciò per molto tempo incolto.

La disfatta di Alcacerquibir e il dominio spagnuolo che le tenne dietro, apportarono un cangiamento nella vita di don Antonio de Mariz.

Portoghese di tempra antica, e fidalgo leale, giudicavasi legato al re di Portogallo pel giuramento di nobiltà, e a lui solo debitore di ossequio e obbedienza.

Quando poi nel 1582 fu acclamato nel Brasile don Filippo II, qual successore nella monarchia portoghese, il vecchio fidalgo rinfoderò la spada e si ritirò dal servizio.

Attese alcun tempo la progettata spedizione di don Pedro de Cunha, che voleva trasferire al Brasile la corona portoghese, collocata allora sul capo di don Antonio suo legittimo erede, priore di Crato.

Vedendo poscia che questa spedizione non si effettuava, e che il suo braccio e il suo coraggio [p. 10 modifica]nulla giovavano al re di Portogallo, giurò serbargli almeno fedeltà fino alla morte.

Prese i suoi penati, il suo blasone, le sue armi, la sua famiglia, e andò a fissare la sua sede in quel feudo, che eragli stato concesso da Mem de Sà.

Quivi, dal luogo eminente su cui accingeasi a piantare la sua dimora, don Antonio de Mariz affacciandosi colla sua decorosa persona, e gettando un’occhiata orgogliosa sui vasti orizzonti che gli s’aprian dinanzi, sclamò:

— Qui sono portoghese! Qui può respirare liberamente un cuore leale, che giammai smentì la fede del suo giuramento. In questa terra, che mi fu data dal mio re e conquistata col mio braccio, in questa terra libera tu regnerai, Portogallo, come vivrai nell’anima de’ tuoi figli. Lo giuro!

Scoprendosi il capo, piegò il ginocchio a terra, e stese la mano destra sopra l’abisso, i cui echi addormentati ripeterono in lontananza l’ultima frase di questo giuramento prestato sull’altare della natura, in faccia del sole che tramontava.

Questo avveniva nell’aprile del 1593; il giorno appresso cominciarono i lavori per la costruzione di una piccola abitazione, che servì di dimora temporanea, finchè gli artisti venuti dal regno eressero e decorarono la casa che già conosciamo.

Don Antonio aveasi fatto un buon patrimonio nei primi anni della sua vita di ventura; e non tanto per capriccio di cavalleria, quanto per [p. 11 modifica]riguardi verso la sua famiglia, procurò di dare a questa casa, fondata nel mezzo di un deserto, tutto il lusso e tutti i comodi possibili.

Oltre le spedizioni, che facea periodicamente alla città del Rio de Janeiro, per comprar oggetti e merci di Portogallo, che permutava co’ prodotti del suolo, avea pur fatto venire dal regno alcuni intendenti d’arti e agricoltori; i quali si giovarono dei vantaggi che offriva quella natura sì ricca per provvedere i suoi abitanti di tutte le cose al vivere necessarie.

Di tal modo la casa era un vero castello di fidalgo portoghese, all’infuori dei merli e del barbacane, di cui facea le veci quel muro di roccie inaccessibili, che offrivano una difesa naturale e una resistenza inespugnabile.

Nel sito in cui si trovava, ciò era necessario a cagione delle tribù selvaggie, che, quantunque si ritirassero sempre dalle vicinanze dei luoghi abitati dai coloni e si internassero nelle foreste, aveano tuttavia in costume di far correrie e assaltare i Bianchi a tradimento.

Per lo spazio di una lega intorno la casa non ci avea che alcune capanne, ove dimoravano dei poveri avventurieri, bramosi di far prontamente fortuna, e che si erano indotti a stabilirsi in quel luogo, in drappelli di dieci o venti, per poter più facilmente esercitare il contrabbando di oro e pietre preziose, che andavano a vendere sulla costa.

Costoro, non ostante le cautele che usavano [p. 12 modifica]contro gli assalti degli Indiani, col far steccati e riunirsi l’un l’altro per difesa comune, nei casi di pericolo venivano sempre a ripararsi nella casa di don Antonio de Mariz, la quale facea perciò l’ufficio di un castello feudale dell’età di mezzo.

Il fidalgo li riceveva da persona doviziosa, debitrice di protezione e asilo a’ suoi vassalli; li soccorreva in tutte le loro necessità, ed era stimato e rispettato da tutti quelli, che confidando nella sua vicinanza andavano a stabilirsi in quei dintorni.

Oltre gli avventurieri, il più prossimo abitante di quel luogo era un cavaliere portoghese, Marco de Costa, amico di don Antonio, che avea posta la sua dimora a tre leghe di distanza sulle rive del Parahyba.

Di tal modo, in caso di assalto da parte degli Indiani, gli abitanti della casa del Paquequer non potevano far assegnamento che sulle proprie forze; e a quest’uopo don Antonio, come uomo pratico e assennato, erasi premunito contro qualsivoglia occorrenza.

Come tutti i capitani di scoperte in quei tempi di colonizzamento, teneva anch’egli una banda di avventurieri, che gli servivano nelle sue esplorazioni e correrie nell’interno del paese: erano uomini audaci, imperterriti, che accoppiavano la forza e l’industria della gente incivilita all’astuzia e all’agilità degli Indiani; erano una specie di guerrilheiros, soldati e selvaggi ad un tempo.

Don Antonio de Mariz, che li conosceva, avea [p. 13 modifica]stabilito fra loro una disciplina militare rigorosa, ma giusta; la loro legge era la volontà del capo; il loro dovere, l’obbedienza passiva; il loro diritto, una parte uguale nella metà dei guadagni.

Nei casi estremi, la decisione era pronunciata da un consiglio di quattro, presieduto dal capo; ed eseguivasi senz’appello, senza ritardo, senza esitazione.

Per la forza adunque della necessità il fidalgo erasi costituito signore di corda e coltello, di alta e bassa giustizia entro i suoi dominii; devesi però dichiarare che rare volte avea fatto una stretta applicazione di questa legge rigorosa; la severità operava soltanto l’effetto salutare di serbar l’ordine, la disciplina e il buon accordo.

Quando veniva il tempo della vendita dei prodotti, che era sempre prima della partenza dell’armata di Lisbona, metà della banda degli avventurieri andava alla città del Rio de Janeiro; facea mercato e acquisto delle cose necessarie, e al ritorno rendeva conto d’ogni cosa.

Una parte dei guadagni spettava al fidalgo, nella sua qualità di capo; l’altra era distribuita in parti uguali ai quaranta avventurieri, che la ricevevano in danaro o in oggetti di consumo.

In questa maniera, quasi nel mezzo del deserto, vivea sconosciuta e ignorata questa piccola comunità di uomini, governantesi colle sue proprie leggi, co’ suoi usi e costumi; unita insieme per l’avidità del guadagno, e legata al suo capo pel rispetto, l’abito dell’obbedienza, e per quella [p. 14 modifica]superiorità morale, che l’intelligenza e il coraggio esercitano sopra le moltitudini.

Per don Antonio e i suoi compagni, che gli avean giurato fedeltà, questa regione del Brasile, questo pezzo di deserto, non era se non un frammento del Portogallo libero, della loro patria primitiva; quivi solo riconosceasi come re il duca di Braganza, legittimo erede della corona; e quando si facevano scorrere le cortine del seggiolone della sala, le armi che si vedevano, erano quelle del Portogallo, al cui cospetto tutte le fronti si chinavano.

Don Antonio avea adempito al suo giuramento di vassallo leale; e colla coscienza sicura di aver fatto il proprio dovere, colla soddisfazione che infonde negli uomini il comando assoluto, ancorchè in un deserto, attorniato da’ suoi compagni, che considerava come amici, vivea felice in seno della sua famigliuola, che non contava più di quattro persone.

Queste erano: donna Lauriana, sua moglie, dama paolista, imbevuta di tutti i pregiudizi della nobiltà e di tutti gli abusi religiosi di quel tempo; in fondo di buon cuore, benchè un poco egoista; ma non tanto che non fosse capace di un atto di generosità.

Don Diego de Mariz, suo figlio, che dovea più tardi continuare la professione del padre e succedergli in tutti gli onori e privilegi; ancor adolescente, nel vigor dell’età, era allora quasi sempre assente, e si occupava in correrie, o dimorava nella città del Rio de Janeiro. [p. 15 modifica]

Donna Cecilia, sua figlia, dell’età d’anni diciotto, che era la dea di quel piccolo mondo, che illuminava col suo sorriso, e allegrava colla sua indole vivace, piena di vezzi e di grazie.

Donna Isabella, sua nipote, che i compagni di don Antonio, ancorchè nol dicessero, sospettavano fosse il frutto degli amori del vecchio fidalgo con un’Indiana, fatta cattiva in una delle sue esplorazioni.

Mi trattenni in descrivere la scena del paese e parlare di alcuni dei principali personaggi di questo racconto, perchè ciò era necessario a comprendere gli avvenimenti che in appresso seguiranno. Lascierò che gli altri si disegnino da loro medesimi.