Il buon cuore - Anno XI, n. 07 - 17 febbraio 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XI, n. 07 - 17 febbraio 1912 Religione

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Poeti e Poesia

Accade alla Poesia (scriviamolo con la P maiuscola, per quel rispetto che si deve serbare alle signore decadute) un fatto singolare. La gente non se ne occupa, d’ordinario; nè di lei, nè di quella scarsa brigata che le sta intorno: qualche gran signore di razza dell’intelletto, che si mantiene fedele con ardente devozione al suo grande amore dei begli anni, onde ha I’ anima ancora accesa e inebriata, e qualche giovane vieux style, di gusti eccezionali, che s’è lasciato prendere al fascino di quella maliziosa bellezza, e ne ha il cuore in tumulto, e prosegue il sogno di questo suo folle amore perdutamente, e tutto intorno gli si trasfigura secondo l’alterno gioco delle sue brevi gioie e delle sue profonde malinconie.

Pure, talvolta, un improvviso movimento di curiosità turba la nobile quiete che cinge l’altera Signora e i suoi fidi. A qualche ozioso vien voglia di guardare che cosa fa la strana compagnia, e poi ne chiede conto rumorosamente, con un fosco cipiglio d’accusatore; qualche antico amico oblioso è punto dalla nostalgia della bella voce musicale, e poi dice che essa s’è velata o arrochita; qualcuno canta nella nobile casa remota, con vibrato accento di passione, e la folla si sofferma allora ad ascoltare, non sai se più ammirata o stupita, ma poi insorge tumultuando perchè non vi si canta così tutti i giorni.

Dicevo che ciò è strano; ma poichè bisogna, sempre e sopratutto, guardare a quel che è, non è forse inutile fermarsi un momento ad esaminare quanto ci sia di vero in certi atti d’accusa che il giudizio del pubblico formula da qualche tempo contro l’opera dei nostri poeti, insistentemente.

— E’ vero, voglio dire, che la poesia italiana sia in un periodo di grave decadenza? E’ vero che il canto dei nostri poeti sia immensamente lontano (e forse per deliberato disdegno) dall’anima collettiva di cui dovrebb’essere la più nobile espressione?

Già questa seconda maniera di formulare la domanda dà per risoluta in senso positivo una questione, che potrebbe invece vivamente dibattersi. Ma lasciamo andare; e cerchiamo una risposta, tenendo conto degli elementi reali piuttosto che di astratte preoccupazioni teoriche.

Il fenomeno letterario, infatti, non può essere arbitrariamente isolato dalle reali condizioni dell’ambiente in cui si produce, le quali, se non tutte a determinarlo, influiscono senza dubbio, in varia misura e in complessa maniera, sui modi e sui caratteri delle sue manifestazioni. In un determinato momento storico, e in ambiente determinato, possono bensì esservi delle condizioni più o meno favorevoli allo sviluppo d’una particolare forma d’arte letteraria; ma l’esame di cotesta espressione artistica non può essere onestamente fatto se non al lume o alla stregua di criteri puramente estetici, quando si tratta di giudicarla dal punto di vista artistico. Noi potremo giudicare civilmente fiacca un’epoca e una nazione in cui la letteratura sia priva d’un alto contenuto ideale, e potremo di questa fiacchezza ricercare le cause nella decadenza politica o morale, ma potremo, tuttavia, trovarci di fronte ad opere d’arte di eccellente fattura, le quali potranno anche testimoniare d’una più fine educazione del gusto e d’una più sicura padronanza dei mezzi dell’espressione artistica. Giudicare, insomma, della qualità d’una produzione d’arte dalla qualità della inspirazione che l’ha determinata, significa porre a base del proprio giudizio un equivoco, concernente la scelta del criterio e perciò sostanziale.

Or a me pare che questo equivoco appunto faccia così veramente giudicare dai più la nostra poesia [p. 50 modifica]contemporanea. Con questo, per altro: che essa è perfettamente rispondente, io credo, ai nostri atteggiamenti spirituali e questi attestano una vigorosa forza di rinascita anzi che una decadenza.

Noi siamo in un interessantissimo periodo di elaborazione interiore. Trent’anni fa, all’incirca, e forse per alcuni rispetti la data potrebbe anche spostarsi in avanti, parve che il pensiero umano fosse definitivamente pervenuto alla conquista di alcune verità, sulle quali potesse oramai adagiarsi in tranquillità secura. Era stato, veramente, tutto un faticoso lavoro di distruzione, uno scrollo violento a tutte le credenze tradizionali. Il positivismo scientifico s’illuse di aver proclamato il suo imperio assoluto in tutto il mondo del pensiero moderno: e bandiva il metodo sperimentale come l’unica sorgente di verità anche nello studio dei fenomeni sociali; il determinismo, posto come assioma fondamentale in filosofia, dava la linea ai nuovi sistemi eticosociali; nella scienza economica nutriva di se la dottrina socialista, che diveniva intanto culminante espressione del pensiero politico democratico; nella scienza giuridica mutava radicalmente le basi del diritto e il fondamento stesso della responsabilità penale.

La letteratura si risentì anch’essa, naturalmente, del nuovo orientamento del pensiero contemporaneo: fiori la novella realistica e il romanzo «sperimentale»; e si determinarono, in poesia, due correnti, immensamente dissimili nella forza e nella forma dell’espressione artistica, ma pure in certo modo affini nella loro scaturigine prima; da un lato la reazione neo-classica del Carducci, dall’altro la bolsa enfasi retorica dei «bardi» novelli, dei «vati» della nuova coscienza bardi umana: Rapisardi, Cavallotti, i profeti del romanticismo democratico.

Senonchè queste stesse poderose armi di cui l’indagine scientifica s’era servita per ferire a morte le teoriche tradizionali, ecco che a poco a poco cominciano un lento, sottile, ma continuo lavorio che mina le fondamenta delle nuove costruzioni.

La critica e l’analisi cominciano a poco a poco ad esercitarsi implacabilmente sulle stesse assiomatiche verità proclamate come definitive conquiste del pensiero scientifico; l’assoluta certezza di ieri scade oggi nella probabilità dell’ipotesi; l’indagine sperimentale segna a se stessa dei limiti, oltre i quali confessa di non poter giungere, di non poter nulla affermare, ma di non poter nulla negare, egualmente; e le verità tradizionali, negate ieri con così veemente ardore, eccole alfine riprese in esame, riportate all’onore della discussione, nuovamente arridenti col loro fascino luminoso allo spirito umano improvvisamente nostalgico d’idealità.

Solo una cosa rimane, verità viva ed augusta ma è un palpitante fatto umano, non un’incerta costruzione teorica: l’elevazione civile delle plebi. Ma essa, per esser già appunto pervenuta a un considerevole grado di attuazione, è uscita da tempo da quel periodo di vago idealismo sentimentale, che le procurò (buoni o cattivi che fossero, tra noi), i suoi poeti. Materia di poesia non sono che le aspirazioni o i ricordi, perchè l’esaltazione fantastica, elemento essenziale del fenomeno poetico, ha bisogno di essere affrancata dagl’immediati rapporti della realtà.

Or i giovani poeti d’Italia rispecchiano perfettamente l’anima del nostro tempo. Anima nostalgica e pensosa, intimamente raccolta nella trepida indagine di se stessa, essa è tornata a ricercare ansiosamente la verità spirituale che l’appaghi e la pacifichi: la ricerca entro se stessa, spiando le sue segrete predilezioni, i suoi nostalgici rimpianti, il senso di tenero struggimento che le dà il pensiero del lontano passato sereno, e cogliendo e fermando nel suo breve giro quei barlumi di verità che a volta a volta le balenano; la chiede all’inconsapevole saggezza delle cose, che furono e che saranno al di fuori delle complesse e vane preoccupazioni umane, e ad esse si accosta con rinnovata semplicità, e si svolge alla Natura con un senso di virgiliana reverenza e di simpatia francescana.

E’, per conseguenza, una poesia essenzialmente lirica che predilige le forme metriche più brevi e più delicate, e ripiglia qualche antico ritmico pieno d’accorata musica scadente; una poesia, vorrei dire, che ama ascoltarsi, perchè è sopratutto fatta d’un’appassionata intraspezione; e gli accenti sonori le sono ignoti perchè fino ad oggi almeno non ebbe guerrieri da sospingere alla vittoria nè plebi più alla riscossa: vive d’anima e s’accende di pura e pallida luce interiore. Poesia in tono minore certamente: ma perchè sboccia dall’alto silenzio che si fa intorno all’anima nostra, quand’essa parla con se stessa.

Ma l’anima che interroga e saggia se stessa è sempre in uno stato di grande elevazione spirituale.

Guido Raimondi.

I CANI ALLA GUERRA

Se la guerra è una necessità alla quale non è possibile sottrarsi, è dovere degli Stati belligeranti renderla più rapida e più umana. In altre parole deve essere precipuo miraggio quello di adoperare ogni mezzo per raggiungere il fine nel più breve termine possibile, e, al tempo stesso, mirando alla vittoria e alla pace che ne consegue, risparmiare quanto più sia possibile, la vita umana.

L’Italia, impegnandosi in guerra con la Turchia sul suolo africano, è stata per sua ventura, la prima fra le nazioni europee a usare di quanto la scienza della guerra ha escogitato in questi ultimi anni, per conseguire la vittoria nel più breve termine possibile e col minimo sacrificio della vita umana.

Senza dire del completo e confortante equipaggiamento delle truppe, senza dire della perfetta e rapida organizzazione del servizio sanitario, senza dire di cento altri piccoli dettagli che il popolo ignora e che per la prima volta sono sperimentati in guerra, basta [p. 51 modifica] ricordare l’uso degli aeroplani e quello dei dirigibili per convincersi che le battaglie odierne si combattono e si vincono con mezzi ben diversi da quelli in uso quando la guerra era nelle consuetudini di ciascun popolo alacre e vigile dei suoi destini.

Ora ai tanti mezzi ignoti ai prodi guerrieri antichi, un altro se ne aggiunge sul quale si fa il più grande affidamento: il cane.

Quando a Roma, nei giorni scorsi, venti cani, accompagnati dai loro educatori, si avviarono alla stazione, diretti a Napoli, il popolo non nascose il suo stupore. Egual meraviglia suscitò la breve scolta quando attraversò le vie di Napoli, con quella gioconda irrequietezza che segue ai lunghi periodi di inerzia. Il popolo vedeva passare i venti cani alti e robusti, dal pelo rosso nerastro, con la testa grossa, pelosa, simile a quella dell’orso nero, con la bocca aperta e armata da potentissimi denti e aguzzi, sapeva che erano diretti alla guerra e si domandava a che cosa potessero giovare, se non a lanciarli, dopo averli affamati, contro i polpacci dei turchi. Magra risorsa, osservava il popolo, quando si posseggono mezzi molto più efficaci per gettare lo scompiglio e la morte nel campo nemico.

Tanta sorpresa era legittima, poichè pochi conoscono i servigi che il cane può rendere in guerra.

Le meravigliose qualità del cane, il suo fiuto, la sua intelligenza, la sua devozione all’uomo, sono state molte volte utilizzate per la preservazione della vita umana. Chi non conosce l’ammirevole cane del San Bernardo educato dai religiosi a rintracciare nella notte e nella neve i viandanti sperduti? Chi non sa quante vite umane hanno essi salvate? Ebbene, in tempo di guerra il cane è ancora più utile: esso diviene un sagace informatore, un guardiano vigile, un aiuto possente e instancabile.

L’Italia non impiega per la prima volta il cane alla guerra. Ne usarono già i francesi in Algeria e nel Messico e ne usò ultimamente il Giappone nella guerra contro la Russia. Innumerevoli volte i soldati dovettero al fiuto dei cani che li accompagnavano di poter sfuggire a sanguinose imboscate.

L’educazione del cane per la guerra rimonta al 1888 e pare sia stata tentata primieramente dalla Francia. Si costituì allora una pattuglia di cani informatori destinata a servire nelle ricognizioni di fanteria. Nelle manovre essa precedeva il grosso dell’esercito, correndo in ogni senso, esplorando ogni accidentalità del terreno. La notte essa era a guardia degli avamposti, poichè l’acuità del suo senso permette al cane di percepire i più leggeri rumori che sfuggono all’orecchio umano. In seguito si pensò a utilizzare i cani per il trasporto delle munizioni e per la trasmissione degli ordini sul campo di battaglia.

Come staffetta, il cane è particolarmente prezioso: esso può percorrere tre chilometri in meno di cinque minuti e può fare, inoltre, ciò che non è consentito al cavallo, scalare monticelli di terreno friabile, discendere precipizi a picco, saltare, internarsi in folte boscaglie, esplorare sotterranei e buche anguste e profonde.

In una delle ultime manovre francesi, una compagnia in ricognizione, composta di pochi soldati di fanteria accompagnata da cani di guerra, esplorò una regione ascosa in concorrenza con un gruppo di cavalleggeri.

I cani trasmisero la notizia dello approssimarsi del nemico trentacinque minuti prima della cavalleria.

Ma è dopo la battaglia che il cane diventa ancora più utile: è allora ch’esso è per l’uomo un ausilio incomparabile nella ricerca e nel soccorso dei feriti.

Pensate, infatti, a ciò che è la guerra moderna. Con le antiche regole di combattimento i soldati erano disposti in linee, su terreni scoperti, stretti l’uno all’altro e i feriti si trovavano così raccolti in uno spazio abbastanza ristretto, nel quale era facile trovarli e raccoglierli. Ma nella guerra odierna, l’ordine sparso, necessario per offrire minor bersaglio alle spaventevoli devastazioni dell’artiglieria e dei fuochi a salve dei fucilieri, sparpaglia i combattenti su una vasta zona, li dissimula dietro le dune, nei boschetti, nei fossati. Quelli che cadono colpiti sono lontani dagli altri e assai spesso restano nascosti dal riparo che avevano scelto e che non è valso a salvarli. Il compito dei soldati della sanità è, in tal modo, difficile e non esclude che qualche ferito possa rimanere abbandonato senza soccorsi, perchè non è possibile ritrovarlo.

E’ in tal caso che il cane può rendere segnalati servizii, sol che si provveda a sviluppare, con una acconcia disciplina, il suo istinto che lo guida verso il punto in cui giace un ferito.

Io non so se i cani mandati a Tripoli dal governo italiano sieno addestrati a questo pietoso lavoro come a quello di messaggi, scoprire il nemico, rintracciare armi e munizioni. Ho buone ragioni, però, per credere che non sia stata trascurata questa importante funzione che il cane può compiere, come si è fatto già dai giapponesi e dai tedeschi.

In Germania, difatti, il servizio dei cani di ambulanza, è da parecchi anni definitivamente organizzato.

Ciò che si è ottenuto dal cane è che fra tutte le accidentalità del vasto campo di battaglia, esso scopra il ferito e lo segnali alla ambulanza. Tutto, nella sua educazione, deve avere per iscopo di abituarlo a questo compito.

Il cane viene munito d’un particolare corredo che consiste in un sacco a due tasche posato sul suo dorso e fissato con una cinghia intorno al corpo. Una delle tasche contiene un po’ di nutrimento e una bottiglia piena di un cordiale, l’altra delle bende chirurgiche. Sul sacco è disposta una copertura la quale reca su fondo bianco il segnacolo della pietà: la croce rossa.

Così equipaggiato, e dopo una certa pratica fatta sui campi di manovra, il cane è pronto a rendere i suoi servigi in guerra. Dopo una battaglia esso viene slanciato alla ricerca di quei feriti che potrebbero essere rimasti occultati all’occhio della Sanità dalle asperità del suolo o dalla abilità stessa del soldato nel cercarsi un rifugio da cui colpire non visto. I cani vanno, vengono, corrono in ogni senso, con la testa bassa, fiutando il terreno, esplorando ovunque. Quando hanno scoperto una pista si slanciano e giungono presso al [p. 52 modifica] ferito, il quale se è lievemente colpito apre il sacco che porta il cane, prende un po’ di cibo se ha fame, ingoia qualche goccia del cordiale e medica sommariamente la sua ferita con le bende che il cane gli reca. L’animale resta presso di lui e abbaiando richiama l’attenzione dei portaferiti che sopraggiungono a raccoglierlo. Al contrario se l’uomo non fa alcun movimento in pochi salti il cane si precipita verso la ambulanza a significare, con guaiti, che un pronto soccorso è necessario.

Nelle ultime manovre tedesche su duecento finti feriti i cani ne segnalarono 80 in un quarto d’ora. Quattro cani di ambulanza, durante una manovra notturna, in una foresta interrotta da profondi fossati, riuscirono a scoprire in pochi minuti una ventina di soldati che vi si erano nascosti, molto lontano l’uno dall’altro. Le buone bestie per farsi seguire nel buio della notte dai soldati della Sanità, avevano al collare un campanello.

Ogni reggimento tedesco ha la sua scorta di cani di ambulanza e molte sezioni della Croce Rossa tedesca, ora al servizio dei turchi hanno delle pattuglie organizzate di cani infermieri.

Ora, torno a dire, io non so se la bella e irrequieta scolta di cani che viaggia verso la terra di Tripoli sia destinata anche al servizio di ambulanza, oltre che a quello di ricognizione e di polizia. Ma se per caso quei venti «amici dell’uomo» fossero educati più alla ferocia verso il nemico che alla pietà verso il caduto varrebbe la pena di ritornare sulla loro educazione dopo i preziosi risultati ottenuti altrove. Tutto bisogna tentare per rendere impossibile il dramma atroce del soldato che si è valorosamente battuto e che raggiunto da una palla agonizza senza soccorso sul campo di battaglia.

Pasquale Parisi.

Gli ultimi giorni di Heine

nei ricordi del fratello


Quando in Italia si dice e si ripete che l’autore del Buch del Leider e cioè l’ultimo e più singolare poeta della Germania romantica, ancor oggi, a mezzo secolo dalla sua morte, è misconosciuto, disprezzato, odiato dai suoi connazionali si dice e si ripete cosa che non collima gran fatto con la realtà.

Non nego già che manchino le prove a suffragare una simile opinione. Senza rivangare l’ormai trito aneddoto del simulacro del poeta espulso da Guglielmo II dall’Achilleion di Corfù, dove l’aveva alzato, in cospetto dell’azzurro Jonio, l’imperatrice Elisabetta, basta aprire il libro recente d’un critico tedesco assai stimato, il Bartels (Deutsche Dichtung der Gegenwart, Leipzig) per trovare giudizi di questa sorta: «Heinrich Heine è l’individuo più nefasto che sia passato, non dico nella letteratura ma nella vita tedesca»; basta ricordare le peripezie del monumento a Heine pel quale solo adesso pare che a Düisseldorf sua patria si siano ottenuti i pochi metri quadrati di terreno necessari, e accennare al casetto di quel discorso inaugurale fresco di ieri nel quale l’oratore, citando un noto passo della Harzreise, si astenne dal fare il nome dell’autore per non offendere le orecchie del sovrano presente.

Ed altro ed altro si potrebbe addurre che però dimostrerebbe per Heine, un’ostilità ufficiale, e un’avversione che ha origine in un rancore che non sa perdonare, sentimento comune a tutte le comparse della tragicommedia umana.

Ma fuori delle sfere ufficiali e presso quanti sanno leggere nella profondità dell’anima umana, Heine vien giudicato con maggiore serenità e obiettività.

Lascio stare a conforto di quel che afferma il Heine-Kalender che ogni anno vien fuori a Lipsia: quale è l’uomo due dita più su della media che non abbia in Germania la sua chiesuola di fanatici, il suo editore-piovra, il suo bravo almanacco-réclame? Ma anche un passeggero contatto col popolo soprattutto e con le persone cui la cultura non appesantì lo spirito, è sufficiente per convincersi che il poeta è assai più vivo nel cuore dei vivi di molti altri numi dell’olimpo letterario, teutonico.

Forse è l'elegiaca-sentimentale la corda della sua lira che strappa maggior consenso e suscita maggiori simpatie? Forse: non certo quella dell’ironia viperina, del humour mefistofelico in cui risiede purtroppo gran parte della sua fama. Quale che ne sia la causa, è certo che I’ opinione che pretende Heine misconosciuto e ignorato dai suoi connazionali va relegata fra le voci leggendarie.

Il medesimo deve oggimai ripetersi di quanto sin qui correva intorno ai rapporti di Heine co’ suoi e in particolar modo col fratello Gustavo. Non senza colpa di alcuni parenti questi rapporti furono creduti nient’affatto fraterni, anche da alcuni illustri heinieni, quali, per esempio, il dott. G. Harpeles autore delle note opere: H. Heine und siene Zeitgenossen e H. Heines Memoiren.

Il Karpeles, che dedicò metà della sua vita allo studio del poeta prediletto, cominciò però a poco a poco, attraverso le sue ricerche, ad avere dei dubbi. Avuta occasione nel 1907 di conoscere il barone Maximilian von Heine-Geldern, figlio di Gustavo Heine ed unico superstite nipote del poeta, ottenne dalla sua signorile liberalità di poter esaminare le lettere e le altre carte del prezioso archivio domestico.

E con sua grande soddisfazione toccò presto con mano che i suoi dubbi erano giustificatissimi; che non meno della madre, della sorella, del più piccolo Max, il poeta amò il fratello Gustavo (il quale liquidata la sua azienda commerciale, si era stabilito nel 1829 a Vienna, dove col cognome materno percorse con fortuna la carriera militare); che la lontananza non portò alcun raffreddamento nei loro sentimenti reciproci: al contrario!

Quel ramo della Heine-Literatur che è costituito dalle cosiddette Familienpublikationem era già ricca. (Ricorderò tra parentesi e per ordine cronologico: Max Heine: Erinnerungen an H. Heine und seine Familie, 1868; principessa Marie della Rocca: Erinnerungen [p. 53 modifica] an H. Heine, 1881; Skizzen über H. Heine, 1882; barone Ludwig Embden: H. Heines Familienleben, 1892).

Forse a questi libri avrei dovuto aggiungere quello della moglie dell’esecutore testamentario del poeta, cioè i Souvenirs di M.me Caroline Jaubert. Senza dubbio vi si devono aggiungere ora le Heine-Reliquien (Berlin, K. Curtis) che, raccolte ed illustrate amorosamente dal Karpeles, sarebbero forse rimaste ancora inedite senza la premura del sullodato barone von Heine-Geldern, il Karpeles essendo morto all’improvviso nell’estate 1909. Con esse il ramo già mentovato della letteratura heiniena fa un acquisto assai ragguardevole.

Il grosso volume, adorno fra l’altro d’un bellissimo ritratto di Heine giovane ricavato da una sconosciuta miniatura del Colla, contiene ventisei lettere al fratello Gustavo; nove alla madre; una alla moglie; tre all’amico Friedland. Questo per la prima parte.

Heine nè parlò nè scrisse mai lettere per uomini celebri che scapitano invece dí guadagnare, ai privati egli fu anzi contrario. Gli è perciò che, al pari delle altre già date in luce, pure queste nuove lettere da Parigi recano in modo sorprendente l’impronta del suo spirito. Ma come nel comporre una lettera egli mise di solito la stessa cura che negli scritti destinati al pubblico così non fa maraviglia che nessun divario di stile interceda fra l’epistolografo e il novelliere o il poeta.

Qualcuno ha asserito che Heine è di quegli uomini celibri che scapitano invece di guadagnare osservati alla luce delle loro carte intime. Niente di più ingiusto. Queste ventisei lettere, per esempio, al fratello Gustavo non solo sfatano la brutta leggenda cui sopra ho accennato, ma insieme con quelle alla madre, alla moglie, all’amico, riconfermano la natura schietta e affettuosa del suo carattere, le sue inclinazioni generose.

Non tutto in esse, di prim’acchito almeno, la buona impressione: accanto a molto brio, molta tenerezza, molta poesia non pochi lamenti e querele ed accapigliature. Per il quale meglio che per tanti altri vanno ricordate le parole di madama de Staèl in Corinne di solito inesattamente citate: «»Alles richtig verstehen macht uns nachsichtig — comprender tutto a dovere ci rende indulgenti».

La seconda parte del volume abbraccia una lunga serie di lettere a Heine interessanti, anche perchè ci provano di quali estese e preziose simpatie godesse l’autore del Romanzero, sì in Germania che in Francia.

Particolarmente notevoli sono quelle dello zio Salomon, di Karl Immermann, di Karl Gutzkow, di Christian Andersen, di Giacomo Meyerbeer, di Hector Berlioz, della principessa Cristina Belgioioso, della Mouche (Camille Selden). In appendice il volume ci offre, tra l’altro, l’introduzione ai Gótter im Exit e la descrizione delle ultime ore di Heine dovuta alla penna del fratello soldato.

Appunto a questa volevo arrivare.

Dalla nipote principessa Maria della Rocca, da Caroline Jaubert e dalla Selden avevano appresco commoventi particolari del moribondage del poeta. Quello però che ne aveva scritto Gustavo Heine-Geldern era rimasto sin qui in parte inedito, in parte sepolto nelle collezioni del Fretndenblatt di Vienna come già la relazione di Alfred Meismer in quelle della Deutsche Zeilung aus Böhmen.

Il 17 agosto del 1851, e cioè dopo oltre un ventennio di separazione, Gustavo Heine rivide finalmente il suo Harry. Lo rivide nella sua tomba di materasse dove giaceva sprofondato da tre anni, paralizzato per metà e stordendosi con l’oppio per reggere ai dolori che lo martoriavano (e tuttavia, nei momenti di tregua sempre dell’antico gaio umore), il volto inalterato sebbene dimagrito un poco.

Parlarono insieme a lungo i due fratelli di cose fa miliari, di religione, di politica.... E allorchè la moglie di Gustavo (Emma Kann von Albert), rimasta fuori della camera, entrò accompagnata da Juliette, di statura a lei discretamente superiore, il poeta le strinse la mano e, sollevando con l’indice la palpebra dall’occhio destro, con lo stesso fare biricchino di quando voleva vedere l’effetto dei suoi frizzi nella faccia di chi lo ascoltava: «Ah, fratello!» esclamò, «tu sei stato più furbo di me: tu ti sei presa del male la parte più piccola!» Ma afferrò subito la mano della sua Juliette e la baciò con indicibile tenerezza.

Alla vigilia della partenza Gustavo andò di nuovo a trovarlo, e per evitare un doloroso distacco gli promise che sarebbe tornato pure l’indomani. Ma il poeta comprese lo stratagemma, e consegnatogli il manoscritto del Romanzero perchè lo portasse ad Amburgo all’editore Julius Campe, gli disse: «Vieni, se vuoi, a dirmi addio, ma torna pure presto a Parigi. Non temere: per adesso non muoio: ho ancora troppo da lavorare; devo ordinare l’edizione completa delle mie opere come ho promesso al Campe. Tu lo conosci: prima egli non mi lascerà morire!».

E così avvenne. Nel novembre del 1855, accompagnato questa volta non dalla moglie ma dalla sorella Charlotte. Gustavo fece ritorno a Parigi. Il poeta aveva cambiato casa: dalla rue d’Amsterdam era andato ad abitare ad un quarto piano dell’Avenue Matignon. Quivi le sue condizioni di salute erano divenute sempre peggiori. Qualunque più piccolo rumore e perfino la luce del giorno gli davano terribile molestia. Le stanze attigue al suo souffroir era necessario restassero sempre vuote.

L’impressione che il suo stato fece alla sorella e al fratello fu delle più penose. Gustavo non riuscì ad aprir bocca; Charlotte proruppe in pianto. Egli, per rianimarli, evocò i più cari ricordi della fanciullezza, tanti non nulla che sembrava impossibile fossero rimasti cosi vivi nella sua memoria. Come però la sorella si fu ritirata, «sbrighiamoci Gustavo», disse «ad accomodare i nostri affari, che con un malato come me non c’è tempo da perdere».

Una mattina che soffriva anche più del consueto, incominciò nondimeno a discorrere col fratello delle cose più serie. Ad un tratto s’interruppe e mutando argomento, esclamò: «Tu mi conosci meglio di tutti. Scrivi la mia biografia. Io ti aiuterò».

[p. 54 modifica] «Ma è di Heinrich Heine che si tratta! ed io posso fornirti la sua biografia solo se tu me la detti dalla prima parola all’ultima».

«Hai ragione. Ma io stesso non scriverò mai nulla sul corso della mia vita. Le autobiografie rassomigliano a vecchie donne che si ringiovaniscono con denti finti, capelli posticci e gole imbellettate».

Il 1 novembre Gustavo e la sorella lasciarono Parigi fidandosi delle assicurazioni dei medici. I medici però l’indovinarono come sempre.

Col sopravvenire dell’inverno la malattia rincrudì in modo spaventoso, il poeta fu presto ridotto agli estremi.

Il 13 febbraio 1856, un mercoledì, egli lavorò, nonostante tutte, sei ore intere. Caterina Bourlois, la fedele infermiera, lo supplicò di riposarsi.

«Mi bastano ancora quattro giorni — le rispose: — poi avrò finito».

Il giorno seguente fu assalito da un terribile dolor di capo. — Una delle solite emicranie — si pensò. Ma il poeta con indicibile rammarico gemette a più riprese: «Povera mamma mia, io non ti potrò più scrivere!». Il venerdì mattina fu dovuto mandare in fretta per il medico. La morte s’avvicinava a grandi passi. Sabato sera manifestò alla Bourlois la sua contentezza d’aver riveduto la sorella e il fratello. Poi aggiunse con un fil di voce: «Scrivere!». L’infermiera capì che il suo pensiero tornava alla madre e gli rispose: «Sì, le scriverà lei stesso!». E il poeta: «Ah! Caterina, io muoio!».

Un poco più tardi l’infermiera cercò di fargli bere la pozione ordinata dal medico. Egli vi si rifiutò: «Sta tranquilla. Dirò io stesso al dottore che non l’ho voluta prendere. Cosa possono ormai concedermi più le medicine?».

Furono le ultime sue parole.

Alle quattro e tre quarti della domenica, albeggiando appena il giorno, il lungo martirio di Heinrich Heine era terminato.

Anche da questi ricordi del fratello, come dalle lettere del poeta, la figura di Heinrich Heine esce dunque modificata, direi quasi rettificata. Molta parte di quanto di odioso le avevano aggiunto le polemiche suscitate dalle sue opere, le ire da lui accese nel petto di avversari accanitamente, e troppo spesso ingiustamente colpiti, va cadendo col trascorrere del tempo, si va riducendo a proporzioni più vicine al vero. Anche gli ultimi giorni della sua vita — dei quali con troppa ed esclusiva compiacenza si ricordano solo quei tratti che meglio scolpiscono il lato più noto della sua personalità, l’ironia mefistofelica — li scorgiamo nei ricordi del fratello illuminati da un raggio di tenera affettuosità, più umani, più veri. Troppo manca a queste sue ultime ore perchè agli occhi di chi guarda in alto non appariscano tristi e sconsolate; ma ci conforta il sapere che l’uomo, il quale è presentato unicamente come un freddo schernitore di tutto e di tutti, sentì nella fine, come nel cuore della sua vita, l’impulso buono di un affetto, la mestizia di un’anima che conosceva l’amore.

Giuseppe Sacconi.