Il Trecentonovelle/CLXXXVII

Novella CLXXXVII

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CLXXXVI CLXXXVIII

A messer Dolcibene si dà mangiare una gatta per scherno: dopo certo tempo elli dà a mangiare sorgi a chi gli dié la gatta.

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Molto fanno ridere queste beffe gli uditori, ma molto piú dilettano quelle, quando il beffatore dal beffato riceve le beffe, come in questa si dimostrerrà. Ciascuno puote avere inteso per certe novelle passate chi fu messer Dolcibene. Costui fu invitato a mangiare una volta dal piovano della Tosa, il quale tenea Santo Stefano in Pane, dicendo ch’egli avea un coniglio in crosta. E a questo mangiare vi fu el Baccello della Tosa, e alcun altro che sapea il fatto. E questa si era una gatta, la quale era venuta alle mani del piovano, e messer Dolcibene n’era schifo. Essendo adunque il piovano, messer Dolcibene e altri, fra l’altre vivande recandosi la crosta della gattaconiglio, ella fu sí buona che messer Dolcibene ne mangiò piú che niuno. Come la crosta fu mangiata, e ’l piovano con gli altri cominciano a chiamare: «muscia»; e chi miagolava, come fa la gatta.
Messer Dolcibene, veggendo questo, imbiancòe, come il piú de’ buffoni fanno, e temperossi, dicendo:
- Ell’è stata molto buona -; per non gli fare lieti, e per render loro, come vedesse il bello, pan per cofaccia.
Giammai non gli uscí questo fatto della mente, fin a tanto che venendo la figliatura delli stornelli, de’ quali era molto copioso a un suo podere in Valdimarina, e in quello tempo provvide di pigliare con trappole e con altri ingegni in un suo granaio parecchi sorgi, acciò che gli avesse presti e ordinò con un suo fante che una gabbiata di stornelli gioveni, mescolatovi alcuno pippione, recasse dopo desinare quando lo vedesse col piovano al Frascato, e paresse gli portasse in mercato a vendere, dicendo con lui: «Per quanto volete voi che io gli dia?»
Conoscea messer Dolcibene la natura del piovano e del Baccello, che come gli vedessono, cosí dicessono: «Tu non ci dài mai mangiare di queste tue uccellagioni», e che gli chiederebbono cena.
E cosí proprio intervenne; che giunto il fante, il piovano piglia la gabbia, e disse non renderlila, se non desse loro cena. Di che messer Dolcibene acconsentí, e fessi dare la gabbia, e andonne a mettere in ordine la cena. E giunto a casa, tolse due pippioni e otto sorgi, i quali acconciò per fare una crosta, levando i capi, e le gambe, e’ piedi, e le code, arrocchiandogli per mezzo, sí che nella crosta pareano proprii stornelli; e mescolò due pippioni a quarti tra essi, e della carne insalata, e fece fare la crosta; e ’l fante mandò a vendere l’avanzo.
Giunta l’ora della cena, la brigata s’appresentò a casa messer Dolcibene. Come li vide, disse:
- Voi non manicherete istasera se non della gabbiata che toglieste, sí che non sperat’altro.
E cosí di motto in motto se n’andorono a mensa. E venendo la crostata, dice il piovano:
- Aveteci voi messo alcuno pollastro dentro?
E messer Dolcibene disse:
- La colombaia mia non ne fa; io n’ho fatta una crosta di pippioni e stornelli.
Dice il piovano:
- O da che sono li stornelli? elle son bene delle cene vostre.
Dice messer Dolcibene:
- Io ne mangio tutto l’anno, e sono molto buoni.
Dice il Baccello:
- Sí manichereste voi topi, non vi costass’elli.
E cosí vennono a cavare la vivanda della crosta; e ’l primo che assaggiò di quei topistornelli, fu il piovano, e disse:
- E’ son migliori che io non credea.
Messer Dolcibene s’era messo in coda, che non poteano ben vedere il suo mangiare, e toccava spesso il tagliere, ma poco se ne mettea in bocca, se non un poco di carne salata, facendo di pane gran bocconi. Quando la crosta fu mangiata, sanza fare rilievo di topi, venuta l’acqua alle mani, disse messer Dolcibene:
- Fratelli carissimi, io v’ho dato cena istasera, e convennemi cacciare, e non sanza gran fatica, però che ogni ingegno e arte ci misi per spazio d’uno dí e una notte, acciò che voi stessi bene. Ben vorrei che la cacciagione fosse stata di maggiore bestie, come sete voi; ma piacque alla fortuna, che balestra spesso dove si conviene, che furono topi; i quali da lei messi nelle mie mani, parve che io dovesse dire «Non ti ricordi tu della gatta ch’e’ tuo’ amici ti dierono a mangiare? va’, e rendi loro quello che meritano»; e brievemente per suo consiglio feci fare la crosta, dove tutti quelli che mangiasti per stornelli, furono topi. Se vi sono paruti buoni, sonne contento; se non fossono stati buoni, reputatelo alla fortuna ché di buon grano sono stati notricati, tanto che me n’hanno roso parecchie staia.
Come il piovano e gli altri udirono questo, diventorono che parvono interriati, dicendo quasi con boce sbalordita:
- Che di’ tu Dolcibene?
- Dico che furono topi, e la vostra fu gatta: cosí nel mondo spesso si baratta.
Poco poterono rispondere a messer Dolcibene a ragione, che non gli confondesse; però ch’egli avevono cominciato. E dee ciascuno che vive in questo mondo, recarsi a quella vera legge che chi la seguisse mai non errerebbe, cioè: non fare altrui quello che non vorreste fosse fatto a te. E pur come non istimatori di questa legge, né del primo fallo venuto da loro, s’adirorono forte; e tale disse:
- Dolcibene, e’ ti si vorrebbe darti una coltellata nel volto.
E que’ rispondea:
- A voi sta; che come dalla gatta a’ topi, cosí dalla coltellata alla lanciata anderà: uscitemi di casa; e qualunch’ora voi vorrete de’ miei mangiari, io ve gli darò secondo che meriterete.
E se n’andorono scornati, e co’ ventri attopati. E quello di che mai non si poterono dar pace fu che messer Dolcibene un buon pezzo, dicendo questa novella per la terra, scornava forte costoro; tanto che ’l piovano e gli altri il pregorono non dovesse dir piú; e feciono pace per non essere piú vituperati.
Or cosí interviene a chi non fa mai la ragione del compagno. E se alcuno uomo di corte fu vendicativo, e tenesse a mente, fu messer Dolcibene; e ben lo seppe un uomo di corte chiamato messer Bonfi; il quale, avendo parole d’invidia con messer Dolcibene, però che non era se non da dare zaffate, un dí innanzi a molti gli diede una zaffata; messer Dolcibene non la sgozzò mai, tanto che colto un dí tempo, con un ventre pieno il giunse in Mercato Nuovo, e in presenza di tutti i mercatanti gli lo percosse al viso per forma che si penò a lavare una settimana o piú.
Colui l’offese con l’orina, ed elli si vendicò con lo sterco.
E però non si può mai errare a porsi nel luogo del compagno e fare la ragion sua come la sua propria; e cosí facendo, rade volte, vivendo, incontra all’uomo altro che bene.