VIII. Infrattanto il re prega

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VII IX


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VIII.

Infrattanto.... il re prega.


Alle otto del mattino Don Diego si presentò in casa di Don Domenico Taffa. Il degno galantuomo terminava di radersi, e per rimettersi della fatica centellava una tazza di cioccolata alla crema, cui la sua bella governante, sufficientemente scollacciata, gli presentava.

— Ebbene! dimandò Don Domenico, quando la sua Ebe in grembiule si fu ritirata.

— Ebbene, io ho seguito il vostro consiglio, disse Don Diego. Ho mandato mia sorella a confessarsi dal P. Piombini.

— Ah! alla buon’ora. Cominciate a divenir ragionevole. Ed allora?

— Codesto gesuita è un miserabile.

— Hum! eccoci li ancora. Un miserabile! Cosa ha egli fatto insomma?

Don Diego raccontò la confessione di Bambina.

— E voi chiamate miserabile un uomo che vi propone una miniera, un canonico da mettere a partito, un uomo cui io farò vescovo quando vorrà [p. 120 modifica]darsi l’incomodo di comperare il pastorale? In verità, abate, voi farneticate.

— Ma voi non comprendete dunque qual prezzo dimanda quello scellerato dei suoi benefizii?

— Or neh! che dritto avete voi ai servizi di altrui, dimando io? Chi domine siete voi che esigete ch’altri s’incomodi per nulla onde tornarvi gradito? Ma il mondo vive di scambi, mio brav’uomo! Senza la reciprocità della pena e del piacere non vi sarebbe società, quel sere! Io non scorgo nulla nelle proposizioni del R. P., il quale è dei miei amici, che possa offendervi. Ma, infine, se egli mettesse un prezzo al suo favore... per Giove! io lo trovo naturalissimo. Voi potete accettare o rifiutare; non avete il diritto di lamentarvi e d’insultare. Io non so che diavolo venite a fare in casa mia allora.

— Voi sapevate dunque che cosa quel gesuita voleva proporre, consigliandomi di mandare mia sorella a confessione da lui?

— Non lo sapevo, ma come non ignoro che in questo mondo non si fa nulla per nulla, — ex nihilo nihil fit — io ne sospettava un pochino.

— E voi pensavate....

— Ah! gnocchi! voi mi annoiate, l’abate. Perchè andate voi dal barbiere se non avete voglia di farvi la barba? Ma ella è dunque così bella vostra sorella? Ella è così bella che n’è venuto l’acquolina alla bocca perfino al Reverendo Padre?

Don Diego uscì senza salutare. Don Domenico lo richiamò.

— L’abate, disse egli in tuono serio, non fan[p. 121 modifica]ciullaggini. Le occasioni sono calve all’occipite, ha detto Rabelais; non le si acchiappano più quando sono passate. Ascoltatemi dunque. Mio fratello mi ha scritto di nuovo da Salerno per chiedermi ciò che avevo fatto per voi, malgrado le vostre stranezze. Io vado a parlar oggi al ministero con qualcuno che potrà forse darvi del lavoro. Andrò a vedervi in casa stasera, prima delle dieci, perchè io pranzo precisamente col canonico a cui sembrami il P. Piombini abbia fatto allusione. Egli dimora, presso di voi.... la notte. Tasterò ancora il terreno da questa banda. Basta che la polizia vi lasci tranquillo.

— Ah! ecco giustamente ove è la pietra d’intoppo.

E qui Don Diego raccontò un poco del suo colloquio con Don Lelio Franco.

— Infatti, infatti! che volete? disse Don Domenico. Don Lelio potrebbe bene essere un poco l’agente del conte d’Altamura... voi sapete? il capo della reazione, l’agente segreto ed onnipotente del re. Vi sarebbe forse qualcosa a fare anche da quel lato lì. Ma voi siete un mulo sì ombroso.... Andate. A stasera.

— Che geenna che è questo paese! sclamò Don Diego andandosene. Non si esce di polizia che per cader nella chiesa, e non si spania dal prete che per imbrodolarsi nel birro! Ah! se io fossi solo! Popolo vigliacco ed infame, va!

Ho bisogno di dire che le ricerche promesse da Don Domenico erano false e che egli aveva inventato questo pretesto per andare a vedere Bam[p. 122 modifica]bina? In fatti, alle nove della sera e’ suonava alla porta di Don Diego.

Che costui sospettasse o no dello scopo della visita, il fatto è che Bambina si trovò nel salone, vicino alla tavola, e che ella aveva spogliata la beghina di monaca di casa. Don Domenico salutò profondamente la giovinetta, si assise sul canapè a fianco al prete e cominciò a versargli la cervogia anestesiaca delle menzogne cui aveva preparate. Tutto andava bene, molte promesse, un avvenire pieno di fiorenti prospettive.... ma nulla per il momento. Infrattanto, il futuro segretario generale del ministero per gli affari ecclesiastici s’inebbriava della contemplazione di Bambina.

Ella era più bella della madonna di Sassoferrato, cui somigliava. I suoi capelli, un po’ in disordine, le cadevano sul collo e sul petto, cui un fazzoletto mal fermo lasciava intravedere. La luce del candeliere la rischiarava dal su in giù, di guisa che le linee del suo viso, fortemente bagnate di raggi e di ombre, si staccavano sul fondo scuro della sua veste e sul color chiaro della pezzuola con un rilievo potente. La sua mano, tirando l’ago, sembrava una colomba che folleggiava su bianca nappa. Il respiro un po’ ansioso, a causa del visitatore e di ciò che costui raccontava, dava alle labbra un fremito elettrico. Don Domenico non le indirizzò la parola. Ella levò appena gli occhi e li portò appena su di lui. Don Diego ascoltava. Ad un tratto, l’impiegato salutò la giovinetta, tese la mano a Don Diego ed uscì dal salone. Nell’anticamera, Don Domenico sclamò con voce saltabeccante: [p. 123 modifica]

— Signore, vostra sorella è dessa fidanzata?

— Non mica.

— Volete maritarla?

— Le giovinette sono al mondo per codesto, io m’immagino. Ma mia sorella non ha dote.

— Insomma volete voi maritarla?

— Non ho alcun partito preso in contrario.

— Buona sera.

Don Diego lo rischiarò fin giù delle scale, — non vi era lampada, — e risalì senza soggiungere motto.

Don Domenico Taffa correva come un uomo che scappa dal fuoco.

Don Diego non ripetè a sua sorella il supplemento di conversazione che aveva avuta col suo visitatore.

Il dì seguente, Bambina ritornò al confessionale del P. Piombini. Suo fratello visitò qualche conterraneo, principalmente un farmacista della strada Foria, il quale gli diede una lettera del marchese Tiberio di Tregle. E quel marchese non era altri che il già dottor Bruto Zungo, di cui avremo a parlare più oltre.

La sera, Don Diego ascoltava con ansietà il racconto della seconda conversazione del gesuita con sua sorella, quando il barone di Sanza arrivò. Bambina impallidì e si tacque di un tratto. Don Diego gli narrò il risultato della sua visita all’intraprenditore delle limosine per le anime del Purgatorio, della sua visita al capo di ripartimento del ministero, la visita che costui gli aveva reso, la gita a confessione di Bambina, tacendogli però [p. 124 modifica]parecchie particolarità rilevanti di tutti quei colloqui. Il barone si mostrò più freddo e riservato che mai, si limitò a constatare che Don Lelio era stato a parlargli. La conversazione si spegneva, allorchè il campanello della porta suonò vivamente. Don Diego andò ad aprire. Era l’uomo alla livrea di Don Domenica Taffa che portava una lettera del suo padrone.

— Bisogna una risposta?

— Non so zzi pré. Vedete.

Don Diego rientrò nel salone ove era il lume, lesse e restò come stupido. Bambina e Tiberio lo guardavano con curiosità. Don Diego rilesse la lettera, poi rovistò precipitosamente nelle sue tasche, ne cavò qualche monete bianche, e dandole al lacchè disse:

— Di’ al tuo padrone che gli porterò la risposta io stesso.

Cosa era quella lettera? che diceva essa?

Ritorniamo su i nostri passi.

Con suprema stupefazione di Antoniella, — la vispa governante di Don Domenico Taffa, — questi, di ritorno dalla sua visita a Don Diego, invece di coricarsi a mezza notte e dormire come un priore, secondo il consueto, aveva passeggiato nell’appartamento fino alle due del mattino ed aveva passato una notte insonne molto agitata, scattando dei monosillabi diretti a tutti i mobili. Levandosi alle sette all’indomani, si era tagliuzzato radendosi, aveva trovato Antoniella noiosa e seccante, il cioccolatte troppo denso, la camicia male amidata, gli stivali poco lucidi, aveva man[p. 125 modifica]dato tutti al diavolo ed era uscito alle nove, in carrozza, gittando per indirizzo al cocchiere:

— A S. Pasquale ad Aram.

Arrivando al convento dei cappuccini aveva chiesto di monsignor Cocle.

— È uscito, rispose il frate portinaio.

— Ha passata la notte qui?

— Sì.

— Al palazzo reale, gridò Don Domenico al cocchiere, risalendo in vettura.

Monsignor Cocle aveva tre domicili. Il domicilio di ostentazione, nel suo convento, a San Pasquale ad Aram a l’Infrascata, perchè egli era zoccolante. Il domicilio utile, alla Corte, perchè egli era confessore del re. Ed il suo Parc-aux cerfs, in casa di Lusetta, perchè egli era uomo e cappuccino. Quando cenava e passava la notte con la sua ganza, egli diceva alla Corte che andava a raccogliersi e meditare al convento, ed al convento, che dormiva alla Corte. La notte precedente però egli aveva realmente dormito nel suo bel nido al monistero, ed il mattino, dalle sette, si era recato a Palazzo.

Ferdinando II di Napoli non poteva far manco di due cose, e perciò le voleva sempre alla portata della sua voce: il boia ed il confessore. E’ non usava molto del primo, checchè se ne sia detto. Ma e’ faceva un consumo spaventevole del secondo. Doveva presiedere al consiglio? eccolo dapprima ai piedi del confessore. Doveva passare una rivista? — perchè egli era un gran capitano di riviste, — e’ vi si preparava colla confessione. [p. 126 modifica]Doveva recarsi al teatro? ei domandava dapprima perdono a Dio del peccato necessario cui andava a commettere. Andava a pranzo? ei prendeva un centellino di confessione come vermuth. Voleva abbracciare la regina? si metteva in lena con un atto di contrizione. Si purgava? compieva i doveri sacri della toilette? divideva i profitti delle ladrerie con i suoi ministri? misurava un paio di brache nuove, — ciò che non gli succedeva spesso? scappellottava i bimbi?... la confessione, sempre la confessione, la preghiera, i sette salmi penitenziali, prima o dopo. Il confessore era il suo Spirito-Santo, il suo uomo per ogni bisogna. E’ lo alloggiava dunque presso di sè, onde non far languire il regno.... e la regina. La sera però, quando questo confessore aveva rilasciato al re il suo permesso di abbracciare, e’ cavava fuori non so che pretesti di divozione per rientrare in convento e guizzarsi in casa di Lusetta.

L’ex cappuccino non capiva gran che intorno ai comodi ed allo splendore di un domicilio. Malgrado ciò, il re albergava realmente il suo spirituale decrotteur, il solo istrumento ch’egli avesse di reale, dopo la mannaia, — lui così spilorcio!

Se avete letto in mastro Rabelais il ritratto di fra Gianni degli Entommeurs, — salvo il coraggio, — voi avrete il ritratto di fra Bartolomeo Cocle, vescovo di Patrasso: "giovane, — quarantacinque anni circa, — galante, fresco, svelto, forte di mano, ardito, avventuroso, deliberato, alto, magro, ben fesso di bocca, ben avvantaggiato in naso, [p. 127 modifica]gran disbrigatore di salmi, grande sbarazzatore di messe, bel nettatore di vigilie: per tutto dire sommariamente, vero monaco se unqua ne fu, dopo che il mondo monacante monacò delle monacherie: del resto chierico sino ai denti in materia di breviario1."

Il suo colorito rubicondo, la sua barba nera, i suoi occhi a fior di testa, le sue labbra a cercine, il suo doppio mento, le larghe narici, i bianchi denti, il comodo adipe, il pelame arruffato e nero, indicavano bene che la natura aveva tagliato quest’uomo e lo aveva destinato ab eterno ad essere zoccolante e confessore di re. Appetiti formidabili, scrupoli smilzissimi, desiderii irresistibili, organi poderosi, stoffa da corazziere sciupata in tonaca, tonaca portata da tagliacantone, croce di vescovo a mo’ di bandoliera.... ecco mons. Cocle. Con ciò, vernice di corte, potenza di volontà per domare le sue inclinazioni, voce resa dolce dal volere, l’olio episcopale per rendere scorrevoli gli incastri e le ruote di questo ordigno di ferro, ipocrisia rappresentata con maestria.

Questo aspetto marziale ed apostolico aveva sedotto un re marziale e devoto. Monsignor Cocle fa[p. 128 modifica]ceva il ménage della coscienza reale con magnanimità: egli metteva il re sempre a suo comodo con Dio. Ferdinando II non domandava altro. Conosceva egli la pratica del suo confessore con Lusetta? Io penso che sì; ma «passatemi la sena ed io vi passo il rabbarbaro.»

Mons. Cocle terminava il suo asciolvere quando il suo amico ed associato Don Domenico Taffa fu introdotto da lui. Erano della medesima provincia e terra, si conoscevano dacchè il vescovo non era che semplice novizio, ed il capo di dipartimento un povero soprannumero con cinquanta lire l’anno per tutto soldo. Don Domenico piegò il ginocchio innanzi al vescovo e gli baciò la mano. Si principiava sempre così.

— Pigli caffè, don Dumi! domandò monsignore levandosi da tavola ed entrando nel salone.

— Ringrazio V. Ecc. Rev.ma. Ho preso or ora un cioccolatte abbominevole che mi strangola ancora. Il mondo va a tutti i diavoli. Oggidì, non è più possibile di essere ben servito che al monistero.

— L’è naturale, mio Dio, poichè codesti infami liberali proclamano i diritti dell’uomo! Se si avvisassero un giorno di proclamare altresì i diritti del monaco, buona notte! noi saremmo così mal serviti come i borghesi.

— Ciò arriverà, voi lo vedrete. Al passo con cui andiamo?... Ei parlan perfino del diritto al lavoro! Trono di Dio! il lavoro? Se domandassero almanco il diritto di non lavorare!... A proposito di non lavorare, io arrivo da San Pasquale [p. 129 modifica]ad Aram. Voi avete dunque dormito al convento la notte scorsa, monsignore?

— Non me ne parlate! Sì, ho dormito al convento.

— Comprendo codesta predilezione, monsignore; vi siete più tranquillo.

— La peste s’abbia la tranquillità! Le campane, il mattutino, i canti, la gente che gironza pei corridoi, che cospetta, che tossisce, che brontola, a mezzo addormita, gli sciocchi che sbagliano la porta, gli ubbriachi che piagnucolano sui rigori dei mariti, i gatti che danno dei cattivi esempi, la puzza del refettorio.... Laus deo! amo meglio altra cosa. Infine, perchè sei tu andato fino al convento?

— Ah! ecco. Si tratta, monsignore, del successore del vescovo di Teramo che ha avuto il buon senso di morire.

— Ebbene, codesto successore si presenta egli?

— Io ho dissotterrato una perla, monsignore. Un sant’Agostino, là!

— E tu chiami ciò una perla, imbecille? Gli era già ben troppo che avessimo dei vescovi birri. Darcene dei santi e dei dotti, adesso? Triplice idiota!

— Prego V. E. Rev.ma di permettermi di spiegarmi.

— Spiega, spiega. Se tu sapessi che bisogna mi danno quei galuppi nel ripartimento dell’anima del mio penitente! Corrispondono con lui direttamente e gli propongono i casi di coscienza dei sudditi assolutamente come se il re fosse il papa, [p. 130 modifica]o il ministro della polizia. E’ riassumono la confessione di tutta la popolazione della diocesi. Abbozzano dei progetti di miracoli per soffocare la peste del liberalismo e scongiurare l’indifferenza religiosa. E’ dimandano soldi per costruire chiese e conventi. Si lamentano che li borghesi insegnino a leggere ai loro figliuoli ed alle loro figliuole. Propongono stragi di carbonari. E’ dimandano dei carcami di santi che fanno miracoli.... Che so ancora? E sono io che debbo sbrogliare tutti codesti patatì e patatà.

— Io compiango V. E. Rev.ma di tutto cuore. Nettare una coscienza reale di tutto codesto verminaio è un lavoro eroico. Ma e’ non si tratta punto di codesto col mio S. Agostino.

— E di che dunque, allora?

— Egli ha degli scrupoli, delle delicatezze, degli sgomenti di onore, delle virtù, delle sensibilità, ma tutto codesto è mondano: nulla di religioso e politico. Egli puzza, al contrario, il filosofo ed il liberalastro a cento miglia. Ciò è nulla. La cappa violetta del vescovo coprirà tutte quelle screpolature della coscienza e dell’onore. Ma vi sono due altre difficoltà a sormontare; e’ non ha quattrini, ed ha una giovine sorella di una bellezza angelica, come voi non avete giammai visto, monsignore, nè nel mondo, nè in pittura, nè vegliando, nè in sogno.

— Oh! Oh! tu l’hai dunque vista, tu? Ne saresti tu dunque innamorato!

— Io l’ho vista ieri sera.

— Ma, non ha quattrini.... ecco lì! [p. 131 modifica]

— Si, ecco lì. Io gliel’ho detto. Cosa importa a noi, a noi, la splendida bellezza della figlioccia? Tanto più, che, a quanto sembra, il P. Piombini, confessore della bella madonnina si mette in uzzolo di correr la gualdana. Noi abbiamo, noi, la nostra grassa Lusetta. Laus Deo! Quella roba lì si tocca, almeno; la si palpa, la mangia, cospetta, beve, strepita, conta gli scudi, ci cerca taccoli per darci poscia i gaudi del raccomodamento. La ha della schiena, delle groppe, della ciccia, l’alito forte, le braccia tarchiate e.... il resto.

— Birbo, brigante! Ringrazia Dio che stamane io mi senta di buono umore! senza ciò, ti raccomanderei mo’ mo’ al marchese di Sora e ti farei rimpedulare il cervello nel bagno come liberale.

— Io dimando mille volte perdono a V. E. Rev.ma. Io non aveva alcuno intendimento di spiacervi. Gli era un paragone involontario con quella tosa di diciotto anni, svelta come una colonna gotica, bianca e diafana come il vapore dell’alba, l’occhio languido dell’amore che si risveglia, la bocca di rose che scoppietta baci, una Venere sotto la pelle d’un cherubino, che dà la vertigine dell’amore anche..... ad un capo di ripartimento!

— Ti veggo venire, il mio libertino. E poi?

— Ma, ecco tutto. Io sono troppo, troppo povero per appropriarmi quel diamante incomparabile. Codesto non può ornare che una corona, una tiara o una mitra.

— Avresti meglio fatto a cominciar dalla mitra, giacchè suo fratello vuole esser vescovo.

— Ma e’ non l’è mica ancora, poichè non ha i [p. 132 modifica]sei mila ducati, e poichè la sua piccola Vergine Maria non si mette al Monte di Pietà. Allora, ei sarà ciò che sarà. Noi abbiamo la nostra Lusetta propria a tutto, che ci ammalia con i suoi occhi stupefatti, col suo appetito, col suo fiato.... A proposito, fuma dessa, monsignore?

— A fe’ di Dio! non lo so mica, urlò monsignor Cocle ridendo. Ad ogni modo, cionca del rhum. Ma che diavolo vuoi? Ho il tempo per cacciar le colombe, io? La vi era, nel tempo in cui la confessavo come semplice monaco, la vi è restata. Ma tu sei il suo nemico, tu, perchè ella ha domandato la sua mancia su i tuoi affari. Ciò è giusto però, e’ mi sembra.

— Che V. E. Reverendissima mi scusi. Io non sono il nemico di Lusetta, ma il servitore rispettoso e devoto di monsignor di Patrasso. Ora, poichè il fratello non ha denari e che io non posso fargli alcuna anticipazione sul pegno prezioso che e’ possiede....

La porta si aprì. Il re entrò. Don Domenico rinculò fino al fondo del salone. Monsignor Cocle si alzò. Il re andò dritto a lui e gli baciò la mano.

— Io vado a far saggiare qualche cannone, fuso ed apparecchiato a Pietrarsa. Vogliate ascoltarmi in confessione, disse Ferdinando II con l’aria di chi non ha tempo da perdere.

— Avete voi fatto il vostro esame di coscienza, sire?

— No.

— Io vi ho lasciato in istato di grazia ieri sera, a dieci ore. Ma la notte, sire, il diavolo va in[p. 133 modifica]torno: i cattivi spiriti scaricano sopra di noi le loro emanazioni pestifere; nel sonno, l’anima non è in guardia; la carne regna; le tenebre maculano.... Vogliate, sire, prepararvi un istante. Infrattanto io riconcilio il mio vecchio penitente ch’è colà, e gli do l’assoluzione.

Il re, obbediente come un fanciullo, andò ad inginocchiarsi ad un inginocchiatoio in un angolo del salone, e Don Domenico Taffa s’inginocchiò ai piedi del vescovo.

— Ascolta, disse monsignor Cocle a voce bassa. Tu sei uno scellerato affezionato, ed io ti parlerò con tutta franchezza, come sempre, poichè tu conosci tutti gli affari miei. Intrattieni la speranza nel fratello e non lasciar cader la sorella fra le unghie del gesuita. Una bellezza di quel calibro è un agente potente cui non bisogna far cadere nelle mani dei nemici. Io rifletterò... ho a riflettere su tante cose.

— Ho paura che non ci prevengano.

— Ecco appunto ciò che bisogna evitare. Io non ti nascondo che sono diabolicamente stufo di Lusetta.

— Lo credo bene.

— Tu non dubiteresti mai che quella cialtrona m’abbia gittato l’altra sera un candeliere alla testa!

— Bah! una testa di vescovo è oliata! il liquido della lampada non vi fa macchia.

— Se il re non fosse lì, io ti darei del mio piede tu sai dove.

— Io riceverei con riconoscenza codesto segno d’amicizia di Vostra Eccellenza Reverendissima. [p. 134 modifica]

— Dunque, io sono deciso a romperla con quella figlia di Satana, tanto più che la diviene di una esigenza intollerabile, che la città comincia a cianciare su queste mie pratiche, e che le si vanno a proporre affari, cui ella m’impone sollecitare. Tu vedi dunque, che bisogna ad ogni costo che io la lasci.

— Allora, voi sareste deciso a dare un vescovo alla chiesa di Teramo per nulla ed a compensare i condivisori?

— Parleremo di ciò più tardi. Tu vedi che il re attende.

— Che attenda. Io sono qui al tribunale della penitenza, e non spreco i sacramenti. Dunque voi v’incaricate del fratello. Ma io non ho detto ancora a Vostra Eccellenza Reverendissima che bisognerà pensare altresì ad un altro, forse....

— A chi dunque?

— A ciò che ho potuto capire, vi è sotto cappa un fidanzato. Cosa ammirabile! Un marito? una bandiera che copre la mercanzia!....

— Che diamine è codesto fidanzato che tu metti in scena adesso? Posso farlo mandare in galera?

— Non ne so nulla ancora. Ne ho inteso parlare. Gli è a vedere. Gli è ad intendersi.... Voi comprenderete che un marito non può solamente subire le perdite nell’affare....

— Ma se penso al marito, posso ben dispensarmi di pensare al fratello, e’ mi pare! Ora, io preferisco colmare il marito.... capisci!

— Il turba-feste! comprendo a maraviglia. In questo caso, io mi metto in campagna con prudenza e spero.... [p. 135 modifica]

— Diamo scacco al gesuita. Io trovo quei rettili sotto tutti i miei passi.

— Lasciate che io dia questa prova della mia devozione a Vostra Eccellenza Reverendissima.

Ego te absolvo in nomine patris et filii et spiritus sancti.... borbottò a voce alta monsignore, dando l’assoluzione e squartando dei grandi segni di croce.

Don Domenico si alzò, baciò la mano del vescovo, piegò il ginocchio innanzi al re ed uscì a rinculo.

Il re andò a sua volta a mettersi ai piedi del santo uomo.

Don Domenico si recò al ministero e dette ordine che non lo si turbasse, avendo un lavoro importante a fare per il ministro. E’ si mise allora al suo tavolo e cominciò a riflettere ed a scrivere.

Ei minutò e lacerò per lo meno venticinque bozze, alzandosi, passeggiando, affacciandosi al balcone per ispirarsi alla vista del cielo e del mare. Ei si battè la fronte, fiutò il tabacco, fumò una dozzina di sigari, si prosciugò la fronte come un uomo che suda, infine mise alla luce le linee seguenti:


«Gentiliss. e riveritiss. sig. Abate,

«Le persone di spirito sopprimono i preamboli: esse s’intendono di una parola. Io non vi scriverò dunque che questa parola: io sono stato fulmineamente colpito di amore per la signorina vostra sorella. Ve la dimando in matrimonio. Voi cono[p. 136 modifica]scete la mia posizione. Il mio ministro, e S. Ecc. Reverendissima, mons. Cocle, assisteranno al contratto. Io non voglio dote. Io m’incarico della felicità della signorina vostra sorella e del corredo di nozze, non che dell’avvenire della famiglia. Accogliete, vi prego, la mia domanda con la semplicità ed il disinteresse con cui io ve la indirizzo, e rendetevi interprete presso vostra sorella di tutti i miei sentimenti devoti ed ardenti. Qualunque sarà la vostra risposta, voi mi permetterete di dirmi sempre

«Napoli, il 2 maggio 1847.

«Vostro amico sincerissimo

«Domenico Taffa,

«Capo di Rip. al ministero del culto.»


Questa lettera gittò Don Diego nello stupore. Egli contemplò sua sorella con un’attenzione ostinata, come se avesse voluto scovrire nei tratti della giovinetta la sorgente di quei miracoli, poi gridò come un uomo stordito, indirizzandosi a sua sorella ed al barone di Sanza:

— Io non posso contenermi. Bisogna che vi legga la lettera.

E la lesse. Bambina si coprì il viso con ambo le mani per nascondere la sua commozione. Tiberio sorrise leggermente senza manifestare il minimo turbamento.

— Che mi consigliate voi, amico mio? dimandò Don Diego.

Il barone si levò, prese il suo cappello e rispose: [p. 137 modifica]

— Io conosco quell’uomo. Egli vuol essere consigliere di Stato, segretario generale del suo ministero, forse anche ministro. Bambina è il prezzo di quei posti.

Ei salutò ed uscì, udendo Don Diego che mormorava come atterrato:

— Suicidarmi, divenir spia, prostituire mia sorella: ecco la mia sorte! No: Dio non c’è!

Bambina che accompagnava il barone di Sanza, gli susurrò a voce bassa:

— Avrei da parlarvi.

Note

  1. «Juenne, galant, frisque, dehait, bien à dextré, hardi, adventureux, dèlibérè, hault, maigre, bien fendu de gueule, bien advantagé en nez, beau déspecheur d’heures, beau disbrideur de messes, beau déscroteur de vigiles; pour tout dire sommairement, vrai moine si onques en fut, depuis que le monde moinant moina des moineries; au reste, clerc jusques és dents en matiére de breviaire.» Rabelais.