Il Re Torrismondo/Atto primo/Scena prima

Atto primo - Scena prima

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Atto primo Atto primo - Scena seconda
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SCENA PRIMA

NUTRICE, ALVIDA

NUTRICE

Deh! qual cagione ascosa, alta Regina,
Sì per tempo vi sveglia? ed or, che l’Alba
Nel lucido Oriente appena è desta,
Dov’ite frettolosa, e quai vestigj
Di timore in un tempo e di desio
Veggio nel vostro volto e nella fronte?
Perch’appena la turba interno affetto,
O pur novella passíon l’adombra,
Ch’io me n’avveggio. A me, che per etate,
E per officio, e per fedele amore,
Vi son in vece di pietosa madre,
E serva per volere, e per fortuna,
Il pensier sì molesto omai si scopra;
Chè nulla sì celato, o sì riposto
Dee rinchiuder giammai, ch’a me l’asconda.

ALVIDA

Cara nudrice, e madre, egli è ben dritto
Ch’a voi si mostri quello, ond’osa appena
Ragionar fra sè stesso il mio pensiero;
Perch’alla vostra fede, al vostro senno
Più canuto del pelo, al buon consiglio
Meglio è commesso ogni secreto affetto,
Ogni occulto desio del cor profondo,

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Ch’a me stessa non è. Bramo, e pavento,
Nol nego: ma so ben quel ch’i’ desio;
Quel che tema, io non so. Temo ombre, e sogni,
Ed antichi prodigj, e nuovi mostri,
Promesse antiche, e nuove , anzi minacce
Di Fortuna, del ciel, del Fato avverso,
Di stelle congiurate: e temo, ahi lassa!
Un non so che d’infausto, o pur d’orrendo,
Ch’a me confonde un mio pensier dolente,
Lo qual mi sveglia, e mi perturba, e m’ange
La notte, e’l giorno. Oimè, giammai non chiudo
Queste luci già stanche in breve sonno,
Ch’a me forme d’orrore, e di spavento
Il sogno non presenti. Ed or mi sembra
Che dal fianco mi sia rapito a forza
Il caro sposo, e senza lui solinga
Gir per via lunga e tenebrosa errando,
Or le mura stillar, sudare i marmi
Miro, o credo mirar, di negro sangue;
Or dalle tombe antiche, ove sepolte
L’alte Regine fur di questo regno,
Uscir gran simulacro, e gran rimbombo,
Quasi d’un gran gigante, il qual rivolga
Incontra al Cielo Olimpo, e Pelio ed Ossa,
E mi scacci dal letto, e mi dimostri,
Perch’io poi fugga da sanguigna sferza,
Un’orrida spelonca, e dietro il varco
Poscia mi chiuda: onde, s’io temo il sonno,
E la quiete, anzi l’orribil guerra
De’ notturni fantasmi all’aria fosca,
Sorgendo spesso ad incontrar l’aurora, .
Meraviglia non è, cara nutrice.
Lassa me! simil sono a quella inferma,

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Che d’algente rigor la notte è scossa,
Poi sul mattin d’ardente febbre avvampa;
Perchè non prima cessa il freddo gelo
Del notturno timor, ch’in me s’accenda
L’amoroso desio, che m’arde, e strugge.
Ben sai tu, mia fedel, che ’l primo giorno,
Che Torrismondo agli occhi miei s’offerse,
Detto a me fu, che dal famoso regno
De’ fieri Goti era venuto al nostro
Della Norvegia, ed al mio padre istesso,
Per richiedermi in moglie; onde mi piacque
Tanto quel suo magnanimo sembiante,
E quella sua virtù per fama illustre,
Ch’obliai quasi le promesse, e l’onta.
Perch’io promesso aveva al vecchio padre
Di non voler, di non gradir pregata,
Nobile amante, o cavaliero, o sposo,
Che di far non giurasse aspra vendetta
Del suo morto figliuolo, e mio fratello;
E ’l confermai nel dì solenne, e sacro,
In cui già nacque; e poi con destro augurio
Ei prese la corona, e ’l manto adorno,
E ne rinnova ogni anno e festa, e pompa,
Che quasi diventò pompa funébre.
Quante promesse, e giuramenti all’aura
Tu spargi, Amor, qual fumo oscuro, od ombra!
Io del piacer di quella prima vista
Così presa restai, ch’avria precorso
Il mio pronto voler tardo consiglio;
Se non mi ritenea con duro freno,
Rimembranza, vergogna, ira, e disdegno.
Ma poichè meco egli tentò parlando
D'amore il guado, e pur vendetta io chiesi;

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Chiesi vendetta, ed ebbi fede in pegno
Di vendetta, e d’amor, mi diedi in preda
Al suo volere, al mio desir tiranno,
E prima quasi fui, che sposa, amante;
E me n’avvidi appena; e come poscia
L'alto mio genitor, con ricca dote
Suo genero il facesse; e come in segno
Di casto amor, e di costante fede,
La sua destra ei porgesse alla mia destra;
Come pensasse di voler le nozze
Celebrar in Arana, e corre i frutti,
Del matrimonio nel paterno regno,
E di sua gente, e di sua madre i preghi
Mi fosser porti, e loro usanza esposta,
Tutto è già noto a voi. Noto è pur anco,
Che pria ch’al porto di Talarma insieme
Raccogliesse le navi, in riva al mare,
In erma riva, e’n solitaria arena,
Come sposo non già, ma come amante,
Ei fece le furtive occulte nozze,
Che sotto l’ombre ricoprì la notte,
E nell’alto silenzio; e fuor non corse
La fama, e ’l suono del notturno amore,
Ch’in lui tosto s’estinse; e nullo il seppe,
Se non forse sol tu, che nel mio volto,
Della vergogna conoscesti i segni.
Or poichè giunti siam nell’alta reggia
De’ magnanimi Goti, ov’è l’antica
Suocera, che da me nipoti attende,
Che s’aspetti non so, nè che s’agogni;
Ma si ritarda il desiato giorno.
Già venti volte è il Sol tuffato in grembo,
Da che giungemmo, all’Ocean profondo;

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E pur anco s’indugia: ed io frattanto
(Deggio ’l dire, o tacer?) lassa, mi struggo
Come tenera neve in colle aprico.

NUTRICE

Regina, come or vano il timor vostro,
E ’l notturno spavento in voi mi sembra,
Così giusta cagion mi par che v’arda
D’amoroso desio: nè dee turbarvi
Il vostro amor; chè giovanetta donna,
Che per giovane sposo al cor non senta
Qualche fiamma d’amor, è più gelata,
Che dura neve in orrida alpe il verno.
Ma la santa onestà temprar dovrebbe,
E l’onesta vergogna ardor soverchio,
Perch’ei s’asconda a’ desiosi amanti.
Ma non sarà più lungo omai l’indugio,
Chè già s’aspetta qui, se ’l vero intendo,
Della Suezia il Re di giorno in giorno.

ALVIDA

Sollo, e più la tardanza ancor molesta
M’è per la sua cagion. Così vendetta
Veggio del sangue mio? così del padre
Consolar posso l’ostinato affanno?
E placar del fratel l’ombra dolente?
Posso, e voglio così? non lece adunque
Premere il letto marital, se prima
A noi d’Olma non viene il Re Germondo,
Di tutta la mia stirpe aspro nemico?

NUTRICE

Amico è del tuo Re; nè dee la moglie
Amare, e disamar col proprio affetto,
Ma colle voglie sol del suo marito.

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ALVIDA

Siasi come a voi pare; a voi concedo
Questo assai facilmente. A me fia leve,
D’ogni piacer di lui far mio diletto.
Così potessi pur qualche favilla
Estinguer del mio foco, e della fiamma,
O piacer tanto a lui, ch’ad altro intende,
Ch’egli pur ne sentisse eguale ardore.
Lassa! ch’invan ciò bramo, e ’nvan l’attendo
Nè mi bisogna ancor pungente ferro,
Che nel letto divida i nostri amori,
E i soverchi diletti. Ei già mi sembra,
Schivo di me per disdegnoso gusto,
Perchè da quella notte a me dimostro
Non ha segno di sposo, o pur d’amante.
Madre, io pur vel dirò, benchè vergogna
Affreni la mia lingua, e risospinga
Le mie parole indietro; a lui sovente
Prendo la destra, e m’avvicino al fianco.
Ei trema, e tinge di pallore il volto,
Che sembra (onde mi turba, e mi sgomenta)
Pallidezza di morte, e non d’amore:
O ’n altra parte il volge, o ’l china a terra,
Turbato, e fosco; e se talor mi parla,
Parla in voci tremanti, e co’ sospiri
Le parole interrompe.

NUTRICE

O figlia, i segni
Narrate voi d’ardente intenso amore.
Tremare impallidir, timidi sguardi,
Timide voci, e sospirar parlando,
Scopron talora un desioso amante.
E se non mostra ancor le istesse voglie,

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Che mostrò già nelle deserte arene,
Sai che la solitudine, e la notte
Sono sproni d’amore, ond’ei trascorra.
Ma lo splendor del Sole, il suon, la turba
Del palagio real, sovente apporta
Lieta vergogna, in aspettando un giorno,
Che per gioja maggior tanto ritarda.
E s’egli era in quel lido amante ardito,
Accusar non si dee, perch’or si mostri
Modesto sposo nell’antica reggia.

ALVIDA

Piaccia a Dio, che sia vero. Io pur frattanto
Poich’altro non mi lece, almen conforto
Dal rimirarlo prendo. Or vengo in parte,
Ov’egli star sovente ha per costume,
In queste adorne logge, o ’n questo campo
Ov’altri i suoi destrier sospinge, e frena,
Altri gli muove a salti, o volge in cerchio.

NUTRICE

Altra stanza, Regina, a voi conviensi,
Vergine ancor, non che fanciulla, o donna.
Ben ha camere ornate il vostro albergo,
Ove potrete accompagnata, o sola,
Spesso mirarlo dal balcon soprano.