XIV

../XIII ../XV IncludiIntestazione 21 maggio 2021 75% Da definire

XIII XV
[p. 229 modifica]

XIV.

Quella sera, per la prima volta dopo l’incendio del teatro, don Pio ordinò che fosse apparecchiato anche per lui nella sala da pranzo, si vestì e desinò in famiglia. La principessa lo guardava sospettosamente e non sapeva spiegarsi quel cambiamento improvviso; alla povera donna Teresa le lagrime facevano gruppo alla gola, e il cuore di lei riaprivasi alla speranza.

Don Pio parlò poco e mangiò meno ancora, ma la duchessa non lo vedeva più affondato, inerte nella poltrona, avvolto freddolosamente [p. 230 modifica]nella coperta, e questo le bastava per il momento, questo la consolava.

La mattina dopo egli fece attaccare il coupé, e quando stava per scendere trovò nella galleria la principessa vestita che lo aspettava.

— Ti accompagno, — gli disse, — sei troppo debole per uscir solo.

Egli fece un moto di dispetto. Come gli appariva meschina quella donna, che non sapeva altro che annoiarlo, vegliarlo come un aguzzino, senza sperar neppure di giungere a farsi amare!

— Non voglio che tu mi accompagni. Vado alla Banca Romana e alla Camera.

— Ti aspetterò in carrozza.

— Non voglio, — ribatto egli stizzito e facendo uno sforzo scese prontamente le scale, salì nel coupé e ordinò al cocchiere di andare per la via Appia.

Da quando Ubaldo avevagli annunziato che Maria era a Venezia, don Pio non aveva altro desiderio che quello di raggiungerla, di rivederla, ma l’attuazione di questo desiderio era intralciata dalla vigilante gelosia di donna Camilla. Era bastato che avesse scossa l’apatia, che avesse voluto uscire perchè ella si fosse fatta trovar pronta per accompagnarlo; come avrebbe fatto a partir solo? [p. 231 modifica]

A questo egli pensava mentre la carrozza percorreva l’antica via, quella via che don Pio aveva fatta tante volte a cavallo, per giungere a un convegno di caccia alla volpe, indossando l’abito rosso, in compagnia dei suoi amici, e delle signore più belle e più eleganti di Roma. Ma quei ricordi si perdevano in un lontano passato. Egli rammentava soltanto di avervi condotta Maria quando, nella prima estate che ella era a Roma, le faceva visitare i dintorni della città; riudiva le parole di schietta ammirazione che le linee solenni della campagna, indorate dal tramonto, strappavano alla sua anima d’artista, vedeva lei, sempre lei e le parlava, come se potesse udirlo, e ne pronunziava il nome a voce alta, con gli occhi umidi di pianto.

Quella passeggiata gli fece bene e tornò a casa più calmo credendo di aver trovato un mezzo per eludere la sorveglianza della principessa, e raggiungere Maria al più presto.

Quella sera non uscì di casa, ma assicurando di sentirsi molto meglio, annunziò l’intenzione di ricominciare l’antica vita. Disse che la mattina dopo sarebbe andato a visitare le costruzioni di Porta Portese e che occorreva passasse alcuni giorni alla Marsiliana, ma era annoiato di andarvi solo. [p. 232 modifica]

— Perchè non andiamo tutti? — domandò rivolgendosi alla madre e alla moglie.

— Sai che faccio il massaggio, — rispose la duchessa, — e non posso interromperlo.

— Alla Marsiliana non mi porteranno altro che morta, — rispose donna Camilla, che alla Marsiliana, durante la pallida luna di miele, aveva presa una perniciosa, della quale risentiva ancora le conseguenze.

Ella nutriva per quella villa una insormontabile antipatia; don Pio le aveva rivolto la domanda essendo sicuro della risposta.

— Allora mi lasciate andar solo, e se mi ammalo? — domandava, alle due signore fingendo rincrescimento di non essere accompagnato.

— Se ti ammali, io verrò. — disse la duchessa.

— E io verrò pure, ma soltanto in un caso estremo, — disse donna Camilla la quale ignorava la partenza di Maria, ma era insospettita da quel ridestarsi improvviso di energia nel marito.

Per scoprir terreno ella scrisse quella sera stessa al Rosati, che da molto tempo vedeva poco, occupata com’era incessantemente nel sorvegliare don Pio da vicino, e attese Fabio tutto il giorno seguente. Verso sera, non ve[p. 233 modifica]dendolo, mandò a cercarlo alla Stampa, e il servitore, cui aveva affidata quella commissione, le riferì che il Rosati da alcuni giorni era in Liguria, dov’erano avvenuti gravissimi disastri cagionati dal terremoto.

Intanto don Pio aveva fatto preparare le valigie ed era ritornato cupo e silenzioso. Al momento di mettersi in viaggio, l’abbattimento, la sfiducia lo assalivano di nuovo; come avrebbe fatto a presentarsi a Maria, a parlarle, a supplicarla di perdono?

La mattina della partenza donna Camilla e la madre lo accompagnarono infatti alla stazione e raccomandarono a Giorgio di telegrafare caso mai il principe non stesse bene. Don Pio prese la via di Civitavecchia, ma con l’intenzione di non fermarsi a Montalto per andare alla Marsiliana, ma invece di proseguire per Pisa. Era libero, era solo e di quei primi momenti di libertà voleva approfittar subito, non sapendo se il domani i sospetti di donna Camilla non si fossero ridestati, se la gelosia non le avesse fatto sormontare l’avversione per il soggiorno della villa.

A Montalto era l’intendente con la carrozza ad attenderlo, e i guardiani a cavallo, con le divise verdi e la placca stemmata sul braccio, per scortare la carrozza. [p. 234 modifica]

Don Pio si affacciò al finestrino, e mentre il treno faceva una breve sosta disse all’intendente, che cercava di aprire lo sportello:

— Aspettatemi fra qualche giorno, vi telegraferò; un affare urgente mi chiama a Firenze; non mandate nessuno a Roma. Se giungono telegrammi da casa, apriteli e rispondete a nome mio che sto bene.

— Non dubiti, Eccellenza, — rispose l’intendente seguendo il treno che già si era rimesso in movimento.

Don Pio aveva pensato a tutto e credeva di essersi assicurato alcuni giorni di libertà, ma nonostante non era tranquillo; gli pareva che il treno impiegasse un’eternità a percorrere quella landa deserta della maremma toscana e provava ogni tanto a chiuder gli occhi cercando di prender sonno, ma l’agitazione, l’ansia lo tenevano desto. Nella sua vita facile, spensierata di gran signore, non aveva mai trepidato come in quel giorno, non aveva mai avuto bisogno di sotterfugi per giungere là dove il capriccio lo trascinava. Ora non solo voleva giungere a Venezia, ma voleva giungervi senza esser visto da nessuno. Sarebbe stato per lui un gran dolore se un conoscente vedendolo alla stazione di Orbetello o di Pisa gli avesse domandato con [p. 235 modifica]un risolino dove andava; se donna Camilla scoprendo che non era alla Marsiliana avesse osato sospettare che Maria lo chiamava, lo invitava a raggiungerla a Venezia. Su Maria non dovevano cadere sospetti; Maria non doveva essere offesa neppure nel pensiero, e don Pio, che non aveva rispettato nulla, che non aveva mai creduto in nulla, ora circondava Maria di un religioso rispetto e sperava dal perdono di lei la redenzione, come i veri fedeli l’attendono dal confessore quando sentono la loro anima tormentata dal rimorso di un peccato, il principe giunto a Pisa cambiò treno sollecitamente e non chiese un posto nelle carrozze Pulmann per non imbattersi con qualcuno di conoscenza; egli proseguì il viaggio fino a Bologna e Venezia, celandosi come meglio poteva, prendendo quel po’ d’alimento, che Giorgio aveva cura di prontargli alle stazioni principali. In quelle lunghe ore della notte, quando il treno correva nella campagna buia, don Pio non lasciavasi sgomentare dal pensiero della rovina che lo minacciava da ogni lato, cercava conforto invece evocando la figura di Maria, richiamando alla mente le parole buone che aveva udito dalle labbra di lei. E univa quelle parole fra loro, ne formava un tutto, e con quell’in[p. 236 modifica]sieme armonioso di bontà ricostruiva il cuore di lei compassionevole, generoso, proclive al perdono.

— Maria, Maria, il suo perdono, la sua amicizia! — esclamava confortato.

Neppure parlando a sè stesso osava darle del tu, tanto la vedeva in alto, sul piedestallo che avevale eretto con la sua ammirazione.

Dopo quel lungo viaggio don Pio giunse a Venezia spossato; la forza morale lo aveva sostenuto, ma quella fisica era distrutta dall’inerzia, dallo scoraggiamento di quegli ultimi mesi di dolore.

Scendendo dal treno dovette appoggiarsi al braccio di Giorgio e farsi aiutare da lui per imbarcarsi in una gondola. All’albergo fu assalito da vertigini; gli pareva di morire; i mobili, le pareti della stanza giravano vorticosamente dinanzi ai suoi occhi come se un turbine spaventoso li sospingesse. Il desiderio di uscire, di cercar subito Maria e l’impossibilità in cui era di moversi, gli rendevano cento volte più angoscioso il suo stato. Pensava alla probabilità di ammalarsi, di non poterla rivedere, e se una malattia l’avesse inchiodato a letto, tutti avrebbero saputo dov’era, donna Camilla lo avrebbe raggiunto, avrebbe coperto d’infamia la dolce creatura.... [p. 237 modifica]

— Sentite, Giorgio, — disse a un tratto il principe al suo cameriere, — se caso mai io mi ammalassi qui, dovete mettermi, in treno anche moribondo, portarmi alla Marsiliana e far sì che nessuno sappia dove sono stato, dove mi sono ammalato.

— Sarà ubbidito, Eccellenza, ma non sarebbe meglio avvertire un medico?

— Non voglio nessuno; andate a prendermi un eccitante; del wisky, del cognac, quello che credete; ho bisogno di rimettermi in gambe per oggi e domani, poi non m’importa più nulla.

Giorgio cercò nell’astuccio da viaggio del principe una boccetta di wisky e lo versò in un bicchiere d’argento. Don Pio lo bevve e per un momento si sentì rianimato. Si vestì in fretta e prima d’uscire ne trangugiò di nuovo alcuni sorsi. Capiva che era una vita fittizia quella che circolavagli nelle vene, ma non gl’importava; la vita vera gliela doveva infondere Maria con la sua dolce parola.

Egli uscì in gondola, percorse diversi canali e giunse a San Girolamo all’Orto, allo studio del Rossetti, di cui rammentava benissimo l’indirizzo.

Il vecchio dipingeva ancora benchè fosse quasi notte. Vedendo entrare un visitatore, [p. 238 modifica]in cui fiutò un signore da quei mille segni esterni che dà l’abitudine della vita elegante, egli si alzò, gettò via il berretto di velluto e con la tavolozza infilata nel pollice, si avanzò tutto ossequiente verso don Pio, e con la sua parlantina veneziana gli disse mille cose in un istante.

— Capita in un brutto momento, lo studio è vuoto; il mio quadro ultimo “Le scimmie„ preso dalla commedia del nostro Goldoni, lo sa, quando son tutte radunate quelle pettegole, è andato ieri all’esposizione, gli altri sono venduti; abbiamo molti forestieri quest’anno e io non posso lamentarmi, nello studio non m’invecchia mai nulla.

Don Pio, che non voleva dire che non era l’arte che lo conduceva nello studio, ma un movente ben diverso, girava per la stanza, e vedendo un ritratto di Maria, fatto prima che ella si maritasse, quando sul volto aveva tutta la freschezza dell’adolescenza, si fermò a guardarlo, e mettendosi la lente all’occhio disse:

— Questa è la signora Caruso?

— La conosce la mia Maria? Che brava figliuola, che cara creatura, che la sia benedetta! E dove l’ha conosciuta, se non è troppo ardire? [p. 239 modifica]

— A Roma, alla Stampa.

— Già, già. Che peccato, Maria è partita ieri per Rovigno, l’è andata a rimettersi da una sua sorella nell’Istria. Se sapesse che piacere mi ha fatto venendo dal suo vecchio! E m’ha condotto anche il piccinino, tutto lei quel “putelo!„

— S’è rimessa bene? — domandò il principe turbato da quella notizia, e vedendo che le pareti, i quadri incominciavano a ballargli davanti agli occhi la loro ridda tormentosa, e il ritratto di Maria gli appariva ora capovolto, ora allontanato, annebbiato.

— Benone! l’è una rosa, un fiore, per lei è sempre primavera!

— È tanto bella! — disse il principe con passione.

— Quando penso che quella cara creatura è stata lì lì per morire, mi vengono i brividi e non posso far a meno di piangere, — disse il vecchio commosso asciugandosi una lagrima.

Don Pio credeva che un terremoto imprimesse ora un moto sussultorio, ora ondulatorio a tutto lo studio; si sentiva morire e il pensiero di morire in quel luogo accresceva le sue sofferenze. Il vecchio Rossetti non si accorgeva di nulla e seguitava a discorrere [p. 240 modifica]dell’incendio del teatro, della paura di Maria e del danno che per quell’incendio doveva aver risentito il principe della Marsiliana, quel bravo signore tanto cortese, di cui Maria avevagli così spesso parlato.

— Davvero, sua figlia le ha parlato di me? — disse involontariamente don Pio, consolato, fatto beato da quelle parole.

— Lei è quel bravo signore, quella perla di gentiluomo! — esclamò il vecchio tremante dal piacere. — Che sia benedetto; peccato che Maria non sia qui; le avrebbe fatto gli onori di casa, sa, una casa d’artista dove manca tutto meno che il buon cuore.

— Rimarrà molto la signora Caruso a Rovigo? — domandò don Pio con voce che si sforzava di rendere calma.

— Tutta la primavera; poi torna qui per i bagni.

— E se le facessimo una improvvisata andando a trovarla?

— L’ha avuto una idea stupenda, signor principe! Io sono sempre a sua disposizione quando vuol andare.

— Quanto s’impiega in ferrovia?

— Otto o nove ore, — rispose il vecchio.

— E se noleggiassimo un vaporino? — do[p. 241 modifica]mandò don Pio che in quella gita specialmente voleva evitare ogni incontro. Com’era felice e come sentiva che i nervi si calmavano sotto l’influenza benefica di quella gioia.

— Ben pensato, ma sa, i padroni di vaporini hanno pretese alte, il viaggio peraltro è molto più breve e piacevole che in ferrovia.

— Del prezzo non m’importa. Rimane stabilito che noi andremo. Mi farà il favore di fissare il vaporino per domattina alle nove e di venirmi a prendere all’albergo, va bene?

— Benissimo, — rispose il vecchio.

Don Pio si fermò ancora dinanzi ad alcuni studi e aggiunse:

— Adesso non c’è luce, ma al nostro ritorno verrò a farle un’altra visita e sceglierò un ricordo di Venezia, me lo permette?

Era un modo cortese per compensarlo del tempo che gli rubava con quella gita, ma il vecchio, trattandosi della sua Maria, non si rammentava neppur più che il suo visitatore era un principe romano, e gli avrebbe regalato lo studio, se avesse voluto.

— Se mi permette l’accompagno, — disse il vecchio, e senza neppure aspettare la risposta di don Pio, a testa scoperta gli spalancò la porta e lo precedè sulle scale fino alla gondola. [p. 242 modifica]

— A domattina, — disse don Pio stringendogli la mano.

— A domattina e non dubiti, sarò esatto: non mi accade spesso, ma domani farò un’eccezione.

Il principe tornò all’albergo senza che nessun dolore fisico lo tormentasse più. Non sentiva altro che l’immensa gioia di rivedere Maria, e di rivederla lontana da Roma, nella tranquillità di un piccolo paese, libera forse dai ricordi dolorosi che Roma avrebbe ridestato in lei. Era così felice, si sentiva così forte che aveva perduto anche la memoria delle sofferenze di due ore prima. Sulla porta dell’albergo Giorgio lo aspettava ansioso.

— Eccellenza, credevo le fosse venuto male e stavo in gran pena, — gli disse il cameriere.

— No, sto benissimo, e non mi sono mai sentito tanto bene da molto tempo. Fatemi apparecchiare il pranzo nel salotto.

Il cameriere andò a trasmettere gli ordini, e il principe, salito nel salotto, spalancò la finestra per respirare liberamente, per lasciare che i polmoni si allargassero come il cuore. Non aveva mai desiderato così intensamente nulla nella vita come di rivedere Maria, e ora stava per raggiungerla, per presentarlesi non come chi cerca di sedurla, di [p. 243 modifica]prenderla alla sprovvista, ma onestamente, sotto l’egida del padre di lei, come un amico che chiede all’amica una parola affettuosa, una stretta di mano e l’oblio di una aberrazione, di una colpa di cui sente la vergogna e il pentimento.

I camerieri dell’albergo entrarono portando i grandi vassoi con le argenterie, le bottiglie e i piatti, e don Pio si sedè a tavola tranquillo e lieto come uno che sente il ritorno della vita, che sente la primavera dell’anima vivificarlo col soffio caldo della speranza.

Durante il pranzo, che era servito dal cameriere dell’albergo, Giorgio entrò recando un quadro di piccole dimensioni avvolto nella carta e un biglietto. Il principe indovinando chi era che gli scriveva, stracciò la busta, si mise la lente all’occhio, e lesse:

“Al principe della Marsiliana, a un amico di Maria, — scriveva il Rossetti, — non saprei offrire un ricordo più dolce della mia Venezia, che il ritratto della mia bella e buona creatura, dipinto da me quand’ella era uno dei fiori più belli della Laguna. Io spero che il principe vorrà gradirlo perchè è offerto col cuore. Non è l’opera di un artista; è il lavoro di un padre, che ha un culto per la figlia e benedice tutti coloro che le vogliono bene.„ [p. 244 modifica]

Quelle parole, quel dono intenerirono don Pio. Egli seppe dominarsi e non fece togliere il quadro dal suo involucro finchè il desinare non fu terminato, ma appena solo strappò lo spago che teneva ferma la carta e si diede a contemplare quel volto dolce e sereno di donna, che pareva lo fissasse con i grandi occhi modesti e luminosi. Quella estasi di don Pio durò fino a notte inoltrata; non pensava a nulla, non vedeva nulla altro che il volto soave di Maria e quello sguardo, che il giorno seguente avrebbe colto negli occhi di lei.

Aveva dato libertà a Giorgio, e sicuro ormai di non esser disturbato, portò il ritratto di Maria in camera, lo collocò sopra un cassettone a destra del letto e da un lato di esso accese due candele per poterlo contemplare anche quando fosse coricato, e sul davanti sfogliò tutte le rose che erano nei vasi del salotto. E quel ritratto di fanciulla pudica, vestita di bianco, con quei lumi, quelle rose sparse davanti, acquistava un carattere sacro, pareva l’immagine di una vergine, che si fosse meritata la gloria dei buoni con le sue celesti virtù.

Il principe, spossato dal viaggio, da tutte le commozioni di quella giornata, si era co[p. 245 modifica]ricato con lo sguardo fisso nel volto della sua santa ed era passato, senza accorrersene, dall’estasi al sogno. E la vedeva non più lì, in quella stanza, a pochi passi dal suo letto; ma campeggiante in alto, circonfusa di luce, con l’occhio benignamente rivolto su di lui, che la contemplava affascinato e non aveva altra aspirazione che quella di adorarla.