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XII.

Appena don Pio fu rimasto solo lo assalì il desiderio prepotente di ottenere il perdono di Maria, ma come chiederlo? Non poteva uscire e non sarebbe potuto uscire per un pezzo perchè era deforme; non poteva far chiedere a Maria quel perdono da altri; bisognava che scrivesse.

Il pensiero di affidare una lettera, che doveva passare per più mani prima di giungere a destinazione, il segreto del suo cuore, l’onore di quella donna, che ora aveva per lui il prestigio delle sante figure muliebri cui la virtù pone una aureola di raggi luminosi intorno al capo, lo sgomentavano, ma tanto per isfogare il suo [p. 204 modifica]dolore, il suo pentimento, prese la penna e si mise a scrivere a Maria, gettando poi nel caminetto tutte le lettere umili, pentite, appassionate, nelle quali aveva versato l’amore che lo consumava.

Mentre stava guardando la fiamma che divorava alcuni pezzi di carta e con le molle spingeva quelli rimasti illesi sui carboni, donna Camilla entrò nella camera del marito, e con l’occhio indagatore, l’occhio geloso, che indovina prima di capire, seppe che il marito aveva scritto a Maria, e se avesse potuto, se egli non fosse stato presente, si sarebbe inginocchiata dinanzi al caminetto e con le sue mani, che avevano orrore della polvere, che si chiudevano come le foglie della sensitiva, appena qualche cosa di sudicio le sfiorava, avrebbe disputato al fuoco quei pezzetti di carta, che contenevano la confessione di suo marito, il suo grido di dolore, l’appello che faceva alla generosità di un cuore di donna.

Ella finse di non accorgersi di nulla e sedutasi su una poltroncina, a fianco del caminetto, spiegò la rozza coperta di lana, stendardo di beneficenza, dietro alla quale nascondeva la perfidia del suo carattere, e, come una assistente cui il dovere impone di non muoversi [p. 205 modifica]dalla camera di un malato, rimase a spiare l’impazienza del marito, il suo abbattimento, il suo amore.

Don Pio sentiva quello spionaggio e provava una specie di compiacimento pensando alle sofferente di sua moglie, alla tortura che le imponeva. Quando una persona è d’ostacolo all’appagamento di un desiderio, essa diviene, per chi da quel desiderio appagato spera un conforto, un nemico che volentieri si stritolerebbe, si annienterebbe.

E don Pio in quel momento stringeva le mani, si conficcava le unghie nel palmo, come le avrebbe conficcate nelle carni di donna Camilla, se le sue consuetudini signorili non gli avessero impedito di offendere materialmente sua moglie.

Quando Giorgio, sull’imbrunire, portò i lumi, don Pio era affondato in una poltrona fingendo di dormire; lei, con l’occhio fisso sulle ceneri del caminetto, chiedeva loro il segreto che le avevano sottratto.

La duchessa prima di pranzo scese dal figlio, come faceva ogni sera, e allora soltanto don Pio finse di destarsi, di ritornare alla vita.

Seppellito in una coperta di pelliccia, con un berrettino di panno scozzese in testa, nell’aprire gli occhi egli vide la sua [p. 206 modifica]ridicola figura riflessa in uno specchio, e rise dentro di sè della gelosia della moglie. A chi poteva piacere, chi poteva commovere, brutto com’era?

— Dio, che orrore! — esclamò buttando in terra la pelliccia e andando vicino al grande specchio per meglio esaminarsi. — Potrei servire di spauracchio ai passerotti in un campo di grano.

La duchessa rise di cuore vedendo una espressione gaia sulla faccia del figlio; la moglie sentenziò:

— La bellezza del corpo è la perdizione dell’anima.

— Preferirei esser dannato, piuttosto che brutto come sono ora, — rispose il principe. — Il popolo considera la bellezza come una benedizione del cielo, e io divido l’opinione del popolo. La vista di un bel volto, di un bel corpo mi mette nell’anima la serenità. Credo che anche la coscienza della propria bellezza renda migliori; i brutti sono in genere anche dispettosi.

La principessa sentì l’offesa, che le era diretta, ma continuò impassibile a lavorare alla rozza coperta di lana. Don Pio, che voleva provocare in lei un moto di dispetto e sperava di farla uscire, di liberarsi di quella [p. 207 modifica]incresciosa vigilanza, capì che la principessa non avrebbe lasciato quella camera neppure se egli le avesse detto in faccia apertamente: — Vattene!

E si rassegnò sperando che la notte almeno sarebbe stato solo, che la notte avrebbe potuto mettere in carta tutte le idee che gli si affollavano alla mente, scrivere tutte le frasi umili, di pentimento e di adorazione, che in quel momento gli venivano dal cuore alle labbra.

Pazientò prima di pranzo, pazientò durante il pranzo mentre Giorgio assistito da un altro cameriere lo serviva, pazientò dopo, quando la duchessa, donna Camilla e l’Onorati andarono a prendere il caffè intorno al caminetto della sua camera.

In quei giorni l’Onorati, scartabellando le carte d’archivio, aveva scoperto la corrispondenza fra una improvvisatrice napoletana del 1700, nota in Arcadia sotto il nome di Fille Arimantea, con un principe della Marsiliana. Il bibliofilo, leggendo le lettere, quasi tutte in versi, della poetessa e le risposte del principe, aveva ricostruito il ritratto di lei, così al fisico come al morale e giurava e spergiurava che quella donna, nonostante fosse conscia del grande affetto che aveva [p. 208 modifica]ispirato all’illustre patrizio, e dell’ascendente che aveva sull’animo di lui, si era serbata onesta.

— Io non credo all’onestà di certe donne che, trovandosi in condizione inferiore, speculano sull’amore che sanno di aver destato in un uomo a esse superiore per nascita e per censo, — disse la principessa.

Don Pio, che capiva il pensiero della principessa ed era ferito dal tono di sprezzo con cui essa parlava, fremeva, pur stando zitto, ma l’Onorati aveva preso ad amare l’eroina di quel romanzetto, prima perchè gli pareva di averla scoperta e in secondo luogo perchè l’intelligenza e la grazia che rivelavano le lettere della Fille Arimantea avevano parlato alla sua immaginazione di poeta-letterato.

Egli la difese dunque a spada tratta, e sostenne che la principessa sentenziava in quel modo perchè alla sua età siamo poco indulgenti, e perchè le signore nate in una condizione elevata non sono al caso di apprezzare i nobili sacrifizi, gli eroismi delle donne povere, delle donne che lavorano.

— Non faccio altro che trovarmi a contatto con la miseria, — rispose la principessa, — e queste grandi virtù non le vedo.

— Perchè ella confonde miseria con po[p. 209 modifica]vertà, perchè la miseria avvilisce e fa cercare avidamente l’aiuto sotto qualsiasi forma si presenta, mentre la povertà è altera, la povertà tollera il presente, perchè la sostiene la speranza di ricompense più alte. Vuole un paragone? la miseria potrebbe essere raffigurata dallo schiavo romano, che presenta la schiena alla frusta del padrone e con la bocca cerca di afferrare i rimasugli che egli lascia cadere dalla mensa sontuosa; la povertà dal cristiano, che ha scosse le catene, e benchè lo dilanii la lame, respinge col piede il dono del ricco e guarda in alto, dove vede brillare la ricompensa, che spetta a quelli che sanno pazientemente soffrire.

— Quanta poesia! — esclamò la principessa in tono aspro. — Caro Onorati, lei ha un bel vestirmi da eroine le sue plebee, tanto non riuscirà mai a convincermi che esse non speculino sull’amore dei signori. Non fanno le oneste altro che quando vogliono ottener molto, o credono si tratti di una speculazione fallita.

Don Pio aveva chiuso gli occhi per non vedere la moglie; vedendola egli non sarebbe potuto rimaner fermo sulla poltrona mentre lei, con la sua voce aspra e nasale, gettava fango a manate sulla pura e onesta donna [p. 210 modifica]che aveva fatto vibrare nel principe la corda del sentimento, gli aveva imposto, a lui cinico, a lui miscredente, il rispetto per la virtù, la fede nella onestà femminile.

— Come ti riscaldi, Camilla, — disse la duchessa svegliandosi da un pisolino e sentendo la voce antipatica della nuora, che passava nell’aria producendo il suono di un frustino agitato con mano irata.

La principessa tacque e allora nel silenzio della stanza si udì il tic-tac affrettato, concitato dei ferri, che non era meno increscioso della voce della lavoratrice e ne rivelava lo stato irritante dell’anima.

L’Onorati taceva per non provocare un’altra discussione; il principe taceva fingendo stanchezza e sperando che lo avrebbero lasciato solo; e la duchessa, ora che non udiva più la voce della nuora, dormiva di nuovo placidamente.

Così rimasero un pezzo a far compagnia al fuoco che lentamente si spegneva, finchè l’Onorati capì che era tempo di andarsene, e la duchessa e la principessa, augurata la buona notte a don Pio lo lasciarono solo.

Allora egli, come se avesse rotto l’incantesimo che lo teneva prostrato, si alzò e di scatto buttando in terra la pelliccia e avvi[p. 211 modifica]cinatosi alla scrivania prese a scrivere, tracciando febbrilmente sulla carta tutti i pensieri, tutte le frasi supplichevoli di oblio e di perdono, che gli si erano affollate alla mente in quelle ore d’inerzia. Ma spesso venivagli fatto di giungere in fondo a un foglio, di aver riempito quattro facciate e, rileggendo ciò che aveva scritto, di non esser contento di una espressione o di una parola, e di gettare il foglio sulla scrivania e ricominciare da capo.

La principessa, che vigilava, che la gelosia teneva desta, stette lungamente in quella notte con l’occhio al buco della serratura e sempre vide il marito intento a scrivere, sempre udì lo scricchiolio della penna sulla carta. Ella era sicura che don Pio scriveva a Maria, e vegliava come un cerbero perchè quella lettera non le sfuggisse dalle mani.

Verso le quattro ella sentì il marito che, uscendo di camera, andò nel salottino, poi aprì l’uscio che dava nella galleria e subito dopo lo richiuse e si coricò, ed ella, sempre con l’occhio e l’orecchio alla porta, spiò il momento in cui don Pio si era addormentato, e, scalza, per non fare alcun rumore, andò ella pure nella galleria al buio, tastò sulla [p. 212 modifica]tavola dove il principe soleva mettere le lettere, che Giorgio recapitava in mattinata, ne trovò una sola, l’afferrò e rientrò in camera sua tremante, come se avesse commesso un delitto di sangue.

La lettera che donna Camilla guardava con gli occhi sbarrati era proprio diretta a Maria Caruso, e don Pio, supponendo che la moglie dormisse, e dopo lunghe esitazioni, aveva creduto di destar minor sospetto ponendola, come tutte le altre lettere, al posto consueto, che consegnandola a un domestico il quale poteva essere spiato dalla principessa e indotto a parlare. Egli sapeva che Ubaldo coricandosi molto tardi dormiva fino alle undici e che egli rispettava le lettere dirette alla moglie, perchè voleva che le sue pure fossero rispettate, così era sicuro che Maria l’avrebbe ricevuta mentre Ubaldo dormiva; anche se le fosse giunta mentre egli era desto, la lettera sarebbe giunta chiusa nelle mani di lei.

Donna Camilla aveva messa la lettera dinanzi a sè sul tavolino e su quella busta piovevano direttamente i raggi del lume, che stava posato a poca distanza; ma ella non aveva il coraggio di strappare quella busta, di leggere quello che conteneva. Ora che [p. 213 modifica]quel segreto era in suo potere, che non c’era altro ostacolo da rimuovere se non quello di un foglio di carta, il coraggio le mancava, tanto il rispetto per gli ostacoli morali è profondamente inveterato nella coscienza di ogni individuo.

Mentre ella stava a guardare la busta, senza trovare in sè il coraggio di strapparla e di leggere la lettera, un pensiero perfido le traversò la mente.

— Perchè non mando questa lettera al marito? — domandò a sè stessa. — Che m’importa di aver la conferma che don Pio ama perdutamente quella donna? Mi basta che il marito lo sappia, che non possa più ignorare questo legame, e dopo aver saputo tutto sia costretto a andarsene, e la porti via, lontano di qui, quella maledetta creatura che mi toglie tutto!

E con la stessa prontezza con cui quel pensiero sinistro le era balenato nella mente, lo mandò ad effetto. Ella prese una busta stemmata, simile a quella di cui erasi servito don Pio, e dopo avervi scritto sopra l’indirizzo di Ubaldo Caruso, contraffacendo il carattere del marito, chiuse la lettera dentro alla propria busta e andò furtivamente a posarla sulla tavola della galleria. Quando sentì il passo di [p. 214 modifica]Giorgio, che andava ogni mattina a prender le lettere, allora soltanto si coricò per non far capire alla sua cameriera che aveva passata la notte vegliando.

Ma quella lunga notte invernale rimase impressa nella monte di donna Camilla come la notte più angosciosa, più tremenda della sua vita.

Ella non credeva di poter tanto soffrire; non supponeva neppure che l’affetto disprezzato, la gelosia, il sentimento della inferiorità dinanzi a una rivale, cui la sua mala azione prestava l’attrattiva della vittima e la circondava con l’aureola del martirio, fossero capaci di sottoporre il suo cuore freddo a tanti strazi. E in quel tumulto di passioni le tempie non le martellavano, il cuore non affrettava i suoi palpiti; ella sentivasi invece la testa cinta da un cerchio gelato e il cuore, facendosi immobile, le impediva di respirare. Anche coricata parevale di sprofondare, di essere inghiottita dalla lettiera e allora alzava le mani scarne, afferravasi alle colonne tornite del letto o alle cortine di broccato, e apriva la bocca per gridare, ma nessun suono le usciva dalla gola serrata.

Ingiusta, come tutte le donne gelose, ella non accusava il marito, accusava Maria, e col cuore invocava sul capo di lei tutte le [p. 215 modifica]maledizioni più atroci, più spaventose; e come aveva fede di essere ascoltata da Dio, dalla Madonna, dai Santi quando pregava; così nutriva fiducia di essere ascoltata ora che imprecava e malediva.

E avendo coscienza di non poter lottare contro Maria, che, per suo maggior tormento, apparivale bella e adorna di una grazia incantevole, desiderava di vederla scomparire, sparire per sempre dal mondo.

— Fatela morire! — pregava con gli occhi rivolti al cielo, senza che essi s’inumidissero neppure di una lagrima di rabbia.

In quella tremenda notte donna Camilla non provava neppur più rimorso per quel che aveva fatto; non era sgomenta di ciò che poteva accadere se Ubaldo leggeva la lettera di don Pio; tutto le pareva nulla in confronto delle sue sofferenze, e quando il dubbio la invadeva che neppure la morte avrebbe potuto cancellare dal cuore di don Pio l’immagine della bella creatura, allora agitava la testa sui guanciali, cessava d’imprecare, di maledire, di pregare, e provava tutto l’orrore, lo sgomento dalla propria impotenza.