Il Parlamento del Regno d'Italia/Luigi Anelli

Luigi Anelli

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Giuseppe Arconati Visconti Ranuzio Anguissola Scotti
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[p. XV modifica]Luigi Anelli.

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ANELLI LUIGI, sacerdote

deputato.


Da Giuseppe e da Anna Maria Barni è nato in Lodi Luigi Anelli, nell’anno 1813.

Dotato da non ordinario ingegno, applicatissimo sin dall’infanzia allo studio, visse gli anni giovanili impallidendo sui classici, e sopratutto sui greci autori, la cui lingua e le cui opere si rese famigliarissime.

Divenuto sacerdote, e apprezzato dai propri concittadini pel suo sapere, venne scelto a vice-direttore del ginnasio di Lodi, e quindi a professore di filosofia nel liceo dell’istessa città.

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Si fu in quel torno, cioè dal 1845 al 1848, ch’ei pubblicò una traduzione di Demostene, accompagnandola con erudita prefazione, ond’ei s’ebbe il plauso di tutti i dotti che ammirarono in quella la retta e profonda interpretazione del testo, non che la dignità dello stile e la purezza della lingua in che è voltato, corrispondente in tutto alla magniloquenza del diserto oratore d’Atene.

Scoppiata a Milano la rivoluzione del 1848, vi troviamo con sorpresa l’Anelli qual membro del Governo provvisorio; e diciam con sorpresa, giacchè dobbiam confessare che non sappiamo comprendere come mai si pensasse a divellere dalle studiose sue veglie notturne e dalla sua cattedra l’onorando professore per convertirlo in reggitore di popoli, e ciò in momenti tanto difficili qual si erano quelli.

Noi ci dichiariamo alieni dall’approvare la condotta politica serbata dal sacerdote Anelli in seno al Governo provvisorio, ma siamo molto inchinevoli a scusarla. Egli non era un uomo dei dì nostri, ma un prisco ateniese, un romano dell’antica repubblica; pensava, parlava ed agiva a quel modo, e ognun sa se quel modo, al giorno d’oggi, sia il migliore per riuscire a bene; quindi accadde che non riuscisse ad altro, in tal funesta occasione, che ad affrettare la ricaduta delle sorti italiane.

Consentaneo, del resto, a sè medesimo e alla parte di tribuno della plebe ch’egli avea preso a rappresentare, l’Anelli rimase fermo al suo posto, quando già tutti i suoi colleghi, ad eccezione del Litta, se ne erano allontanati, e che l’oste nemica irrompeva nella desolata metropoli lombarda.

Sfuggito agli Austriaci — che del resto non aborrivano troppo gli uomini della tempra dell’Anelli — e refugiatosi a Nizza, rivisse in quella dolce città vita studiosa e tranquilla, tornando di tal guisa, per così dire, nell’elemento suo proprio.

Colà, nel 1850, e sotto il velo dell’anonimo pubblicò una sua storia d’Italia, che si parte dal 1814 e viene fino al decennio penultimo.

La forma di tal libro, scritto un po’ sulle orme del [p. 38 modifica]Botta, è sapiente; la lingua vi è pura, sebbene alcun poco antiquata: lo stile n’è dignitoso, quantunque la frase sia sovente contorta, e il periodare abbia un po’ troppo del boccaccesco; l’essenza sembrane leggiera, o avventata od erronea; difetti questi che ne pajono proprj di tutti gli scrittori che si mettono a dettare l’istoria con idee fisse e massime preconcette.

Nelle elezioni generali dell’anno corrente Lodi ha mandato il proprio cittadino qual suo rappresentante al primo Parlamento dell’ingrandito regno, sperandolo per avventura emendato dopo tanti e sì lunghi anni trascorsi in esilio.

Vane speranze! L’Anelli siede bene all’estrema destra, perchè forse un usciere inconsapevole, giudicandolo al di lui abito strettamente ecclesiastico, gli avrà additato quel posto, ma opina e vota col raro stuolo dell’estrema sinistra.

Nella discussione intorno alla cessione di Savoja e Nizza alla Francia, egli ha letto un discorso, in cui la stranezza di certe espressioni non si accoppiava male colla virulenza di alcune invettive... La Camera ha finito col togliergli la parola.

Del resto, s’ei batte quella via, ne siam convinti, nol fa certo di mala fede; la scelse un giorno in cui potè crederla la migliore, e vi dura, all’incontro di molti altri che, ravvisatisi, se ne ritrassero, perchè forse ritiene indecoroso il lasciarla.

A trattarlo, lo si trova persona cortese e anche affabile, una volta ch’egli abbia superata certa sua selvatichezza, non inurbana, però; ma lo si scorge quale lo si può giudicare ed agli alti ed agli scritti: ignaro delle cose, degli uomini, e dell’andamento del tempo.