Il Parlamento del Regno d'Italia/Giacomo Astengo

Giacomo Astengo

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Francesco Arese Luigi Baino


Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


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ASTENGO GIACOMO, avvocato

deputato.


Nato a Savona nel febbrajo del 1814 da Ambrogio e da Vittoria Ponzoni, egli fu convittore di quel collegio di Scolopî, dal quale uscì per recarsi all’università di Genova, ove si laureò in legge nel 1836. Rientrato a far pratiche nella città nativa, ed avvocatatosi, si diede ad esercitare con illibatezza e non comune ingegno la propria onorevole professione, recandosi spesso a difendere cause nell’antica città dei dogi, al Senato della quale, dapprima, quindi alla suprema Corte d’appello fu addetto come patrocinatore.

Essendosi messo in sì commendevole modo in evidenza, non è da far meraviglia, se sopraggiunti gli avvenimenti del 1848, instauratori delle italiche franchigie, l’avvocato Astengo venne tosto chiamato a sedere qual membro nel municipio di Savona, ed ebbe parte principalissima nell’attuazione di tutte quelle misure e istituzioni che rispondevano meglio all’emancipata e progressiva condizione dei popoli.

Così, per citare un solo esempio tra i molti che potremmo invocare, diremo come l’avvocato Astengo fosse uno de’ primi organizzatori, e senza dubbio uno dei precipui oratori del circolo popolare di Savona, entro il quale, come ci consta dai conto-resi che pubblicava di quelle adunanze il Popolano Ligure, foglio politico del luogo, l’Astengo proferiva rimarchevolissimi discorsi. Chè anzi non possiamo trattenerci dall’accennare ad un di quelli, pronunciato nel febbrajo del 1849, intorno al potere temporale de’ pontefici, questione vitale per noi Italiani, e che appariva allora, per ricevere forse — giova sperarlo! — la sua soluzione ai nostri giorni. Le argomentazioni prodotte dall’Astengo in tal discorso ne sembrano calzare in sì mirabile guisa alle circostanze presenti che crediam merito dell’opera il riassumerne taluna, cavandola dal surriferito giornale in data 3 marzo 1849.

L’oratore, dopo avere sviluppato il tema che la [p. 58 modifica]separizione del potere temporale dallo spirituale debba riuscire sommamente vantaggiosa all’Italia, senza d’altronde far danno alla religione, la quale anzi ritrarrebbe da tal separazione immenso profitto, passò a combattere l’opinion di coloro che proclamano l’indivisibilità dei due poteri, col mostrarla contraria alla ragione, e contraddetta dal fatto dei primi secoli della Chiesa. Provò in quella vece la loro incompatibilità, traendo anche argomento dallo Statuto dato da Pio IX ai Romani, e dalla di lui condotta politica. Mostrò pure che chi sostiene l’indivisibilità dei due poteri profana la religione di Cristo, facendone una dipendenza ed un accessorio del potere temporale ed equiparando alla durata instabile del monarcato la durala del pontificato, che per fede hassi a credere debba sussistere sino alla consumazione de’ secoli.

Poscia, prendendo a disamina i due famosi motivi invocati da Pio IX nella protesta di Gaeta, tolse a confutarli, sostenendo a buon dritto che il possesso qualunque ei sia non può mai recar pregiudizio di sorta alla sovranità del popolo, inalienabile di natura sua ed inviolabile; ed osservò che se il possesso è basato sull’assentimento della sovranità popolare, oltre il termine assegnatogli da tale assentimento non può durare legittimo; che se per contro s’appoggia sulla forza materiale, è allora illegittimo, violento, dura solo finchè dura la forza che lo mantiene, non dissimile in ciò da quel possesso che lo straniero tenta a ogni patto di conservare in Italia, e che gl’Italiani colla santità del diritto s’adoperano quanto meglio sanno a ritorgli.

Finì quindi col combattere vittoriosamente l’obbietto: il dominio della Santa Sede rendersi necessario o indispensabile nell’ordine presente di Provvidenza pel libero esercizio dell’apostolato cattolico, adducendo a principale argomento, come il pontefice nulla abbia a temere dell’opera di governi inciviliti e liberi, e da popoli che abbattono il dispotismo per governarsi appunto, non colla forza, ma colla ragione, prendendo a norma dei loro atti le sublimi prescrizioni di quel medesimo Evangelio cui incombe al vicario di [p. 59 modifica]Cristo di conformare, egli primo di tutti, ogni proprio operato.

Nel marzo del 1849, trattandosi di nominare un provveditore agli studi nella provincia di Savona, tale importante carica fu conferita con regio decreto all’avvocato Astengo, che la sostenne con frutto degli amministrati e con sua lode fino al giugno del 1855, epoca in cui si dimise volontario da tali funzioni, conservando tuttavia per rescritto il titolo onorifico di provveditore.

Si fu nelle elezioni generali del 1852 che l’avvocato Astengo fu inviato per la prima volta a sedere nel Parlamento nazionale, ove non tardò a segnalarsi in modo tale da esser considerato, sopratutto in materia giuridica, uno de’ più notevoli membri della Camera.

E i suoi colleghi gli hanno date prove non dubbie del conto in cui lo tenevano, chiamandolo a relatore della commissione del primo progetto di ordinamento giudiziario, onde vennero introdotte in Piemonte le Corti d’Assisie coi giurati; e quindi nel 1856 pure a relatore sulla seconda proposta dello stesso importante progetto di legge.

Recentemente, infine, dopo la guerra, nel tempo ancora dei pieni poteri sotto il ministero Rattazzi, ei fu chiamato a far parte della commissione cui venne dato l’incarico di esaminare il progetto di riordinamento giudiziario.

Saggiamente liberale e progressista, l’avvocato Astengo ha sempre dato il suo appoggio, appoggio leale e disinteressato, al ministero Cavour. Nelle recente rilevantissima votazione per la cessione di Savoja e Nizza alla Francia, nonostante le sue simpatie pel signor Rattazzi, egli non ha creduto doverlo seguire nella sterile via nell’astensione ed ha lasciato cadere una palla bianca nell’urna.

L’avvocato Astengo è cavaliere dell’ordine Mauriziano fin dal 1856.