Il Parlamento del Regno d'Italia/Carlo Corradino Chigi

Carlo Corradino Chigi

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Bartolomeo Cini Giuseppe Govone
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


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È nato in Fivizzano della Lunigiana, da una nobile ed antica famiglia, che per parte del padre, ha lo stipite in Siena, e discende da un ramo della principesca di Roma; per parte di madre (contessa Benedetti) si unisce ai Sarteschi, famiglia essa pure di antica e nobilissima schiatta. Ma se il Chigi nacque toscano, fu educato nel collegio della marina militare di Genova, d’onde uscì col grado di alfiere.

I servigi resi da lui nella marina Sarda, furono dei più brillanti, tanto che, giovine ancora, si ebbe il comando di una corvetta, colla quale si distinse in ispecialissimo modo nella spedizione contro Tripoli di Barbaria, che gli valse la promozione a un grado superiore, e la decorazione dei valorosi.

Il granduca di Toscana, ov’egli tornava a quando a quando a visitare la famiglia, volle far a qualunque patto l’acquisto di un così brillante ufficiale che d’altronde era nato sul suolo toscano. Dietro dunque i reiterati inviti di Leopoldo II, il Chigi si dimise non senza rammarico dal servigio sardo, e accettò il grado di colonnello nell’armata Toscana, e il governatorato dell’isola dell’Elba.

In questo mezzo, sopraggiunsero gli avvenimenti politici del 1848, e a Corradino Chigi, promosso generale, fu affidato un comando importante nell’esercito toscano che mosse a guerreggiare allato ai Piemontesi sui campi di Lombardia.

Chi è che non conosce la celebre giornata di Curtatone? Chi è che non ricorda fremendo d’ammirazione, l’eroica condotta del piccolo esercito toscano, in quella tremenda fazione che contribuì tanto al proseguimento della vittoria di Goito?

Eppure bisogna convenirne oggidì, si faceva un ben mediocre caso del corpo d’armata che veniva dalla Toscana in soccorso ai Piemontesi; si diceva che [p. 802 modifica]la mollezza tradizionale dei figli d’Etruria, la poca disciplina delle truppe di linea li rendevano disadatti alla guerra, e si reputava che al primo scontro con le schiere nemiche, essi dovessero imitare il poeta del Lazio, che non si perita a confessare d’aver lasciato il campo di battaglia più che in fretta, non bene relicta parmula, gettando via l’arme per essere più spedito alla fuga.

Ma il fatto, questa prova suprema ed irrecusabile, dimostrò quanto ingiusta fosse la prevenzione che si nutriva contro il valore dei Toscani, e palesò questi esser degni di stare allato ai più intrepidi tra i figli d’Italia.

Come che la civiltà non fosse madre di tutte le virtù, e quasi che un corpo umano, per debile, per isnervato che sia non possa divenir capace de’ più sublimi conati una volta che si senta animato da un fermo volere e dal desiderio onnipossente di acquistarsi fama d’eroe.

Il coraggio che viene dalla riflessione non è forse il più nobile e il più persistente, e v’ha egli forza fisica più idonea a compier prodigi di quella che si appoggia sulla energia morale?

E in vero i Toscani che si trovavano chiusi entro le appena disegnate trincee di Curtatone, erano pochi di numero, mal disciplinati in effetto, e mediocremente armati. Eppure, venticinque in ventotto mila uomini di truppe austriache attaccarono quel pugno di valorosi, dei quali si facevano beffe, e che pensavano disperdere, sol col mostrarsi. E i Toscani ristrettisi l’un contro l’altro, opposero una resistenza delle più meravigliose, combattendo e cadendo feriti e spirando l’anima col sorriso sulle labbra, e col grido di viva Italia mormorante sulle esanime bocche. Tanto che il nemico dovette perdere tutta una giornata a superare un ostacolo ch’ei credeva non dover neppure contare come una difficoltà. Inutile dire quante vittime cadessero in quella fazione gloriosa. E il Chigi fu una di esse; ei s’ebbe la mano destra così fracassata da un pezzo di mitraglia, che l’amputazione fu subito giudicata indispensabile a salvare la vita. Venne [p. 803 modifica]notato ch’ei sostenne la dolorosissima amputazione della disarticolazione e del taglio dei muscoli e dei tendini, non gettando un lamento e gridando esso pure come i morenti del campo: viva l’Italia! Rientrato a Firenze per continuare la cura necessaria della sua ferita, gli venne affidato il comando supremo della guardia nazionale, ch’ei tenne fino al momento della fuga di Leopoldo II della Toscana.

Da quell’istante in poi il Chigi rientrò nella vita privata dalla quale non è più uscito che per incarichi conferitogli dal Comune e dalla Provincia e per ricevere dal Re d’Italia, figlio del sovrano sotto l’augusta bandiera del quale egli ha fatte le sue prime armi, la dignità senatoriale.