Il Leone di Damasco/XXII. Le ultime difese di Candia

XXII. Le ultime difese di Candia

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XXII. Le ultime difese di Candia
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XXII.

Le ultime difese di Candia


Tre giorni dopo, la squadra veneziana, sospinta da buoni venti d’oriente, affondava le ancore nella piccola baia di Capso, occupata solamente, in quel momento, da un laneko greco, un minuscolo veliero lungo appena quattro metri, eppure così carico di generi diversi, da quasi affondare.

Senza dubbio si era rifugiato là dentro per paura delle galere mussulmane che facevano, nonostante l’assedio, delle rapide corse verso l’Arcipelago per spiare l’arrivo dei rinforzi veneziani, sbucanti dall’Adriatico.

Le navi erano appena giunte quando si vide giungere Domoko, montato su un robusto cavallo, che pareva d’origine turca, seguito da quattro suoi amici, pure montati e formidabilmente armati.

— Ecco l’amico fedele e prezioso — disse l’ammiraglio a Muley-el-Kadel. — Solamente quell’uomo potrà, coll’aiuto dei suoi, farvi entrare in Candia. Sapete già quanto vale.

— Sì, ammiraglio.

— Potete quindi affidarvi interamente a lui.

— Voi rimarrete qui?

— Fino al vostro ritorno.

— Allora mio padre rimarrà a bordo della capitana.

— È già convenuto, Muley. Fate però presto a ricondurre vostra moglie, poiché i turchi potrebbero sorprendermi e costringermi a prendere il largo. Domoko non sarà imbarazzato a fornire voi, Mico e Nikola di cavalli. Ha fatto certamente, durante la nostra assenza, una buona raccolta di bestie mussulmane.

— Non vorrei esservi d’imbarazzo, ammiraglio.

— Niente affatto, Muley. Se i turchi mi assaliranno, prenderò il largo, per tornare più tardi a raccogliervi. Non vi abbandonerò, ve lo assicuro.

Domoko intanto era salito a bordo della capitana, insieme ai suoi compagni. Fu subito combinata la corsa verso Candia, per salvare la duchessa prima che avvenisse una strage generale.

Già si sapeva che la città, oppressa dalle bombarde mussulmane, non resisteva che per un vero miracolo, avendo i bastioni e le torri enormemente sofferto durante quel lunghissimo assedio. Verso sera un compagno di Domoko partì verso l’interno dell’isola, per provvedersi dei cavalli necessari a Muley, a Mico ed a Nikola.

Tutte le fattorie erano ben provviste di bestie turche, poiché i volteggiatori della Mezzaluna, che osavano scorrazzare le campagne, cadevano in gran numero sotto le archibugiate dei candioti, per la maggior parte abilissimi tiratori, vivendo di caccia.

Alle cinque del mattino, otto cavalli calpestavano le sabbie della baia. Altri tre erano stati condotti dall’interno, tutti splendidi animali dalle lunghe criniere e le lunghe code, la testa leggera, il ventre stretto, le zampe nervose.

— Con questi arabi potrete fare una rapida corsa — disse l’ammiraglio, indicando a Muley gli animali scalpitanti. — Candia finirà col popolarsi di cavalli turchi. La guerra a qualche cosa sarà servita a questi disgraziati isolani. Partite e tornate al più presto possibile, poiché i turchi possono riuscire a scovarmi anche qui. Forse hanno già un sospetto.

Alle sette, il Leone di Damasco, dopo d’aver salutato il padre e averlo rassicurato, scendeva sulla spiaggia colla sua scorta, armata d’archibugi, di pistole e d’armi bianche.

Un ultimo saluto, cui risposero i veneziani con un gran grido, poi gli otto uomini montarono a cavallo e scomparvero rapidamente dietro le alture. Domoko, il più pratico dell’isola, si era messo alla testa del drappello, e guidava la corsa in compagnia di Nikola, il quale non valeva meno del cretese per conoscenza di terreni.

Una splendida luna versava torrenti di luce azzurrina sulle campagne deserte, allungando immensamente le ombre dei cavalieri. Fra i filari delle viti, ormai già spogliati dei loro grossi e dolcissimi grappoli dorati, gli uccellacci della morte zufolavano sinistramente, domandando la cena.

A mezzanotte, gli otto cavalieri, dopo una corsa rapidissima, giungevano alla fattoria di Domoko. I turchi non erano più ritornati a vendicare i loro compagni, sicché questa si rizzava ancora sulla malinconica campagna cosparsa di ossami umani e di cavalli.

— Non andiamo più innanzi, per ora, signore — disse il cretese al Leone di Damasco. — Sarebbe pericoloso giungere a Candia all’alba.

— Dovremo fermarci qui fino a domani sera? — chiese Muley.

— Sì, mio signore. Senza il segnale, noi non potremmo avvicinarci ai bastioni senza cadere sotto qualche colpo di mitraglia, o qualche scarica d’archibugi.

— Quale segnale?

— Un fanale rosso.

— Mentre sul mare vale il fanale verde. Orsù, rassegniamoci, ed aspettiamo.

— E poi, signore, voglio mandare un paio dei miei amici ad esplorare i dintorni della città. Non sappiamo a quale punto siano i turchi coll’assedio.

— Che Candia sia stretta tutta intorno in modo da rendere impossibile la nostra entrata? Ardo dal desiderio di rivedere mia moglie e di metterla in salvo prima che succeda la grande strage. I veneziani ormai non potranno resistere a lungo.

— Purtroppo, signore — rispose Domoko, mettendo delle scranne dinanzi alla lunga tavola. — Il loro valore non varrà a salvare la bandiera della Serenissima, a meno d’un miracolo.

— Che può darsi si compia, Domoko — rispose Muley-el-Kadel.

— In quale modo?

— Tutte le nazioni cristiane sono stanche dell’insolenza mussulmana, e pare che abbiano deciso di dare un gran colpo al Sultano.

— Chi ve lo ha detto?

— L’ammiraglio.

— Allora qualche cosa di vero ci deve essere, ma a Candia, giungeranno troppo tardi i cristiani dell’Europa.

— Chi lo sa!...

Domoko scosse la testa con un fare scoraggiato, e mise in tavola un mezzo capretto arrostito e parecchi pani di granoturco, duri ormai come ciottoli. I suoi compagni intanto erano scesi nella cantina ed avevano portato sopra dei vecchi fiaschi di vino bianco, tutti avvolti da ragnatele.

— Ceniamo — disse il cretese. — Cenano anche i nostri cavalli.

Gli otto uomini mangiarono in fretta, vuotando parecchi bicchieri, poi si gettarono sulle sedie, eccettuato uno, incaricato di vegliare sulla sicurezza generale. La lampada era stata spenta, affinché i volteggiatori turchi, se per caso si aggiravano nei dintorni, non s’accorgessero che la fattoria era abitata. La notte passò senza allarmi, e quando l’alba sorse, la campagna immensa era ancora deserta.

— Ripartiremo questa sera — disse Domoko a Muley. — Oggi, intanto, due dei miei amici faranno una punta verso Candia. Se, come spero, l’entrata sarà possibile, a mezzanotte noi supereremo i bastioni.

A mezzogiorno, due cretesi, dopo d’aver pranzato, montarono a cavallo e si spinsero animosamente verso la città assediata, scomparendo ben presto fra i folti vigneti. Pei rimasti, e soprattutto pel Leone di Damasco, furono lunghissime ore d’ansietà estrema. Fu solamente verso il tramonto che i due cretesi, coi cavalli bianchi di schiuma, tornarono alla fattoria.

— E così? — chiese Muley-el-Kadel.

— L’assedio è sempre alle medesime condizioni — rispose uno dei due cretesi — e degli uomini ben decisi non avranno grandi difficoltà ad entrare in Candia.

— Da quale parte? — chiese Domoko. — Dal bastione di Malamocco?

— No, non vi è che quello del Ponte dei Pugni che sia ancora libero dalle strette dei turchi. Tutti gli altri hanno le parallele davanti armate di colubrine e di bombarde.

— Sicché l’accerchiamento è quasi completo? — chiese Muley.

— Quasi, signore, poiché anche le colline che si ergono a mezzodì della città, sono state occupate. È vero che migliaia e migliaia di turchi giacciono ancora insepolti in fondo ai burroni.

— Sicché tu ci prometti di farci entrare? — chiese Muley.

— Sì, signore.

— E volteggiatori ne avete incontrati? — chiese Domoko.

— Pare che i mussulmani non ne abbiano quasi più, dopo una disperata uscita dei veneziani.

— Come l’hai saputo tu? — domandò Domoko.

— Da uno dei nostri fratelli in agguato nei campi, in attesa di quelle canaglie.

Strigliarono i cavalli, diedero loro abbondante biada, e quando il sole scomparve gli otto uomini montarono in sella, completamente armati. Domoko, sotto l’ampio mantello di pelle di capra, portava un piccolo fanale rosso, senza il quale non avrebbero potuto avvicinarsi ai bastioni.

— Via!... — gridò il Leone di Damasco, allentando le briglie. — O morremo tutti od entreremo in Candia.

— E vi entreremo vivi, signore — rispose Domoko, mettendosi nuovamente alla testa del drappello. — I veneziani conoscono il segnale e non faranno fuoco su di noi, anzi, si affretteranno ad abbassare il ponte levatoio per farci entrare. Temo solamente quei maledetti volteggiatori, che preferiscono la notte per fare le loro sorprese. Fortunatamente non vanno che in poco numero, e noi siamo uomini da dare una carica furiosa, come l’abbiamo già data dinanzi alla mia casa.

Gli otto cavalieri si slanciarono attraverso un campo, protetto da alti filari di viti, e si misero a galoppare sfrenatamente.

A Candia il cannone tuonava. Ora erano le colubrine che facevano udire le loro detonazioni secche; ora le grosse bombarde turche, le quali strepitavano enormemente, rompendo il silenzio della notte con gran fracasso.

Quantunque ancora lontani, i cavalieri vedevano quegli enormi proiettili di pietra attraversare il cielo come bolidi, lasciandosi indietro lunghe code di scintille, ed udivano il rombo che producevano nello spaccarsi sulle misere case di Candia, già quasi distrutte da un assedio che durava da ben ventotto mesi, con ben poche interruzioni. Cavalcando sempre fra i filari, fra le dieci e le undici, il Leone di Damasco ed i suoi amici, giunsero in vista dei bastioni occidentali della città assediata. Domoko si orientò rapidamente, per poter giungere sotto quello chiamato del Ponte dei Pugni, e che sapeva non stretto dai turchi, troppo occupati a trincerarsi e fortificarsi sulle colline, che avevano acquistate con immense perdite d’uomini.

Passando accanto ad un filare strappò una lunga pertica, vi legò in cima il fanale rosso e riprese la corsa con maggior prudenza ed allargando bene gli occhi, per non cadere in qualche agguato. Giunto a cinquecento metri dal bastione piantò la pertica in terra, per attendere, prima d’avanzare, la risposta al segnale. Tutti erano scesi di sella per accendere le micce degli archibugi e per accordare ai cavalli, grondanti di sudore, un momento di riposo. Erano trascorsi alcuni minuti senza che i veneziani avessero risposto, quando Domoko strinse fortemente un braccio al Leone di Damasco.

— Eccoli i maledetti!... — disse.

— Chi? — domandò Muley.

— I volteggiatori.

— Dove?

— Sbucano dietro quel vecchio bastione mezzo distrutto.

In quel momento il greco disse:

— Il segnale: i veneziani hanno risposto.

— E a tempo — rispose Domoko. — Ci aiuteranno a sbarazzarci dai volteggiatori.

Parecchi uomini erano comparsi sulla cima del bastione del Ponte dei Pugni, stringendosi intorno ad una lanterna rossa.

Quasi nello stesso momento, otto o dieci scorrazzatori turchi si erano slanciati, a gran galoppo, verso il gruppo dei cristiani, urlando ferocemente:

— I giaurri!... Ammazza!... Ammazza!...

— A cavallo!... — gridò il Leone di Damasco. — Spariamo i nostri archibugi, poi attacchiamo colle armi bianche.

In un lampo gli otto uomini furono in sella, puntando le armi da fuoco. Stavano per sparare, quando dal bastione del Ponte dei Pugni partì una cannonata. Una colubrina, carica a mitraglia, e forse fino alla bocca, come usavano in quel tempo, aveva preso d’infilata i turchi che giungevano a corsa sfrenata colle scimitarre in pugno, sempre urlando: — I giaurri!... Ammazza!... Ammazza!...

Cinque o sei cavalli ed i rispettivi cavalieri andarono a gambe levate, crivellati di grossi chiodi e di pallettoni puntuti. Gli altri, spaventati, senza attendere la scarica degli archibugi degli otto uomini, sempre stretti intorno al fanale protettore, volsero le briglie e fuggirono disordinatamente verso l’accampamento turco, dando un allarme ormai troppo tardivo.

— Avanti!... — disse Muley-el-Kadel, che aveva udito stridere le catene sul ponte levatoio.

Poi alzandosi sulle staffe, gridò a gran voce:

— Sono il Leone di Damasco che rientra in Candia. Non fate fuoco.

Gli otto uomini misero i cavalli in corsa, e dopo pochi minuti superavano il ponte levatoio, cadendo fra le braccia d’una ventina di veneziani.

— Tu, Domoko, rimani qui a spiegare a questi signori il motivo del nostro ritorno — disse Muley-el-Kadel. — E tu, Mico, seguimi con Nikola alla torre abitata da mia moglie. Tenete i cavalli pronti, poiché non ci fermeremo fino all’alba.

Salutò il comandante del bastione e si allontanò lentamente insieme ai due fedeli, inoltrandosi nelle cinte interne dove si trovavano le casematte e le polveriere. I turchi non avevano cessato il bombardamento, anzi, preferivano sparare le loro grosse bombarde di notte, affinché i veneziani non potessero troppo facilmente scoprire dove si trovavano montate.

Le enormi palle di pietra, a sei, ad otto, rovinavano sulla disgraziata città completando la rovina delle case. Ormai Candia era diventata inabitabile. Solo i bastioni e le grosse torri resistevano sempre, dando rifugio alla popolazione ormai ridotta alla metà in causa delle malattie, della fame e della continua pioggia di pietre infuocate.

Il Leone di Damasco ed i suoi due fedeli si orizzontarono, e dopo d’aver attraversato un quartiere quasi interamente diroccato, giungevano dinanzi al torrione che il capitano generale della città aveva messo ad intera disposizione della duchessa.

— Fermatevi qui e sellate uno di questi cavalli — disse Muley, entrando al pianterreno dove si trovavano alcuni animali più o meno scheletriti. — Se non fuggiamo questa notte, noi non rivedremo più l’ammiraglio. Le ore di Candia sono contate.

— Andate, signore — risposero Mico e Nikola. — Ci troverete pronti.

Muley-el-Kadel salì la scala, semidiroccata, che girava in forma d’una lumaca, e raggiunse il primo piano, entrando in un vasto camerone arieggiato da due ampie cannoniere ed ammobiliato con due letti sgangherati.

La duchessa, tornata forse poco prima da qualche esplorazione o da qualche visita al capitano generale, indossava ancora tutta l’armatura, eccettuato l’elmo, e riposava su uno di quei letti, stringendo ancora nella destra la fida spada.

— Eleonora!... — gridò il Leone di Damasco, scuotendola.

La duchessa apri i suoi bellissimi occhi profondi, ed allargò le braccia, stringendole poscia intorno al collo del forte guerriero.

— Tu Muley!... — esclamò. — Tu, tornato!...

— Sì, mia adorata, e appena in tempo.

— E nostro figlio?

Muley-el-Kadel fece un gesto di scoraggiamento.

— Non è stato possibile strapparlo al Bascià — rispose. — L’ammiraglio veneziano non aveva forze sufficienti per impegnarsi a fondo in una battaglia contro duecento e più galere.

— Si trova sempre a bordo dell’ammiraglia turca?

— Sì, Eleonora, ma io spero che non vi rimarrà a lungo, poiché tutte le navi delle potenze cristiane sono già radunate a Messina per schiacciare la potenza navale turca. Ci saremo anche noi il giorno della grande battaglia, e monteremo all’abbordaggio della capitana del Bascià.

— E tuo padre, Muley?

— Salvato, ed il castello d’Hussiff distrutto dal fuoco.

— Il covo di Haradja?

— Sì, Eleonora.

— Come hai trovato tuo padre?

— È robusto, l’uomo, e non ha sofferto per la prigionia.

— Già guarito?

Muley-el-Kadel ebbe un lieve sorriso. — Noi altri turchi abbiamo la pelle dura, che si rinnova facilmente — disse poi. — Forse siamo più resistenti dei cristiani.

— Ed ora, Muley?

— Partiamo.

— Lasciamo Candia, ora che ha maggiormente bisogno delle nostre spade?

— I veneziani hanno una bandiera da difendere, e qui devono rimanere finché avranno una carica di polvere ed una spada, mentre noi dobbiamo pensare a nostro figlio.

— E andiamo?

— A raggiungere la squadra di Sebastiano Veniero nella rada di Capso. Se rimaniamo qui, il nostro Enzo nessuno lo salverà, poiché non sarà la guarnigione di Candia, ormai sfinita e più che decimata, che ci aiuterà.

— Hai ragione, Muley — disse la duchessa, balzando dal letto. — Sarà libera la via?

— Io lo spero.

— Con chi partiremo?

— Abbiamo una piccola, ma valorosa scorta. Vieni, Eleonora ormai le ore di questa disgraziata città sono contate. Un giorno o l’altro il Gran Vizir lancerà centomila uomini all’assalto dei bastioni, e non saranno né le colubrine, né le spade dei veneziani che arresteranno quelle masse di guerrieri.

— E che cosa succederà qui? — chiese la duchessa, mettendosi l’elmo.

— Una strage orrenda, simile a quella di Famagosta — rispose il Leone di Damasco, con un lungo sospiro. — I miei compatrioti sono troppo barbari e di istinti troppo sanguinari. Vieni, Eleonora: giù ci aspettano Mico e Nikola.

La duchessa cinse la spada, si mise nella fascia un paio di grosse pistole e seguì Muley-el-Kadel, il quale portava sempre la lampada rossa. Mico e Nikola avevano già insellato il miglior cavallo, un mezzo arabo, che quantunque avesse patito molto digiuno, poteva far correre ancora i cavalli turchi.

— Andiamo, amici — disse il Leone di Damasco, dopo che i due valorosi ebbero scambiati i loro saluti con la duchessa. — È tempo di sgombrare. Ti senti, Eleonora, di resistere ad una corsa di sette od otto ore?

— Sì, Muley, la fame non mi ha ancora sfinita come tu credi, poiché i veneziani si sono privati loro per pensare sempre a me.

— Che cosa dici tu, Nikola?

— Io penso sempre ai volteggiatori che i veneziani hanno mitragliati — rispose il greco, la cui fronte si era assai aggrottata.

— Temi che ci diano la caccia al di là del ponte levatoio?

— È così, signore.

— Eppure non possiamo rimanere.

— Non vi consiglierei. I turchi sono impazienti di muovere all’assalto della città. L’assedio è durato già troppo, ed avrebbe stancato qualunque esercito.

— E potrò esporre la mia donna ai colpi dei volteggiatori?

— Forse che non mi hanno chiamata Capitan Tempesta? — disse la duchessa. — Vengano, e la mia spada berrà ancora sangue mussulmano.

— E poi ci siamo noi, signore — disse Mico. — Non troppi, ma tutti solidi, e pronti a morire pei nostri signori.

— Ecco dei valorosi, Eleonora, che sono davvero ammirabili — disse il Leone di Damasco, con voce commossa. — Partiamo, Nikola?

— Sono pronto, signore — rispose il greco. — Guardiamoci dalle palle delle bombarde, poiché questa notte i turchi sembrano decisi a spianare a terra tutte le torri di Candia.

— Mi sembri assai preoccupato, Nikola — disse il Leone. — Pensi sempre ai volteggiatori?

— Che cosa volete? Odio quelle canaglie che non si sa da quale parte giungano e che sciabolano senza misericordia.

— La casa di Domoko non è lontana. Ci rifugeremo là dentro.

— Cogli archibugi che abbiamo potremo resistere e dare, forse, un’altra lezione ai volteggiatori.

— A cavallo, Eleonora — disse Muley-el-Kadel, apprestandosi ad aiutarla. — Lascia stare, per ora, le tue grosse pistole. Coi volteggiatori valgono meglio gli yatagan e le spade.

La duchessa montò sul suo mezzo arabo, che come abbiamo detto, si trovava ancora abbastanza in gambe, poi allentò le briglie. Quella notte i turchi pareva che avessero giurato di distruggere Candia. Una orrenda pioggia di palle di pietra, si abbatteva, quasi senza intervallo, sulla povera città. Erano le torri ora che diroccavano, poiché case non ve n’erano quasi più da distruggere.

Attraverso le vie strette, aperte dietro i bastioni, le palle fioccavano e si spaccavano, rimbalzando con lunghi sibili. Le muraglie delle poche case che ancora rimanevano ritte, crollavano con gran fragore, completamente sventrate.

I quattro cavalieri, tenendosi ben vicini ai bastioni, giunsero finalmente al bastione del Ponte dei Pugni, dove si trovavano Domoko coi quattro cretesi.

Il comandante era andato incontro al Leone di Damasco.

— Ci lasciate, signore? — gli chiese, con voce commossa.

— È necessario, capitano.

— Avete vostro figlio da salvare: tutti lo sappiamo e tutti siamo impotenti ad aiutarvi. È vero che tutte le galere degli stati cristiani, fra poco, si rovesceranno addosso alla flotta del Bascià?

— Sebastiano Veniero lo ha affermato — rispose Muley-el-Kadel.

— In tempo per salvare questa disgraziata città?

— Chi può dirlo? Tutto dipenderà dalla sorte delle armi. Saranno indubbiamente forti, quel giorno, i cristiani, ma anche i turchi non saranno deboli.

— È vero, signore: per mare, ormai, sono troppo potenti.

— Se resisteranno. Sono tornati i volteggiatori?

— No, signore, e poi noi saremo pronti a mitragliarli. Potete uscire tranquillo colla vostra signora. Fin dove i nostri pezzi potranno giungere vi proteggeremo, poi vi guarderà Dio.

— Grazie, capitano. Io spero, un giorno, di rivedervi, quando la potenza turca sarà infranta.

Il veneziano fece un gesto di scoraggiamento. — Candia finirà come Famagosta — disse poi, con rassegnazione. — D’altronde venendo qui a difendere le ultime bandiere del Leone di San Marco, in Oriente, sapevamo bene che non saremmo tutti tornati a rivedere né la Riva degli Schiavoni, né il Campanile, né la Torre dell’Orologio. Già tutti abbiamo fatto testamento prima di partire.

— Signore — disse in quel momento Nikola. — Il ponte levatoio è abbassato, e gli artiglieri non aspettano che la nostra uscita per proteggerci le spalle.

Un ultimo saluto, poi i nove cavalieri, scortati da due dozzine di archibugieri, colle micce fumanti, attraversarono il ponte levatoio, con gran fracasso. La luna era tramontata, ed un fitto velo tenebroso si stendeva al di là delle ultime difese di Candia che i turchi, dopo due e più anni di assedio, non erano ancora riusciti ad espugnare quantunque non fossero sprovvisti di truppe valorosissime.

— Aprite gli occhi, — disse Nikola, quando furono al di là del ponte — ed accendete le micce degli archibugi. Una buona scarica, talvolta, vale meglio d’una carica a fondo.

Tutti prepararono le armi, guardarono a lungo la pianura, poi, credendo di non aver veduto nessuno, lanciarono i cavalli al galoppo. S’ingannavano. I volteggiatori turchi, che erano scampati ai colpi di mitraglia dei veneziani, con una corsa rapidissima erano andati al campo a chiamare dei camerati per la caccia al cristiano.

Si erano forse immaginati che gli uomini che erano entrati in Candia, sarebbero più tardi usciti, e si erano imboscati, in una trentina, dietro il vecchio bastione diroccato, assetati di vendetta.

Nikola, che come si sa, aveva la vista migliore di tutti, si era subito accorto della presenza dei terribili volteggiatori che tanto temeva.

— Ve lo dicevo io, — disse Muley-el-Kadel — che ci avrebbero aspettati? Non sarà cosa facile raggiungere la baia di Capso con tutta quella gente dietro alle spalle.

Fortunatamente i veneziani del bastione del Ponte dei Pugni, vegliavano sui fuggiaschi. Vedendo i turchi galoppare sfrenatamente dietro la duchessa ed il Leone di Damasco ed i loro amici, spararono quattro cannonate a mitraglia. L’effetto di quella bordata di chiodi e di pallettoni puntuti, fu disastroso pei mussulmani, che sfilavano, in quel momento, proprio davanti al bastione. Dodici o quindici, crivellati per bene, andarono a gambe levate insieme ai loro cavalli, e rimasero a terra urlando disperatamente e rotolandosi come bestie selvagge, mentre un’altra bordata di mitraglia si abbatteva su di loro. I superstiti però, una dozzina, per nulla spaventati, avevano continuata la corsa ululando:

— Alla caccia dei giaurri!... Viva Maometto!... Abbasso la Croce!...

Dal bastione furono sparate contro di loro quattro palle di colubrina, ma gli artiglieri, per tema di colpire anche i fuggiaschi, avevano fatto fuoco troppo in alto, sicché i proiettili passarono ronfando senza colpire nessuno.

— Non sono che quindici — disse Nikola, il quale li aveva contati attentamente. — I nostri cavalli sono solidi, e fino alla casa di Domoko spero di giungere senza troppi malanni. Quando saremo là, rinnoveremo il giuoco dell’altra volta, ed i mangiatori di cadaveri non avranno da lamentarsi. Via, signor Muley-el-Kadel!... Guidate la corsa dinanzi alla vostra sposa. Noi copriamo le spalle.

— Grazie, Nikola — rispose il Leone di Damasco, passando in capo al drappello. — Alla mia donna ci penso io a difenderla di fronte.

I turchi, i cui cavalli dovevano essere stati anche feriti da quelle mitragliate, erano rimasti indietro, però alcuni, che montavano dei buoni arabi, conducevano rapidamente la corsa.

Si avanzavano come un uragano, colle scimitarre alzate, sparando, di quando in quando, qualche pistolettata che andava a vuoto, in causa del movimento disordinato dei cavalli. Urlavano sempre più ferocemente che mai, per incoraggiarsi nella gara furiosa, però non guadagnavano niente sui fuggiaschi, i quali conducevano la corsa meravigliosamente. Di quando in quando i cretesi si voltavano sulla sella e sparavano qualche colpo d’archibugio, il quale non andava sempre perduto.

Dal bastione del Ponte dei Pugni sparavano ancora, inutilmente, le colubrine, più per impressionare i turchi che per decimarli, poiché erano ormai fuori di portata. — Via!... Via!... — non cessavano di gridare Nikola e Domoko, i quali cercavano di mantenere una certa distanza fra loro e quegli spietati volteggiatori, pronti a decapitarli tutti a colpi di scimitarra per gettare le teste nei solchi, ad ingrassare la futura terra mussulmana.

E andavano con una velocità spaventosa, fra i filari delle viti e le alte siepi di fichi d’India, sempre perseguitati dall’orda selvaggia, assetata di sangue cristiano.

I turchi però, quantunque dovessero essere tutti abilissimi cavalieri, non riuscivano a guadagnare un palmo sui fuggiaschi, i quali, ad ogni intimazione d’arresto, sapendo già che cosa sarebbe accaduto se avessero commessa quella imprudenza, rispondevano o con qualche pistolettata o con qualche archibugiata.

Il Leone di Damasco cavalcava a fianco della duchessa, fissandola ansiosamente.

— Puoi resistere, Eleonora? — le chiedeva di tratto in tratto.

— Ma sì, Muley, ed anche il mio mezzo arabo, quantunque debba aver sofferta molta fame, si comporta splendidamente — rispondeva Capitan Tempesta, che non pareva affatto impressionata da quella caccia al cristiano.

A Famagosta aveva vedute ben altre cose, e poi, si può dire, era stata allevata fra il fragore delle armi.

Per un’ora i cavalli cretesi galopparono furiosamente, sempre perseguitati dai volteggiatori ad una distanza di appena duecento metri, poi Domoko mandò un gran grido:

— La mia casa!... Un ultimo sforzo, amici, ed avremo un rifugio sicuro che i turchi non espugneranno tanto facilmente.

I cretesi di coda fecero un’ultima scarica scavalcando un altro turco, poi tutto il drappello giunse in gruppo serrato dinanzi alla fattoria la cui porta era ancora aperta.

— Conducete i cavalli in cucina!... — gridò Domoko. — Ci possono stare comodamente tutti.

Il Leone di Damasco prese fra le braccia sua moglie, ed entrò correndo nella sala pianterrena, mentre i volteggiatori si arrestavano scaricando le loro pistole. Tutti i fuggiaschi erano entrati, conducendo i cavalli che cacciarono in una specie di cucina, poi i cretesi, Mico, Domoko e Nikola si misero a guardia della porta, soffiando sulle micce.

— Assedio numero due — disse l’albanese, mirando il capo dei volteggiatori.

— Ce la caveremo come l’altra volta, Domoko?

— Io lo spero — rispose il cretese, il quale ormai, trovandosi in casa sua, si trovava ben sicuro, sapendo di poter contare su uomini risoluti, pronti ad ogni sbaraglio.

Il Leone di Damasco e sua moglie si erano seduti dinanzi alla lunghissima tavola, dopo d’aver accesa una lanterna ad olio assai puzzolente.

— Che ci prendano, Muley? — chiese la duchessa.

— Anche l’altra volta siamo stati qui assediati, e ci siamo sbarazzati benissimo degli assedianti — rispose il Leone di Damasco. — I volteggiatori non sono pericolosi che in aperta campagna.

— Che cosa faranno?

— Manderanno qualcuno di loro a domandare aiuti, ma noi non aspetteremo che giungano dinanzi alla fattoria. I cretesi sparano bene, ed anche Mico di rado sbaglia, quando ha fra le mani un buon archibugio. Odi?

L’albanese, dopo aver mirato attentamente, aveva fatto fuoco sul comandante dei volteggiatori, e l’aveva sbalzato di sella con una palla piantata in fronte. I turchi, furiosi per quella perdita, accennarono a tentare una carica furiosa contro la fattoria, ma vedendo gli assediati balzare fuori cogli archibugi in pugno e schierarsi rapidamente, diedero di volta, rifugiandosi in mezzo ai filari delle viti.

— Ecco della carne che andrà ad ingrassare gli uccelli dei morti — disse Mico. — Sarà la seconda volta, che dinanzi a questa casa si saranno rimpinzati di muscoli e di pelli mussulmane.

— Che ritornino, Muley? — chiese la duchessa.

— Non sperare che ci lascino. Finché ne rimarrà uno in sella rimarrà a guardia della fattoria — rispose il Leone di Damasco. — Bisogna distruggerli tutti a colpi di archibugio.

— Non potremo raggiungere la rada di Capso senza cadere sotto le scimitarre di quegli indomiti cavalieri?

— Ora non sono che nove; ne giungano pure dal campo altri tre o quattro, saremo sempre in buon numero per difendere le nostre teste, Eleonora. Anche l’altra volta ci hanno assediati qui dentro, eppure tutto è andato bene.

In quel momento altri due colpi d’archibugio rimbombarono dinanzi alla porta, seguiti da un grido di Mico:

— Ecco un altro merlo scavalcato. Se rimarrò qui un paio di mesi ritornerò in Albania famoso tiratore. Briganti!... Non volete sgombrare? Prendete dunque!... Fuoco, amici, finché torno a caricare l’archibugio!

I quattro cretesi fecero una scarica, mentre Domoko e Nikola serbavano i loro colpi, temendo una nuova carica. I turchi, che sfilavano fra i vigneti, balzarono in mezzo ai profondi solchi, e fuggirono a corsa sfrenata, dopo d’aver sparata qualche pistolettata. La loro corsa però non durò molto. A duecento passi fecero coricare i cavalli e si nascosero dietro di loro, urlando:

— A morte i giaurri!..