Il Leone di Damasco/V. Il grande ammiraglio ottomano

V. Il grande ammiraglio ottomano

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V. Il grande ammiraglio ottomano
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V.

Il grande ammiraglio ottomano


Sull’alto e larghissimo cassero della galera ammiraglia, sotto una tenda di seta rossa che reggeva numerose lampadine veneziane di vetro a svariati colori, era stata preparata la tavola per la cena di Ali Bascià.

Quantunque usasse invitare sempre i suoi ufficiali, quella sera non vi erano che due coperti, perché Haradja potesse mangiare e parlare liberamente. Il Bascià era amante della buona tavola, e quantunque i viveri non largheggiassero nemmeno fra gli assedianti, che si mantenevano sempre sui centomila uomini, continuando a giungere da Costantinopoli rinforzi, il cuoco di bordo aveva saputo ancora fare miracoli, per festeggiare forse l’arrivo della nipote del suo potentissimo padrone.

Vi erano infatti delle scodelle di pilaf, il classico riso turco, o meglio persiano, delle teste di montone arrostite con contorno di fagiolini conditi coll’aglio; piatti bianchi pieni di yaourt, ossia di latte quagliato, e terrine colme di missir, ossia di pannocchie di granturco ben bollite che si mangiano col sale; vassoi di simit, che sono sottili ciambelle dolci e di datteri, di fichi secchi, di castagne bianche arrostite, e di uva secca di Cipro e della Morea.

Non mancavano nemmeno dei barattoli di vetro pieni di confetti orribilmente gialli e violetti, e coppe piene di joncum tinto in verde, in rosso ed azzurro, splendida crema atta solamente ad incollare terribilmente le budella, ma che pure i mussulmani apprezzano, specialmente se accompagnata colle bureke, quelle atroci sfogliate a base di grasso e piene dentro d’un formaggio nauseabondo.

I vini non figuravano, quantunque nessuno ignorasse che il Bascià, pur essendo mussulmano convinto, beveva Cipro più dei sultani; vi erano invece delle alte caraffe di cristallo di Venezia, piene di acque dolci profumate all’arancio od ai cedri del Libano.

Quattro giannizzeri fidatissimi, vegliavano all’estremità delle due scale, appoggiati ai loro archibugi le cui micce fumavano. Il grande ammiraglio condusse Haradja sul cassero illuminato piuttosto sfarzosamente, mentre verso Candia le colubrine turche e veneziane tuonavano con furore, rompendo l’oscurità con lunghi lampi. Si misero a tavola e mangiarono in silenzio. La castellana appena assaggiò, ma il Bascià fece grande onore al suo cuoco, tracannandovi dietro, per intanto, delle intere caraffe di acque dolci.

Quand’ebbe finito, invece d’un narghilek accese uno scibouk di semplice terracotta; poi, mentre le artiglierie tuonavano più terribilmente che mai, lanciando in aria delle nuvolastre rossicce, si rovesciò sulla sedia, e guardando fissa la nipote le chiese:

— Ed ora? Che cosa ne farai del Pascià di Damasco che finalmente è caduto, mercé mia, nelle tue mani, e del fanciullo?

— Volevo chiederlo a te.

— A me!... — esclamò il grande ammiraglio, con stupore. — Se tu mi chiedessi come si fa ad avviluppare una squadra, anche grossissima, superiore alle mie forze, e come si fa ad arrembarla, te lo direi subito. Di fanciulli e di vecchi pascià, e soprattutto dei tuoi progetti, non me ne intendo e non ne so nulla.

— Come faresti tu, zio, a entrare in Candia per trovarti, fronte a fronte, al Leone di Damasco ed a sua moglie?

— Entrare in quella città che sembra difesa da bastioni di ferro e da uomini pure di ferro? Chi oserebbe tentare una simile impresa, mia cara nipote?

— Perché vi è quella dannata Capitan Tempesta, la duchessa cristiana.

Il Bascià aspirò tre o quattro volte il fumo del suo scibouk, poi disse:

— Ti ricordi come il Leone di Damasco conquistò l’amore della cristiana italiana?

— Sì, sfidandola sotto le mura di Famagosta. Non sapeva però che era una donna.

— Non importa. Tu ora che sai che quella terribile donna si trova rinchiusa in Candia, manda un araldo a gridare, sotto le mura, che una donna turca si vorrebbe misurare con una cristiana. Io so che tu sei forte nelle armi.

— Assai, zio. Accetterà la sfida? E poi vorrei che non uscisse sola.

— Col Leone di Damasco, anche?

— Sì.

— E chi gli getteresti fra le gambe?

— Il mio capitano d’armi.

— È realmente forte? Io ho udito vantare l’abilità di quell’uomo, che adopera così la scimitarra come le armi cristiane.

— Fortissimo — rispose Haradja.

— Mi hanno però detto che un giorno, anni sono, si è preso una stoccata, in tua presenza, nel tuo castello, da quella terribile Capitan Tempesta.

— È vero.

— Se il maestro si prende delle stoccate, quante se ne prenderà l’allieva allora? — disse il Bascià.

— Nessuna, io credo, perché l’allieva ha superato il maestro, e lo tocca sovente e senza troppa fatica.

— Hum!... Vanterie forse?

— No, Ali.

— Allora diremo che se la cristianità ha una donna così formidabilmente spadaccina, da non temere nessun guerriero nemico, anche i mussulmani hanno la loro nella nipote del Bascià.

Si guardò intorno, poi trasse da un cesto nascosto sotto la tavola una bottiglia di Cipro, la decapitò con un colpo del magnifico yatagan, che portava alla cintura, dono di Maometto II e si empì un grosso bicchiere dicendo:

— Se il Profeta l’avesse assaggiato non avrebbe proibito ai suoi credenti l’uso del vino. Questo vale meglio di tutte le acque zuccherate, ed infonde un gran brio, specialmente se preso prima d’una battaglia. Ne vuoi?

— Sono donna — rispose Haradja.

— Hai ragione, ma se ne bevessi un solo bicchiere prima d’impegnarti con la cristiana, sarei certo che la uccideresti.

— Sono donna e credente — ripetè la castellana d’Hussiff.

— Come vuoi — rispose il Bascià. — Bevo io alla gloria della nostra bandiera.

Vuotò il bicchiere, riaccese lo scibouk, poi riprese:

— Tu dunque vuoi provocare la cristiana?

— Provocarla!... — esclamò Haradja. — Ucciderla voglio!...

Il Bascià si era messo a ridere, forse messo in buon umore da quel vino di Cipro che aveva deciso Maometto II a conquistarne i vigneti sopprimendo i tre quarti dei vignaioli.

— Tu, nipote, vuoi uccidere un segreto, è vero?

— Quale? — chiese la castellana, arrossendo.

— Si dice che tu ti fossi innamorata di Capitan Tempesta, credendolo veramente un giovane e valoroso guerriero.

— E se così fosse? — chiese Haradja. — Si era presentato da me vestito da capitano albanese.

— Doveva essere bella la duchessa cristiana.

Haradja non rispose.

— La vuoi proprio uccidere? — chiese il Bascià.

— Sì.

— E se invece quella donna indiavolata uccidesse te? Mi rincrescerebbe che l’unica nipote del grande ammiraglio mussulmano, cadesse sotto i colpi d’una cristiana.

— Mi sento tanto forte da abbatterla — disse Haradja, con suprema energia. — Io odio troppo quella donna.

— Dopo quattro anni...

— Dovevo ben attendere che una fortunata occasione la ricacciasse su queste isole. Avrei dovuto io andarla a cercare in Italia?

— Eh, no — disse il Bascià. — Mi stupisco però, come quella donna, dopo di essere sfuggita miracolosamente all’assedio di Famagosta, sia tornata nelle nostre acque e si sia lasciata nuovamente rinchiudere in una città stretta dai nostri guerrieri. È la morte che viene a cercare, insieme al Leone di Damasco?

— Il Pascià mi ha detto che avevano qui dei possedimenti, dei quali forse volevano sbarazzarsi prima che la guerra scoppiasse. Può darsi che non abbiano avuto il tempo di ritornare a Venezia, e che siano stati costretti a rifugiarsi in Candia.

— È probabile — disse il Bascià empiendosi ancora il bicchiere e tracannando rapidamente perché nessuno lo vedesse. — È il Profeta che te l’ha rimandata fra i piedi?

— Lo credo anch’io — rispose Haradja — ed ora approfitto della buona occasione.

— Un po’ tardiva.

— Credi tu, zio, che non abbia mandato sicari a Venezia ed a Napoli per spegnere la cristiana che ha preso il mio posto, e far piangere il Leone di Damasco?

— E che cosa hanno fatto quei poltroni?

— Alcuni sono stati ammazzati, altri hanno avuto paura, e sono scappati non so se in Tripolitania od in Algeria.

— Mandavi della brava gente, tu — disse il Bascià, ironicamente.

— Capitan Tempesta ed il Leone di Damasco toglievano le forze a quei manigoldi che pure avevo ben pagati.

— Lo credo: nel castello d’Hussiff l’oro non deve mancare.

— Mercé tua, zio.

L’ammiraglio alzò le spalle, poi, fra una fumata e l’altra, disse:

— Se ne vuoi dell’altro parla; io non ho che una erede sola: tu.

— Non me ne occorre — rispose Haradja.

— E così, domani, tu vorresti lanciare la sfida?

— Sì, zio.

— Bada che non sia una pazzia.

— No, mi sento tanto forte da uccidere la cristiana fino dal primo attacco.

Per la seconda volta l’ammiraglio scosse la testa, tuttavia disse:

— Giacché lo vuoi, farò domani sospendere il bombardamento, e manderò un araldo sotto le mura di Candia a portare la sfida contro la più valorosa donna cristiana ed il più valoroso guerriero, veneziano o turco rinnegato. Così Capitan Tempesta ed il Leone capiranno qualche cosa.

— E si guarderanno di uscire da Candia — disse Haradja. — Il vino di Cipro, qualche volta, è cattivo consigliere.

— Per Allah!... Lo credo anch’io!... — disse il Bascià, ridendo.

— E Jussuf Pascià che dirige l’assedio, acconsentirà a far tacere le colubrine?

— Il Pascià farà quello che vorrò io — rispose l’ammiraglio, aggrottando le palpebre. — Chi credi tu che diriga l’assedio? Io o lui? Che dirocchino più i bastioni di Candia i mei pezzi da mare o le sue colubrine? Eh!...

Bevette frettolosamente il terzo bicchiere, spense lo scibouk poi disse:

— Nipote, la tua cabina è pronta e puoi andare a dormire.

— E tu?

— Un ammiraglio non ha sempre le sue ore disponibili. Ha la flotta da guardare, che vale meglio dei centomila fantaccini che il Sultano ha mandati qui. Va’, nipote.

Le offrì galantemente il braccio e la condusse fino dinanzi alla scala del quadro mentre le artiglierie turche e veneziane non cessavano dal rombare, illuminando sinistramente la notte, con lunghissimi getti di fuoco.

— Va’ — disse. — Segui questo eunuco che è addetto al tuo servizio.

Haradja scese in fretta la scala e tentò di fermarsi dinanzi alla cabina occupata dal figlio del Leone di Damasco, ma dovette proseguire. Due negri giganteschi, armati di scimitarre snudate, vegliavano ritti dinanzi alla porta, coll’ordine di non lasciar entrare nessuno.

La castellana masticò qualche cosa fra i suoi dentini bianchi, e scomparve nella cabina assegnatale e che doveva essere sicuramente la migliore che si trovava sulla grossa galera. Ali, il grande ammiraglio, era rimasto sulla tolda, guardando il lampeggiare delle artiglierie e scrollando la testa, come se fosse di cattivo umore.

— Uccidere Capitan Tempesta — disse, dopo quattro o cinque bestemmie. — Mia nipote deve essere stanca degli agi del castello d’Hussiff. Lo vuole?... E... Sia!... Dopo tutto, che una donna mussulmana vada a sfidare le donne cristiane, mi va. Che trionfo per noi se quella indiavolata nipote riuscisse!... Mi hanno detto che è fortissima nelle armi e che....

Proprio in quel momento si imbatté in Metiub, il quale passeggiava sul largo ponte, fumando delle sigarette.

— Tu sei il capitano d’armi del castello d’Hussiff? — gli disse.

— Sì, Bascià — rispose Metiub.

L’ammiraglio lo guardò attentamente alla luce d’uno di quei grandi fanali che usavano portare le galere, e che sovente erano dei veri e propri capolavori, e poi borbottò:

— Bell’uomo, saldo in gambe, ancora elastico, braccia robuste, petto da piccolo bufalo. Potrà misurarsi col Leone di Damasco? Hum!... Hum!... Haradja diventa pazza.

Girò intorno al capitano d’armi, il quale si era irrigidito dinanzi al grande ammiraglio, poi gli chiese:

— Sei tu che hai addestrata nelle armi mia nipote, è vero?

— Sì, Bascià.

— Si dice che sia forte.

— Fortissima.

— Tanto da misurarsi con Capitan Tempesta, la cristiana che tu ben conosci, perché si dice che ti abbia toccato?

Metiub diventò pallido come un morto a quel ricordo, molto umiliante per lui, poi disse:

— Io lo spero, perché le ho insegnato la botta segreta che mi aveva tirata la cristiana, e che nessun turco avrebbe potuto certamente parare. Quei cristiani, nella scherma, sono più forti di noi. Hanno dei giochi che non si possono subito comprendere.

La fronte del Bascià si era oscurata.

— Ciò che tu mi hai detto è grave — disse poi. — Non vorrei che a mia nipote toccasse qualche terribile disgrazia.

— Tua nipote, Bascià, ha sangue freddo, buona vista e buoni muscoli — rispose il capitano d’armi.

— E tu saresti capace di misurarti, se ti si offrisse l’occasione, col Leone di Damasco? Bada che durante l’assedio di Famagosta era la più terribile scimitarra dell’esercito mussulmano che assediava quella rocca.

— Lo so, Bascià, ma mi sento anch’io di sfidarlo colle armi dei cristiani invece che colle nostre.

— Se tu riuscirai a salvare mia nipote conta su cinquecento zecchini.

— Una fortuna.

— Mia nipote non ha prezzo.

— Ed a quando la sfida?

— Chi lo sa? Accetteranno o rifiuteranno? Ma abbiamo il fanciullo per costringerli ad uscire da Candia, e poi ci saremo anche tutti noi a salvare la situazione al momento opportuno, se le cose andassero male.

— Non ti fidi delle nostre armi, Bascià?

— Non lo so — rispose l’ammiraglio. — Avrete di fronte due lame ormai troppo famose, e che darebbero da pensare anche a tutti i miei ufficiali presi insieme. Va’ a dormire: si vedrà.

Passò a prora, fece calare una scialuppa montata da sei marinai, e scomparve fra le galere che ingombravano il porto.

Dove andava? Certamente dal Pascià comandante le truppe di terra per far sospendere, all’indomani, il bombardamento, affinché l’araldo potesse avvicinarsi alla città assediata e portare la sfida.

Tutta la notte le colubrine turche e veneziane si controbatterono accanitamente, scagliandosi palle di pietra e palle di ferro, ma quando sorsero i primi albori, tutto quel fracasso cessò. Un soldato turco, montato su uno splendido cavallo arabo, aveva lasciato il campo mussulmano, impugnando una lancia sormontata da una bandiera bianca.

Siccome avveniva di sovente di chiedere delle tregue per seppellire cadaveri, numerosissimi sempre, il bombardamento era subito cessato da ambo le parti. Attraversò a corsa sfrenata l’immenso campo degli assedianti, che si stendeva per più di due miglia lungo la spiaggia, e, giunto nella zona battuta dal fuoco delle artiglierie, fece sventolare per tre volte la bandiera, attendendo la risposta degli assediati, prima di avanzarsi.

Un’altra bandiera bianca non tardò a sventolare all’estremità d’uno dei bastioni più avanzati di Candia. Era il segnale che poteva avanzarsi liberamente senza esporsi ad alcun pericolo. Il turco riprese la corsa, e giunto sotto le prime trincee gremite già di veneziani e di cretesi, ansiosi certamente di sapere che cosa desiderava il Pascià ottomano, si mise a gridare, con voce stentorea:

— Se vi è fra voi una donna veneziana che sappia maneggiare le armi come un guerriero, ditele che vi è una donna mussulmana, d’alto lignaggio, che desidererebbe provarsi con lei. Se vi è fra voi un uomo che non abbia paura della scimitarra, ditegli che vi è un capitano turco che vorrebbe sfidarlo. Attendo la risposta.

Sulle trincee, sui bastioni e sulle torri si videro gli assediati agitarsi vivamente, ma invano l’araldo aspettò.

Eppure accadeva sovente, anche per rompere la monotonia dell’assedio, che capitani turchi e capitani cristiani si sfidassero a vicenda e cadessero valorosamente sotto gli occhi dei due eserciti.

È vero che la proposta di vedere due donne a combattersi, doveva essere sembrata alquanto strana agli assediati, pur sapendo di avere con loro la duchessa d’Eboli, il famoso Capitan Tempesta, che tanto aveva fatto parlare di sé durante il terribile assedio di Famagosta.

Per tre volte il turco rinnovò la sfida, poi, sempre protetto dalla bandiera bianca, ritornò verso il campo. Cinque minuti dopo le artiglierie riprendevano la loro musica infernale, accompagnate, di quando in quando, da forti scariche d’archibugi.

Il Bascià era rimasto sulla sua galera insieme alla nipote, già coperta d’una leggera armatura d’acciaio che le lasciava interamente liberi i movimenti, tanto era stata ben lavorata, e col capitano d’armi. Udendo le colubrine a tuonare, capì subito, senza attendere l’araldo, che la sfida non era stata accettata.

— Non hai fortuna — disse ad Haradja, che fremeva tutta, e mandava fiamme dagli occhi. — La cristiana non ha accettato.

— Che sia diventata vile, o che il suo braccio sia ormai troppo pesante? — si chiese la castellana, coi denti stretti.

— La faremo uscire.

— Ah sì!... Quando vedrà il figlio non rimarrà certamente entro Candia.

— E nemmeno il Leone.

— Ed il colpo sarà fatto.

— Aspettiamo, nipote. Non aver fretta e lasciati guidare da me, che in simili faccende, ho maggior esperienza di te.

— Ma non vedi che io brucio, zio?

— La tua armatura non è ancora diventata rossa — disse il Bascià, sorridendo.

— Che non si decida?

— Si deciderà quando vedrà il piccino.

— E, se per caso, io e Metiub, venissimo disarcionati e feriti, dovremo lasciarcelo portare via?

— Chi? Il piccolo? Mai più.

Haradja lo interrogò cogli occhi.

— Lo affiderò ad un cavaliere arabo, che monterà pure un cavallo arabo, il migliore che si troverà nel nostro campo. Se tu perdi fuggirà a corsa sfrenata, e tu sai come vanno quei figli del deserto quando montano i loro destrieri. E poi... e poi ci sarà dell’altro. Non ti lascerò certamente finire né dalla cristiana, né da suo marito.

— Spiegati.

— Farò scavare, questa notte, una fossa abbastanza ampia per nascondere dieci cavalieri i quali, al momento opportuno, copriranno la tua ritirata e quella del tuo capitano d’armi.

— Tu prepari un tradimento.

— Tutto è buono in tempo di guerra — rispose il Bascià. — Vengano i veneziani a protestare nel nostro accampamento, se ne avranno il coraggio. Io però, prima, vi lascerò battere finché o gli uni o gli altri non siano a terra.

— Sicché domani?...

— Io spero che tu potrai finalmente incrociare la spada colla tua nemica — rispose il Bascià. — Ora lasciami occupare di quest’assedio, che mi sembra non debba finire così presto come il Sultano sperava.

— Posso andare a vedere il piccino? — chiese Haradja.

— Domandalo ai due negri che vegliano dinanzi alla cabina. Ci rivedremo a pranzo.

La castellana d’Hussiff attese che il Bascià si fosse imbarcato su una scialuppa, per recarsi a terra, poi si precipitò giù dalla scala del cassero seguita dal suo capitano di armi. Dinanzi alla cabina occupata dal figlio del Leone di Damasco, vegliavano altri due negri, non meno giganteschi degli altri, armati di archibugi colle micce accese.

— Fatemi largo — disse Haradja. — Io sono la nipote del Bascià.

— Non possiamo, signora — disse uno dei due negri, alzando rapidamente l’archibugio, con un gesto minaccioso.

— Ti ho detto, canaglia, che sono la nipote del grande ammiraglio!... — gridò Haradja.

— Fossi tu anche la prima Sultana, — rispose il negro — non ti lascerei passare.

— E se l’uomo che mi segue fosse il Sultano e volesse vedere il fanciullo che si trova rinchiuso in quella cabina?

— Non entrerebbe vivo.

— Chi dunque può solamente entrare?

— Il Bascià — rispose il negro.

— E nessun altro?

— Nemmeno il Sultano, nemmeno Maometto, se fosse ancora vivo, nemmeno Allah.

Haradja mandò un urlo di furore e si volse verso il suo capitano d’armi dicendogli:

— Spazziamo questa canaglia!...

Stava per estrarre la sua corta scimitarra e precipitarsi sui due giganteschi negri, quando Metiub disse:

— Non comprometterti con tuo zio, signora. Ne hai troppo bisogno per compiere la tua vendetta.

— È vero — disse la castellana, con voce sibilante. — Il Bascià poteva però fare a meno di mettere qui questi due cretini che non capiranno mai niente.

— Fuorché gli ordini del padrone, signora.

— Nel mio castello non troverei delle persone così devote.

— Ed io?

— Tu sei il solo.

Ringuainò la scimitarra e si allontanò bestemmiando Maometto ed Allah, mentre i due negri cambiavano le micce degli archibugi, che stavano per consumarsi.