Parte III

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II IV


I due cugini, così parlando, camminavano lentamente fra gli oscuri colonnati del castello. L’uniforme pestio degli sproni d’Estebano accompagnava lungo i marmi del cortile il fiero racconto d’Elisenda; tutto intorno era silenzio. Intanto la luna alzatasi splendeva già sui monti e sui tetti; una piccola stella le vagava d’accanto e pareva una lagrima di luce.

Estebano mormorò: "La luna piange!" e i due giovanetti s’arrestarono immobili a guardarla, mentr’essa benignamente li inondava di raggi. Allora comparve illuminato e purissimo il viso della fanciulla.

A fermare col pensiero la tenuissima gradazione ideale che esisteva fra le fattezze e le anime di quei due cugini, simigliantisi come due fratelli, non troviamo altra imagine fuor che questa:

Estebano era un fiore vivace con un profumo gentile.

Elisenda era un fiore gentile con un profumo vivace.

Il gherofano e la viola avevano fra essi scambiato l’olezzo, e per ridonarselo entrambi era forza che l’uno penetrasse nell’essenza dell’altra. Ogni armonia ed ogni soavità sembrava assorta in quella coppia adolescente. Appariva fra essi di vario appena quel tanto che è indispensabile al simpatico accordo delle cose create. Del resto erano in tutto l’identica ispirazione di Dio tentata su due sessi diversi, Estebano la forma virile ed Elisenda la forma femminea dello stesso divino concetto. Essi si assomigliavano come tutti gli angeli si assomigliano. Certo nelle loro vene scorreva infuso l’azzurro del cielo tanto essi apparivano eterei. L’orgogliosa frase castigliana, sangre azul, colla quale si fregia tuttora l’antichissima nobiltà spagnuola anteriore alla invasione dei saraceni, realizzavasi idealmente nei due ultimi germogli dei Sang-Real.

Quel re di Leone che, ferito in battaglia, macchiò di azzurro la scimitarra del moro nemico, era un antenato dei nostri giovanetti reali. Le teste d’Elisenda e d’Estebano dovevano esser state create per portar nimbo o corona; un’aura monarchica e serafica si condensava attorno le loro fronti come una gloria, e i cieli d’oro di Zurbaran si abbozzavano vagamente dietro lo spazio in cui respiravano. Immobili, Estebano ed Elisenda, fissavano sempre la luna.

A far vieppiù tenace la loro contemplazione s’aggiungeva lo sgomento che provavano entrambi nel sentirsi vicini e l’indicibile terrore del guardarsi nel viso.

S’amavano già e non s’erano neanche intraveduti, tanto l’oscurità scendeva fitta prima che la luna s’alzasse.

S’amavano per la memoria che avevano del loro amore da bimbi, perché quell’amore era stato il primo sogno dei loro cuori infantili e l’ultimo sogno dell’avo moribondo; s’amavano perché un istinto fatale e un’occasione violenta li trascinava ad amarsi; s’amavano perché la farfalla bianca ama il fiorellino bianco e la farfalla celeste il fiorellino celeste, perché erano biondi e pallidi tutti e due, perché si sentivano soli sulla terra, soli ed uniti su quelle notturne alture di paese selvaggio.

Nello stesso modo che sovra il disco lunare l’astronomo contempla il riverbero diurno d’un altro emisfero, i due giovanetti contemplavano nella luna il raggio riflesso del loro timido amore.

Elisenda ruppe prima il silenzio dicendo: "Principe, volete seguirmi nell’oratorio?" e s’incamminò verso una gradinata fosca; Estebano la seguì.

Salirono nel buio l’uno dietro l’altra senza più dir parola.

Giunti al culmine della torre, Elisenda spinse una porta ferrata e grave che ricadde dietro i passi d’Estebano.

Eccoli nell’oratorio.

Il cero santo arde per la morte del nonno ed illumina solo il religioso recinto.

È l’oratorio situato sulla più elevata parte del castello; le pareti ottangolari tese di velluto viola, fiocamente illuminate, sembrano quasi nere e i loro angoli vi si confondono tanto da produrre all’occhio di chi entra l’aspetto d’una costruzione conica. Di fronte all’ingresso sta l’altare innalzato su tre vasti scaglioni coperti da molle e prezioso tappeto. Sopra l’altare è appeso un lunghissimo quadro. Due facce magre guardano dall’alto della nerissima tela. A piedi del dipinto si legge in lettere gialle questa scritta: "el matrimonio de doña Urraca de Castiglia et Alfonso de Aragon". Più sotto la data 1144. Le figure del quadro sono quasi interamente sommerse in una caligine che arriva loro alla bocca, né più s’indovina quale fosse lo sposo e quale fosse la sposa di quell’antico imeneo. Tutti e due hanno negli occhi lo sguardo esterrefatto dei naufraghi e par che presentano l’irrevocabile sollevamento del livello di tenebre che li affoga. Né una mano, né una collana, né l’impugnatura d’un brando traspare attraverso il sudario nero che li va coprendo. Pure in mezzo ad essi si stacca dal buio la linea d’un cero alto ben sette cubiti.

L’ironia del tempo che parla da ogni cosa surta per mano d’uomo, sembra qui voler paragonare quel lungo cero dipinto all’altro rimasuglio di torcia che arde nel mezzo della cappella e che non ha più d’un palmo d’altezza. L’ironia diventa più bieca quando si sappia che uno è l’imagine intiera dell’altro. I secoli consumarono il cero ardente come consumarono i due monarchi effigiati nel quadro; l’ombra salì su questo, la luce calò su quello.

Fra le modanature dell’altare si vedono scolpite le parole: mensa regia.

Un messale d’argento massiccio è aperto a sinistra del ciborio. Agli otto angoli della cappella pendono o giacciono stole, turiboli, spade, morioni, flabelli, palii, clamidi, rosarii, farraginosamente accumulati. Su tre ampli cuscini, disposti rasente l’orlo del più alto gradino della mensa regia, riposano due corone e una mitria.

Pochi passi bastano a misurar l’oratorio. Tutto il genio spagnuolo è compendiato in quelle pareti e in quelle spoglie pompose. Penetrando in quel ricinto chiuso e opulento come una tomba, ove tante reliquie reali e papali sono agglomerate, il pensiero porge al pensiero queste parole: Angusto et Augusto.