I vecchi e i giovani/Parte Prima/Capitolo Terzo

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Capitolo Terzo.


Neanche polvere, niente!


— Di qua, di qua, mi segua, — disse al signore, che gli veniva dietro, il vecchio cameriere dalle piote sbieche in fuori, che lo facevano andare in qua e in là, con le gambe piegate e quasi cempennante.

Attraversarono su i soffici tappeti tre stanze in fila, in ognuna delle quali il cameriere, passando, apriva gli scuri dei finestroni. Le stanze tuttavia rimanevano in penombra, sia per la pesantezza dei drappi, sia per la bassezza della casa sovrastata dagli edifizii di contro che paravano. Aperti gli scuri, il cameriere guardava la stanza e sospirava, come per dire: — "Vede com’è arredata bene? Intanto non figura!,,

Pervennero così al salone in fondo, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di dorature.

Il signore trasse da un elegante portafogli un biglietto da visita stemmato, ne piegò un lembo e lo porse al cameriere, il quale, indicando un uscio nel salone, disse:

— Un momentino. C’è di là il cavalier Préola.

— Préola padre?

— Figlio. [p. 72 modifica]

— E cavaliere per giunta?

— Per me, — protestò il vecchio inchinandosi profondamente con la mano al petto, — tutti i padroni miei, cavalieri!

E, andandosene su i piedi sbiechi, lesse sottecchi, sul biglietto da visita: Cav. Gian Battista Mattina.

— (Costui, — dunque, — cavaliere autentico, pare.)

Il Mattina rimase in piedi, cogitabondo, in mezzo al salone; poi scrollò le spalle, seccato; volse uno sguardo distratto in giro; vide uno specchio alla parete di fronte e vi s’appressò.

In quel vasto specchio, dalla luce tetra, la propria immagine gli apparve come uno spettro; e ne provò un momentaneo turbamento indefinito.

Spirava da tutti i mobili, dal tappeto, dalle tende, quel tanfo speciale delle cose antiche, appassite nell’abbandono; quasi il respiro d’un altro tempo.

Il Mattina si guardò di nuovo attorno con una strana costernazione per la immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti, chi sa da quanti anni lì senz’uso, senza vita. Si accostò di più allo specchio per scrutarsi davvicino, movendo pian piano la testa, stirandosi fin sotto gli occhi stanchi, profondamente cerchiati, le punte dei folti baffi conservati neri da una mistura, in contrasto coi capelli precocemente grigi, che conferivano cotal serietà al suo volto bruno. A un tratto, un lunghissimo sbadiglio gli fece spalancare e storcere la bocca, e, all’emissione del fiato, contrasse il volto in un’espressione di nausea e di tedio. Stava per scostarsi dallo specchio, allorchè sul piano della mensola, chinando gli occhi, scorse qua e là tanti bei mucchietti di tarlatura, disposti quasi con arte, e si chinò a mirarli con curiosità. Avevano lavorato bene quelle tarme! E nessuno, intanto, pareva tenesse in debito conto la lor fatica.... Eppure, [p. 73 modifica]il frutto, eccolo là, bene in vista, che diceva: “Questo è fatto. Portate via!„ Stese una mano a uno di quei mucchietti, ne prese un pizzico e strofinò le dita. Niente! Neanche polvere.... E, guardandosi i polpastrelli dell’indice e del pollice, andò a sedere su una comoda poltrona accanto al canapè. Seduto, la scosse un po’, come per accertarsi della solidità.

— Neanche polvere.... Niente!

Con una smorfia, trasse dal tavolinetto tondo innanzi al canapè un album, in capo al quale era il ritratto del padrone di casa, il canonico Agrò.

Era sempre parso al Mattina che il canonico Pompeo Agrò avesse una strana somiglianza con un uccellaccio, di cui non rammentava il nome. Certo il naso, largo alla base, acuminato in punta, s’allungava in quel volto come un becco. Era però negli occhietti grigi, vivi, sotto la fronte alta e angusta, tutta la malizia astuta, sottile e tenace, di cui l’Agrò godeva fama.

Il Mattina esaminò quel viso, come se nei tratti di esso volesse scorgere la cagione dell’invito ricevuto la sera avanti. Che diamine poteva voler da lui l’Agrò? Il dissidio di questo canonico gran signore col partito clericale, dissidio che suscitava tanto scandalo in paese, era proprio proprio vero, o non piuttosto un atteggiamento concertato, insidioso, per tradir la buona fede dell’Auriti, penetrar nel campo avversario e sorprenderne le mosse? Eh, a fidarsi d’una volpe.... Quel colloquio segreto col Préola.... Fosse tutto un tranello?

Alzò gli occhi, volse di nuovo lo sguardo attorno e di nuovo dall’immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti senz’uso e senza vita si sentì turbato, quasi che essi, per averne egli scoperto le magagne, lo spiassero ora più ostili. [p. 74 modifica]

Udì per le tre stanze in fila la voce del vecchio cameriere, che ripeteva:

— Di qua, di qua, mi segua.

Posò l’album e guardò in direzione dell’uscio.

— Oh! Verònica....

— Caro Titta, — rispose Guido Verònica, arrestandosi in mezzo al salone.

Si tolse le lenti per pulirle col fazzoletto pronto nell’altra mano; strizzò gli occhi ovati, foremente miopi, e con l’indice e il pollice della mano tozza si stropicciò il naso maltrattato dal continuo pinzar delle lenti; poi si appressò per sedere su la poltrona di fronte al Mattina; ma questi, alzandosi, lo prese sotto il braccio e gli disse piano:

— Aspetta, ti voglio far vedere....

E lo condusse innanzi alla mensola per mostrargli tutti quei mucchietti di polviglio.

Il Verònica, non comprendendo che cosa dovesse guardare, miope com’era, si chinò fin quasi a toccar col naso il piano della mensola.

— Tarli? — disse poi, ma senza farci caso, anzi guardando freddamente il Mattina, come per domandargli perchè glieli avesse mostrati: e andò a seder su la poltrona.

Tu quoque? — domandò allora il Mattina, rimasto male e volendo dissimular la stizza. — Come va?

— Non so di che si tratti, — gli rispose il Verònica con l’aria di chi voglia nascondere un segreto.

— Oh, neanch’io, — s’affrettò a soggiungere il Mattina con indifferenza.

E posò gli occhi senza sguardo su la fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in vario senso: ferite riportate in duello.

— Torni da Roma?

— No. Da Palermo. [p. 75 modifica]

— E ti tratterrai molto?

— Non so.

Dimostrava chiaramente il Verònica, con quelle secche risposte, che voleva restar chiuso in sè, per non darsi importanza con ciò che — volendo — avrebbe potuto dire.

Difatti il suo còmpito, adesso, era questo: mostrarsi seccato, anzi stanco e sfiduciato. Per sua disgrazia, egli — e tutti lo sapevano — aveva un ideale: la Patria, rappresentata, anzi incarnata tutta quanta nella persona d’un vecchio glorioso statista battuto alcuni anni addietro in una tumultuosa seduta parlamentare, dopo una lotta piccina e sleale. Per questo ministro si era cimentato in tanti e tanti duelli, riportandone quasi sempre la peggio; aveva respinto su i giornali, con inaudita violenza di linguaggio, le ingiurie degli oppositori. Ma ormai, caduto quel ministro, anche la patria era caduta: la canaglia pigmea trionfava: non era noja, la sua; era schifo di vivere, ormai. Non credeva minimamente che Roberto Auriti potesse vincere, quantunque sostenuto dal Governo; ma il suo Vecchio venerato — che ancora intorno all’avvenire della patria s’illudeva come un fanciullo — gli aveva imposto di recarsi a Girgenti a combattere per l’Auriti; sapeva che questi, più che per le premure del Governo s’era piegato ad accettare la lotta per la spinta del vecchio statista; ed eccolo a Girgenti. Tanto per non venir meno al dovere, rispondeva ora all’invito dell’Agrò, d’un canonico, lui che amava i preti quanto il fumo negli occhi. C’era; bisognava che s’adattasse. Non ostante però la sfiducia con cui s’era lasciato andare a quella impresa elettorale, si sentiva alquanto stizzito, ora, nel vedersi messo alla pari con un Mattina qualunque, appajato con costui nella [p. 76 modifica]piccola congiura che il canonico Agrò pareva volesse ordire.

Il Mattina si mosse su la poltrona, sbuffando e prendendo un’altra positura.

— Si fa aspettare.... — disse.

— Chi c’è di là? — domandò Guido Verònica, senz’ombra d’impazienza.

Il Mattina si protese e disse sottovoce:

— Préola figlio, la lancia spezzata d’Ignazio Capolino. L’ho saputo dal cameriere. Che te ne pare? Domando e dico, che cosa stiamo a fare qua, noi due?

— Sentiremo.... — sospirò il Verònica.

— Non vorrei che....

Il Mattina s’interruppe, vedendo aprir l’uscio ed entrare, lungo e curvo su la sua magrezza, il canonico Pompeo Agrò.


Io porto il gamellino.


Facendo cenno con ambo le mani ai due ospiti di rimaner seduti, Pompeo Agrò disse con vocetta arguta e stridente:

— Chiedo vènia.... Stieno, stieno, prego. Caro Verònica; cavaliere esimio. Qua, cavaliere, segga qua, accanto a me: io, sa bene, non ho paura de’ suoi peccatucci di gioventù.

— Sì, gioventù! — sorrise il Mattina, mostrando il capo grigio.

Il canonico trasse dal petto un vecchio orologino d’argento.

— Il pelo, eh.... si cangia il pelo, lei m’insegna, e non il vizio. Già le dieci, perbacco! Ho perduto molto tempo.... Mah! [p. 77 modifica]

Si turbò in volto; restò un momento perplesso, se dire o non dire; poi, come attaccando una coda al sospiro rimasto in tronco:

— La gratitudine, un mito!

Tentennò il capo, e riprese:

— Sarebbero comodi lor signori di venire un momentino con me?

— Dove? — domandò il Mattina.

— In casa di Roberto Auriti.... tanto amico mio, tanto.... fin dall’infanzia, lo sanno. E i nostri padri? Amicissimi; oh! più che fratelli. Compagni d’arme, eh? Il padre di Roberto, a Milazzo; mio padre cadde al Volturno. Storia, questa. Se ne dovrebbe tener conto in paese, invece di menare tanto scalpore per la mia.... come la chiamano? diserzione.... eh? diserzione. La veste! Sissignori. Ma sotto la veste c’è pure un cuore; e ce l’ho anch’io per la santa amicizia, e anche.... e anche....

Il Canonico voleva aggiungere “per la patria„; lo lasciò intendere col gesto e pose un freno alla foga del sentimento generoso.

Egli si sforzava di parlar dipinto, con un risolino arguto su le labbra, strofinandosi di continuo le mani secche, ossuto, sotto il mento, come se le lavasse alla fontanella delle sue frasi polite, sì, non però fluenti limpide e continue, ma quasi a sbruffi, esitanti spesso e con curiosi arresti. Di tratto in tratto, nel sollevar le pàlpebre stanche, lasciava intravvedere qualche obliquo sguardo fuggevole, così diverso dell’ordinario, che subito ciascuno immaginava dovesse quell’uomo, nell’intimità, solo con sè stesso, non esser quale appariva, aver più d’una afflizione profondamente segreta, che lo rendeva astuto e cattivo, e travagli d’animo oscuri.

— Prima d’andare, — riprese, cangiando tono, — [p. 78 modifica]due paroline per intenderci. Avrei meditato.... messo su, o mi sembra, un piccolo piano di battaglia. Non la pretendo a generale, veh! Lor signori combatteranno; io porterò il gamellino; Ecco. Ben ponderato tutto, il nostro più temibile avversario chi è? Il Capolino? No; ma chi gli fa spalla: il Salvo, già suo cognato, potentissimo. Ora io da buona fonte so, che il Salvo, fino a pochi giorni fa, non voleva permettere in verun modo questa.... questa comparsa del Capolino.

— Sì, sì, — confermò il Mattina. — A causa delle trattative di matrimonio tra la sorella e il principe di Laurentano.

— Oh! Benissimo, — approvò il Canonico. — Ma il Salvo concesse la grazia di fargli spalla appena seppe che il principe non intendeva d’aver riguardo alla parentela dell’Auriti e ordinava non ne avesse parimenti il partito. Stando così le cose, le sorti del nostro Roberto sono quasi disperate. Non c’illudiamo.

— Eh, lo so! — sbuffò il Verònica.

Subito il Canonico lo arrestò con un gesto della mano, seguitando:

— Ma se noi, ecco, pognamo che noi, signori miei, a dispetto della libertà concessa dal principe, riuscissimo a legar mani e piedi al colosso, al Salvo.... eh? Come? Ecco: sarebbe questo il mio piano.

Pompeo Agrò, data così l’esca alla curiosità, stette un pezzo con le mani spalmate, sospese sotto il mento; poi le ritrasse, richiudendole; chiuse anche gli occhi per raccogliersi meglio; lasciò andar fuori un altro: “Ecco!„, come un gancio per sostener l’attenzione dei due ascoltatori, e rimase ancora un po’ in silenzio.

— Lor signori sanno le condizioni con cui si [p. 79 modifica]effettuerà il matrimonio per espressa volontà del Laurentano. Ora queste condizioni, secondo che io ho disegnato, dovrebbero diventare il punto.... come diremo? vulnerabile del Salvo.

— Il tallone d’Achille, — suggerì il Mattina, scotendosi.

— Benissimo! d’Achille! — approvò l’Agrò. — E mi spiego. Preme al Salvo certamente, avendole accettate, che il figlio del principe, residente a Roma (mi par che si chiami Gerlando, eh? come il nonno: Gerlandino, Landino) non sia, o almeno, non si mostri apertamente contrario a questo matrimonio del padre. Anzi so che il Salvo ha posto come patto imprescindibile la presenza del giovine alla cerimonia nuziale, per il riconoscimento del vincolo da parte sua e come impegno da gentiluomo per l’avvenire. Io non conosco codesto Gerlandino, ma so che è di pelo.... cioè, diciamo, di stampa ben altra dal padre.

— Opposta! — esclamò il Verònica. — Io lo conosco bene.

— Oh bravo! — soggiunse l’Agrò. — Egli dunque, ammesso pure che non abbia neanche le ideo di Roberto Auriti, tra i due, voglio dire tra questo e un Capolino, dovrebbe aver più cara, m’immagino, la vittoria del parente.

Guido Verònica, a questo punto, si scosse e sospirò a lungo, come per vôtarsi dall’illusione accolta per un momento, e disse:

— Ah, no, non credo, sa! non credo proprio che Lando s’impicci di codeste cose....

— Mi lasci dire, — riprese il Canonico, con voce agretta.... — A me non cale ch’ei se ne impicci: vorrei solamente sapere da Lei che è stato tanto tempo a Roma e conosce il giovine, se l’antagonismo, diciamo così, tra don Ippolito Laurentano e [p. 80 modifica]donna Caterina Auriti sussista anche tra i loro figliuoli.

— No, questo no! — rispose subito il Verònica. — Sono anzi amicissimi.

— E mi basta! — esclamò allora il Canonico picchiandosi col dorso d’una mano la palma dell’altra. — Mi strabasta! Se della parentela con l’Auriti non vuole tener conto il padre, può invece, o potrebbe, tener conto il figlio. Ed ecco legato il Salvo, il colosso!

Pompeo Agrò volle godere un momento di quella prima vittoria, guardando acutamente, con un sorriso un po’ smorfioso, il Verònica, poi il Mattina, già accampati entrambi nel suo piano, stimato almeno meditabile. Quindi, come un generale non contento di vincere soltanto a tavolino, con le leggi della tattica, scese a osservare le difficoltà materiali dell’impresa.

— Il punto, — disse, — sarà persuadere a quel benedetto Roberto di servirsi di questo spediente. Giacchè, per lo meno, abbiamo bisogno di una lettera privata di Gerlandino, da far vedere o conoscere in qualche modo al Salvo, ecco! o diretta al Salvo stesso, che sarà difficile, o a Roberto o a qualche amico: a Lei, per esempio, caro Verònica: insomma, una prova, un documento....

Guido Verònica non volle dichiarare ch’egli non poteva attendersi una lettera da Lando, col quale non aveva alcuna intrinsechezza; stimò, sì, ingegnoso il piano dell’Agrò, ma forse inattuabile per la troppa schifiltà di Roberto, il quale.... il quale.... sì, benemerenze patriottiche — “Onestà immacolata!„ — soggiunse l’Agrò. — Sì, — concesse il Verònica, — e anche ingegno, se vogliamo; ma.... ma.... ma.... al dì d’oggi... e gli secca il Prefetto, [p. 81 modifica]e par che gli secchino anche gli amici.... basta! Sarà un affar serio! Io, per me, mi metterei anche la pelle alla rovescia per ajutarlo; però....

S’interruppe; si battè la fronte con una mano esclamò:

— Ho trovato! Giulio.... c’è Giulio.... il fratello di Roberto, giusto in questo momento nella segreteria particolare di S. E. il ministro D’Atri: eh perbacco! a lui sì posso scrivere.... è intimissimo di Lando. Da Giulio si otterrà facilmente quello che vogliamo, senza farne saper nulla a Roberto, che opporrebbe chi sa quanti ostacoli. Ecco fatto!

— Bravissimo! bravissimo! — non rifiniva più d’esclamare il Canonico, gongolante.

Solo il Mattina era rimasto come una barca, la cui vela non riuscisse a pigliar vento. Vedendo quell’altre due barche filar così leste, senza più curarsi di lui rimasto floscio indietro, si sentì umiliato; volle dir la sua e, non potendo altro, si provò a soffiare un po’ di vento contrario e a parar qualche secca e qualche scoglio.

— Già, — disse, — ma non sarà troppo tardi, signori miei? Riflettiamo! Prima che la lettera arrivi, anche facendo con la massima sollecitudine, di qui a Roma, chiama e rispondi! Ci vorrà una settimana; dico poco. Il Salvo avrà tutto il tempo di compromettersi così, da non potersi più tirare indietro.

— Eh, lo vorrò vedere! — esclamò il Canonico con un sogghignetto, e alzando una mano, come per salutarlo da lontano. — No, sa! no, sa! Mai piùù, mai piùù, mai piùù.... Vuole che gli stia poi tanto a cuore il Capolino?

— Ma la propria dignità, scusi! — ribattè il Cavaliere, come se fosse in ballo la sua. — Bella figura [p. 82 modifica]farebbe! Ma sa che oggi stesso nella sala di redazione dell’Empedocle si proclamerà ufficialmente la candidatura, con l’intervento del Salvo e di tutti i maggiorenti del partito? Che scherziamo?

— In questo caso, — saltò a dire il Verònica, — per far più presto, si spedirà a Giulio ora stesso, d’urgenza, un telegramma in cifre.

— Bravissimo! — tornò ad approvare il Canonico, debellando il Mattina.

— Sì, sì, — seguitò il Verònica. — Roberto ha un cifrario particolare col fratello. Non perdiamo più tempo.... Piuttosto.... aspetti!... ora che ci penso.... il Selmi.... perdio!

— Selmi? — domandò il Canonico, stordito da quel nome, che cadeva all’improvviso come un ostacolo insormontabile su la via così bene spianata. — Il deputato Selmi?

— Corrado Selmi, sì, — rispose il Verònica. — L’ho, visto a Palermo.... Ha promesso a Roberto di venire qua, per lui, e che anzi avrebbe tenuto un discorso....

— Ebbene? — fece l’Agrò. — Anzi, un parlamentare di tanta autorità.... vero patriota....

— Lasci andare! lasci andare! — lo interruppe il Verònica, socchiudendo gli occhi, scotendo una mano. — Patriota.... va bene! Bacato, bacato, bacato, caro Canonico.... Debiti.... compromissioni.... storie.... e Dio non voglia che il povero Roberto per causa di lui.... Basta. Non è per questo, adesso.... Ma per Lando Laurentano....

E Guido Verònica fece più volte schioccar le dita, come per strigarsele dell’impiccio che gli dava il pensiero del Selmi.

— Non capisco.... — osservò il Canonico. — Forse tra il Laurentano e il Selmi?... [p. 83 modifica]

— Eh, altro! — esclamò il Verònica. — Nimicizia mortale!

— Affar di donne, — aggiunse il Mattina, serio, socchiudendo gli occhi, soddisfattissimo di quella contrarietà.

E il Canonico, incuriosito: — Ah sì? Di donne?

— Storia vecchia, — rispose il Verònica. — Finita, a quanto pare; ma, fino a un anno fa, Corrado Selmi — lo dico perchè tutta Roma lo sa — fu l’amante di donna Giannetta d’Atri, moglie del Ministro d’oggi.

Il Canonico levò una mano:

— Uh, che cose! E questa.... e questa donna Giannetta chi sarebbe?

— Ma una Montalto! — disse Verònica. — Cugina di Lando.... Lei sa che la prima moglie del Principe fu una Montalto.

— Ah, ecco! E forse il giovine...?

— Da ragazzo, tra cugini.... Questo non lo so bene. Il fatto è che Lando Laurentano provocò due volte il Selmi.... Ora, capirà, se questi viene qua a sostenere la candidatura di Roberto....

— Già, già, già.... ora comprendo! — esclamò il Canonico. — Si dovrebbe impedire! Ah, si dovrebbe impedire!

— Forse non sarà difficile, — concluse il Verònica. — Perchè Corrado Selmi avrà da combattere por sè nel suo collegio.... Basta, vedremo. Adesso andiamo subito da Roberto.

Il Canonico si alzò.

— Pronti, — disse. — La vettura e giù. Un momentino, col loro permesso. Prendo il cappello e il tabarro.

Poco dopo, il Verònica e il Mattina rividero il [p. 84 modifica]vecchio cameriere dai piedi sbiechi, parato da automedonte, e salirono in vettura con l’Agrò.

Venendo su dal Ràbato, per piazza San Domenico notarono subito un movimento insolito lungo la via maestra. Quattro, cinque monellacci, correndo e arrestandosi qua e là, strillavano il giornaletto clericale Empedocle, che pareva andasse a ruba.

— L’Impìducli! L’Impìducli!

E per tutto si formavano capannelli, qua a leggere, là a commentar vivamente qualche articolo, certo violento, stampato in quel foglio.

Il Verònica, vedendo passare presso la vettura uno di quegli strilloni, non seppe resistere alla tentazione, e mentre il Canonico — che per le vie della città, in quei giorni, si sentiva in mezzo a un campo nemico — consigliava: — “Meglio a casa! meglio a casa!„ — si fece buttare nella vettura una copia del giornale. La prese il Mattina.

— Leggo io?

E cominciò a leggere sottovoce l’articolo di fondo, quello che, evidentemente, suscitava tanto fermento nel pubblico.

Era intitolato Patrioti per bisogni di famiglia, e si riferiva — senza far nomi, ma con turpe evidenza — alla memoria di Stefano Auriti, padre di Roberto, alterando con odiosa vilissima calunnia la storia romanzesca del suo amore per Caterina Laurentano; la fuga de’ due giovani poco prima della rivoluzione del 1848; la parte presa da Stefano Auriti a questa rivoluzione “non già per amor di patria, ma appunto per bisogni di famiglia, cioè per la conquista d’una dote insieme con le grazie del suocero per forza, ricco, liberale, sì, ma ahimè, d’una inflessibilità superiore a ogni previsione„.

Man mano, leggendo, la voce del Mattina si [p. 85 modifica]alterava dallo sdegno, acceso maggiormente dall’indignazione dell’Agrò, che prorompeva di tratto in tratto, accennando di turarsi le orecchie e buttandosi indietro:

— Oh vigliacchi! oh vigliacchi!

A un certo punto il Mattina si vide strappar di mano il giornale. Guido Verònica, pallidissimo, col volto scontraffatto dall’ira, aprì, tutto vibrante, lo sportello della vettura, ne balzò fuori e, senza sentire i richiami del Canonico, tanto per cominciare si lanciò di furia tra un crocchio di gente, in mezzo al quale stava il Capolino, a cui schiaffò in faccia il giornale, stropicciandoglielo sul muso.

L’aggressione fu così fulminea, che tutti restarono per un momento storditi e sgomenti, poi s’avventarono addosso all’aggressore: accorse gente, vociando, da tutte le parti: nel mezzo era la mischia, fitta: volavano bastonate, tra urli e imprecazioni. Il Mattina non ebbe tempo nè modo di cacciarsi in difesa del Verònica; ma, poco dopo, l’abbaruffìo, lì nel forte, s’allargò: la rissa era partita. Il Canonico chiamava, smaniando, dalla vettura il Mattina. Questi udì alla fine e si volse; ma vide in quella il Verònica senza cappello, senza lenti, strappato, terreo, ansimante, tra una frotta di giovani che evidentemente lo difendevano, e accorse. Ritornò, poco dopo, alla vettura del Canonico:

— Niente, — dice; — stia tranquillo; andiamo pure; è tra amici; se l’è cavata bene.

Il Canonico tremava tutto.

— Signore Iddio, Signore Iddio.... che scandalo.... Ma perchè?... Schifosi.... Non conveniva sporcarsi le mani.... E ora che avverrà?

— Oh, — fece con una certa sprezzatura il Mattina. — Un duello: è semplicissimo.... o una [p. 86 modifica]querela, se la santa religione non consentirà a quel farabutto di dar conto delle turpitudini, che pure gli ha permesso di sfognare.

— La religione, scusi, lasciamola stare, cavaliere, — disse Pompeo Agrò pacatamente. — Non c’entra e.... mi lasci dire! non c’entra neppure il Capolino.

— Come no?

— Mi lasci dire. Io so chi ha scritto l’articolo, quella sozzura. Il Préola, il Préola venuto stamani da me, non so da chi spedito.... Brutto ingrato! feccia d’uomo!

— Ma il Capolino, — obbiettò il Mattina, — è direttore del giornale e ha lasciato passar l’articolo.

— Giurerei, metterei le mani sul fuoco, — rispose il Canonico, — che non lo lesse prima. È mio avversario, veda, eppure lo riconosco incapace d’una siffatta bassezza.... E ora, che troveremo in casa di Roberto?


La bocca amara.


Donna Caterina Auriti-Laurentano abitava con la figlia Anna, vedova anch’essa, e col nipote, una vecchia e triste casa sotto la Badìa Grande.

La casa era appartenuta a Michele Del Re, marito di Anna, che null’altro aveva potuto lasciare in eredità alla vedova giovanissima, all’unico figliuolo, Antonio, che ora aveva circa diciott’anni.

Vi si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati dai cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buje come antri, botteghe per lo più di fabbricatori di pasta al tornio stesa lì su canne e cavalletti ad [p. 87 modifica]asciugare, e dalle catapecchie delle povere donne che passavano le giornate a seder su l’uscio, le giornate eguali tutte, vedendo la stessa gente alla stess’ora, udendo le solite liti che s’accendevano da un uscio all’altro tra due o più comari linguacciute per i loro monelli che, giocando, s’erano strappati i capelli o rotto la testa. Unica novità, di tanto in tanto, il Viatico; il prete sotto il baldacchino, il campanello, il coro delle di vote:

                              Oggi e sempre sia lodato
                              nostro Dio sacramentato....

Morto, dopo appena tre anni di matrimonio, il marito, Anna Auriti era quasi morta anch’essa per il mondo. Fin dal giorno della sciagura non era uscita infatti mai più di casa, neanche per andare a messa, le domeniche; nè s’era mai più mostrata, nemmeno attraverso i vetri delle finestre sempre socchiuse. Soltanto le monache della Badìa Grande, affacciandosi alle grate a gabbia, avevano potuto vederla dall’alto, quand’ella veniva a prendere, sul vespro, un po’ d’aria nell’angusto giardinetto pensile della casa, ch’era addossata alla tetra, altissima fabbrica di quella badìa, già antico castello baronale dei Chiaramonte. Nè certo quelle monache avevano potuto sentire alcuna invidia di lei reclusa come loro. Come loro, se non più semplicemente, ella vestiva di nero, sempre; come loro nascondeva, sotto un fazzoletto di seta nera annodato al mento, i capelli, se non recisi, non più curati affatto, appena ravviati in due bande e attorti alla lesta dietro la nuca; que’ bei capelli castani, voluminosi, che tanta grazia un giorno, acconciati con arte, avevano dato al suo pallido, mite dolcissimo volto, [p. 88 modifica]

Donna Caterina aveva condiviso strettamente questa clausura della figlia, vestita anch’essa di nero, sempre, fin dal 1860, data della morte eroica del marito, a Milazzo.

Alta di statura, rigida, magra, ella non aveva però l’aria di mesta e calma rassegnazione della figlia. I continui, atroci dolori sofferti, la macerazione cupa dell’orgoglio, la fierezza del carattere che, a costo d’incredibili sacrifizii, non s’era mai smentita di fronte alle più crudeli avversità della sorte, le avevano alterato così i lineamenti del volto, che nessuna traccia esso serbava più, ormai, dell’antica bellezza. Il naso le si era allungato, affilato e teso sulla bocca vizza, qua e là rientrante per la perdita di alcuni denti; le gote le si erano affossate; aguzzato il mento. Ma soprattutto gli occhi, sotto le folte sopracciglia nere, mostravano la rovina di quel volto: le pàlpebre s’eran rilassate, una più una meno; e quell’occhio più dell’altro socchiuso, dallo sguardo lento, velato d’intensa angoscia, conferiva a quella faccia spenta, cèrea, l’aspetto d’una maschera orribilmente dolorosa. I capelli, intanto, le erano rimasti nerissimi e lucidi, quasi per dileggio, per far risaltare meglio lo scempio di quelle fattezze e smentir la credenza che i dolori facciano incanutire.

Tutto, tutto aveva sofferto donna Caterina Laurentano, anche la fame, lei nata nel fasto, allevata e cresciuta fra gli splendori d’una casa principesca: la fame, quando, domata la rivoluzione del 1848, a diciotto anni, col primo figliuolo neonato, Roberto, aveva dovuto seguire nell’esilio, in Piemonte, il marito, escluso con altri quarantatrè dall’amnistia, e condannato alla confisca dei pochi beni. Il padre, don Gerlando Laurentano, anch’egli tra quei [p. 89 modifica]quarantatrè esclusi, la aveva allora invitata ad andare con lui a Malta, suo luogo d’esilio, a patto però che avesse abbandonato per sempre Stefano Auriti. Lei? Aveva rifiutato sdegnosamente; e con più sdegno aveva poi rifiutato la limosina del fratello Ippolito, il quale con altri pochi indegni della nobiltà siciliana era andato a ossequiar Satriano a Palermo, e ne aveva ottenuto la restituzione dei beni confiscati al padre. Ed era andata a Torino col marito, tutti e due sperduti e come ciechi, a mendicare per quel figlioletto la vita.

Nessuno degli esuli, dei fuorusciti siciliani colà aveva voluto credere dapprima, che ella di così cospicui natali, unica figliuola femmina del Principe di Laurentano non avesse portato nulla con sè nè ricevesse soccorsi dalla famiglia; e Stefano Auriti era stato perciò in tutti i modi ostacolato dagli stessi compagni di sventura nella ricerca affannosa d’un posticino che gli avesse dato pane, solo pano per la moglie e per sè. E allora ella s’era gravemente ammalata, e per cinque mesi era stata in un ospedale, ricoverata per carità dopo infiniti stenti e per carità il piccolo Roberto era stato allevato in un altro ospizio. S’eran ravveduti finalmente e commossi i compagni d’esilio e avevano ajutato a gara Stefano Auriti. Uscita dall’ospedale, ella aveva ricevuto la notizia che il padre, don Gerlando Laurentano, era morto volontariamente a Bùrmula, di veleno.

Dei dodici anni passati a Torino, fino al 1860, donna Caterina serbava ormai una memoria vaga confusa, come d’una vita non vissuta propriamente da lei, ma piuttosto immaginata in un sogno strano e violento, in cui tuttavia sprazzavano visioni liete qualche momento felice e ardente, d’entusiasmo patriottico. [p. 90 modifica]

Incancellabilmente impressa nel cuore aveva invece l’ora del risveglio da questo sogno: allorchè le era pervenuta la notizia che Stefano Auriti, partito col figliuolo appena dodicenne da Quarto, con Garibaldi, per la liberazione della Sicilia, era caduto nella battaglia campale di Milazzo.

Neanche la grazia di farla impazzire aveva voluto concederle Iddio in quel momento! E aveva dovuto sentire, vedere quasi, il suo cuore di moglie straziato, colpito a morte, là in Sicilia, trascinarsi sanguinando dietro al figliuolo giovinetto, rimasto ora senza il presidio del padre, a seguitare la guerra.

Le avevano fatto a Torino una colletta, e coi due orfanelli, Giulio e Anna, nati colà, era ritornata in Sicilia, nella patria già liberata; ma da vedova, in gramaglie, e più misera di come n’era partita: tra l’esultanza di tutti, lei, con quei due piccini, vestiti anch’essi di nero. Roberto era già entrato a Napoli con Garibaldi, e ora combatteva sotto Caserta, accanto a Mauro Mortara.

Era stata accolta in casa degli Alàimo, parenti poveri di Stefano Auriti. Novamente il fratello Ippolito, ora riparato a Colimbètra, le aveva profferto ajuto; e novamente, con pari sdegno, ella lo aveva rifiutato, meravigliando e gettando nella costernazione gli Alàimo, che la ospitavano. Povera gente, anche d’intelletto povera e di cuore, quante amarezze non le aveva cagionate! S’era dovuta guardare da loro, come da nemici acerrimi della sua dignità, ch’essi non intendevano; capacissimi com’erano di chiedere e d’accettare di nascosto quell’ajuto che ella aveva rifiutato, non contenti del lavoro che faceva in casa e che si procacciava da fuori per cavarne un giusto compenso al poco dispendio che dava loro. [p. 91 modifica]

S’era rialzata per poco da quell’orribile avvilimento al ritorno di Roberto, accolto da tutto il paese quasi in delirio. Ancora, ricordando quel giorno quel momento, le sue misere carni eran corse da brividi. Ah con quale esultanza, con che spasimo d’amore e di dolore s’era serrato al seno il figliuolo, che ritornava solo, senza il padre, l’eroe giovinetto dalla camicia rossa, che il popolo le aveva recato su le braccia in trionfo!

Il Governo provvisorio le aveva accordato un sussidio mensile, e a Roberto — non potendo altro, per l’età — aveva accordato una borsa di studio in Palermo. L’aveva perduta pochi anni dopo, questa borsa, Roberto per seguire Garibaldi alla conquista di Roma. Ma al torrente di sangue giovanile che avrebbe ristorato le vene esauste di Roma, la ragion di Stato aveva opposto, ad Aspromonte, un argine di petti fraterni; e Roberto, con gli altri, era stato preso e imprigionato, prima alla Spezia, poi al forte Monteratti a Genova. Liberato, aveva ripreso gli studii, per poco. Nel 1866, dietro a Garibaldi di nuovo. Solo nel 1871, gli era venuto fatto di laurearsi in legge; e subito era andato a Roma per provvedere, dopo tante vicende tumultuose, alla propria esistenza e a quella de’ suoi. Qualche anno dopo, lo aveva raggiunto il fratello Giulio. Anna, a Girgenti, aveva già trovato marito, e donna Caterina — aspettando che Roberto a Roma con la fiamma dell’anima eroica, con le benenerenze sue non comuni e il non comune ingegno si facesse largo e si preparasse un avvenire splendido, degno del suo passato, e la consolasse in fine di tutte le amarezze patite e dell’avvilimento, per cui maggiormente aveva sofferto — era andata a vivere in casa del genero Michele Del Re. [p. 92 modifica]

La morte di questo, tre anni dopo, la sciagura della figlia, la miseria sopravvenuta di nuovo, quasi non avevano avuto potere di scuoterla da un dolore più cupo e profondo, in cui era caduta. Il figlio, il figlio da cui tanto s’aspettava, il suo Roberto, là, fra il trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffavano reclamando compensi, carpendo onori e favori, il suo Roberto s’era perduto! Stimando semplicemente dovere sacro quanto aveva fatto per la patria, non aveva voluto nè saputo accampate alcun diritto a compensi; aveva forse sperato e atteso che gli amici, i compagni, si fossero ricordati di lui dignitoso e modesto. Poi forse lo schifo lo aveva vinto e tratto in disparte.

E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, onde s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari, che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, dall’ungherese colonnello Eberhardt venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la Prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni [p. 93 modifica]truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali e clientele spudorate e brogli elettorali; ripartizione iniqua delle imposte, spese pazze, cortigianerie degradanti; l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori....

Da due giorni — dacchè Roberto era arrivato a Girgenti — usciva dalla bocca amara di donna Caterina Auriti questo fiotto veemente di crudeli ricordi, d’acerbe rampogne, di fiere accuse. Guardando il figlio, a traverso le pàlpebre rilassate, con quell’occhio quasi spento, ella si vôtava il cuore di tutte le amarezze accumulate in tanti anni e rattenute; di tutto il dolore, di cui l’anima sua s’era nutrita e attossicata.

— Che speri? che vuoi? — gli domandava. — Che sei venuto a far qui?

E Roberto Auriti, investito dalla furia della madre, taceva aggrondato, a capo chino, con gli occhi chiusi.

Aveva ormai quarantatrè anni: già calvo, ma vigoroso, dal torace erculeo, bello di maschia bellezza col volto fortemente inquadrato dalle folte sopracciglia nere, quasi giunte, e dalla corta barba pur nera, se ne stava profondamente avvilito e addogliato, come un fanciullo debole al cospetto di quella madre che, pur così debellata dai dolori e dagli anni, serbava tanta energia di carattere e così fieri spiriti.

Si sentiva veramente sconfitto, Roberto Auriti. L’animo, troppo teso negli sforzi eroici della prima gioventù, gli era venuto meno a poco a poco, di fronte alla nuova, laida guerra, guerra di lucro, [p. 94 modifica]guerra per la conquista indegna dei posti. E ne aveva chiesto uno anche lui, non per sè, per il fratello Giulio, e lo aveva ottenuto al Ministero del tesoro. Egli s’era affidato a gli scarsi, incerti proventi della professione d’avvocato: proventi che tuttavia, talvolta, non gli lasciavano al tutto tranquilla la coscienza, non già perchè non li credesse meritato compenso al proprio lavoro, allo zelo; ma perchè la maggior parte delle liti gli venivano per il tramite dei deputati siciliani suoi amici, di Corrado Selmi specialmente, e per parecchie aveva il dubbio, che le avesse vinte, non tanto per la sua bravura, quanto per l’indebita e non gratuita ingerenza di quelli. Ma egli, morto il cognato Michele Del Re, aveva la madre e la sorella vedova e il nipote da mantenere a Girgenti; oltre che a Roma, da parecchi anni ormai, non era più solo.

Certo la madre non ignorava la convivenza di lui a Roma con una donna, di cui per antichi pregiudizii e per la puritana rigidezza dei costumi ella non poteva avere alcuna stima; non glien’aveva mai fatto parola; ma egli sentiva l’aspra condanna nel cuore materno, un’altra amarezza — secondo lui ingiusta — che la madre non gli mostrava per non avvilirlo, por non ferirlo vie più.

Ma forse donna Caterina, in quei momenti, non vi pensava punto, tutt’intesa com’era a porre innanzi al figliuolo, con foga inesausta, insieme coi ricordi luttuosi della famiglia, le condizioni tristissime del paese.

E durante questa fervida, nera descrizione, la sorpresero il canonico Pompeo Agrò e il Mattina. [p. 95 modifica]


Meglio prima! Meglio prima!


Dalla cordialità vivace, con cui Roberto Auriti lo accolse, l’Agrò comprese subito ch’egli ignorava ancora la pubblicazione di quel turpe articolo. Presentò il Mattina, ossequiò la signora.

Donna Caterina aspettò che i primi convenevoli fossero scambiati e che i due amici esprimessero la gioja di rivedersi dopo tanti anni; o riprese, rivolta all’Agrò:

— Per carità, monsignore, glielo dica anche Lei, che è amico sincero. Qua siamo tra noi. Anche questo signore, se l’ha condotto Lei, sarà amico. Io voglio persuadere mio figlio a non accettare questa lotta.

— Mamma.... — pregò Roberto, con un sorriso afflitto.

— Sì, sì, — incalzò la madre. — Lo dicano Loro. Che ha fatto egli e perchè, in nome di che cosa viene oggi a chiedere il suffragio del suo paese? Forse in nome di tutto ciò che fece da giovinetto, in nome del padre morto, in nome dei sacrifizii e degli ideali santi per cui quei sacrifizii furono fatti e quello strazio sofferto? Ma farà ridere!

— Oh, no, perchè, donna Caterina? — si provò a interrompere il canonico Agrò, ponendosi una mano al petto, quasi ferito. — Non dica così.

— Ridere! ridere! — riprese quella con più foga. — Perchè dica un po’ Lei come quegli ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano? Che n’ha avuto? com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e [p. 96 modifica]del Sessanta? Ma tutti i vecchi, qua, gridano: — Meglio prima! Meglio prima! — E lo grido anch’io, sai? io, Caterina Laurentano, vedova di Stefano Auriti!

— Oh, mamma! mamma! — supplicò Roberto, recandosi le mani agli orecchi.

E subito la madre:

— Sì, figlio mio: meglio prima, perchè almeno avevamo la speranza e il conforto d’un avvenire migliore: la speranza che ci sostenne e ci fece vincere in mezzo a tutti i triboli che tu sai e non sai, là, a Torino.... Meglio prima! Credi, credi che non vuole più saperne il popolo, di quegli ideali. Troppo cari li pagò, e ora basta! Va’, va’, ritòrnatene a Roma! Perchè io non voglio, non posso ammettere che tu sia venuto qua in nome del Governo che ci regge. Tu non hai rubato figlio mio; tu non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie, alle turpitudini della partigiana, iniqua amministrazione dei nostri comuni infeudati da anni alle consorterie locali, che ne usano in tutti i modi sotto l’egida dei prefetti e dei deputati, tu non hai favorito la prepotenza nefanda delle combriccole che appestano l’aria delle nostre città, come la malaria appesta le nostre campagne! E allora perchè? che titoli hai tu per essere eletto? chi ti sostiene chi ti vuole?

Entrò, in questo punto, Guido Verònica, rassettato e ricomposto. Era salito all’albergo, dopo la rissa, per cambiarsi d’abito, e vi aveva lasciato detto che se qualcuno fosse venuto a cercar di lui, egli sarebbe ritornato alle ore tre del pomeriggio. Subito l’Agrò e il Mattina gli fecero cenno con gli occhi, che Roberto non sapeva nulla. Donna Caterina Auriti s’era levata in piedi, per incitare il figlio a rifiutare l’ajuto del Governo, che del resto non avrebbe avuto alcun [p. 97 modifica]valore nell’imminente lotta, e ad accettar questa, invece, m nome del popolo oppresso. Non avrebbe vinto, certamente; ma la sconfitta almeno non sarebbe stata disonorevole e sarebbe servita di mònito al Governo.

— Perchè voi lo vedrete, concluse. — Io faccio una facile profezia: non scapperà un anno, e noi assisteremo a scene di sangue: il popolo non ne può più e si prepara, e presto scoppierà la rivolta!

Guido Verònica parò le mani grassocce, scrollò il capo:

— Per carità, signora mia, per carità, non dica codeste cose, che sono orribili in bocca a lei! Le lasci dire ai sobillatori, ai demagoghi che, senza volerlo fanno il giuoco dei clericali! Scusi, Canonico; ma è proprio così! Quattro mascalzoni ambiziosi, che seminano la discordia per assaltare i Consigli comunali e provinciali e anche il Parlamento; altri quattro ignobili nemici della patria, che sognano la separazione della Sicilia sotto il protettorato inglese uso Malta! E c’è poi la Francia, la nostra cara sorella latina, che soffia nel fuoco e manda denari per trar partito domani di qualche sommossa pazza brigantesca, ispirata dalla mafia!

— Ah sì? — proruppe donna Caterina, che s’era tenuta a stento, — E si conforta così Lei? Ma codeste sono calunnie, le solite vecchie calunnie che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai tirannelli locali capi-elettori; calunnie per mascherare trenta e più anni di mal governo; calunnie più ridicole forse che odiose! Qua c’è la fame, caro signore nelle campagne e nelle zolfare; qua ci sono il latifondi, la tirannia feudale dei cosidetti cappelli, dei cosidetti galantuomini, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche [p. 98 modifica]da comperarsi il pane; ci sono tutte le angherie che si possono impunemente commettere, approfittando della spaventevole ignoranza di questi poveri schiavi, abbrutiti dalla miseria. Si stia zitto! si stia zitto!

Guido Verònica sorrise nervosamente, inchinandosi e aprendo le braccia; poi si rivolse a Roberto: — Oh senti.... (col suo permesso, signora!): avrei bisogno del tuo cifrario, per spedire un telegramma d’urgenza a Roma.

— Ah già, bravo, bravo! — esclamò il canonico Agrò, riscotendosi dal doloroso atteggiamento preso durante la violenta intemerata di donna Caterina.

Roberto si recò di là per il cifrario. La conversazione cadde fra i tre amici e la vecchia signora; poi l’Agrò per rompere il silenzio penoso sopravvenuto, sospirò:

— Eh, certo sono tristi assai le condizioni del nostro povero paese!

E la conversazione fu ripresa un po’, ma senza più calore. I tre avevano un’intesa segreta tra loro ed erano anche gonfii e costernati dello scandalo di quell’articolo: si scambiavano occhiate d’intelligenza, avrebbero voluto rimanere soli un momento per accordarsi sul miglior modo di preparare Roberto a questa notizia. Ma donna Caterina non se n’andava.

— Sa se Corrado Selmi — le domandò Guido Verònica — ha scritto a Roberto che verrà?

— Verrà, verrà, — rispose ella, scrollando il capo con amaro sdegno.

— Ci ho pensato, — disse piano il Verònica all’Agrò e al Mattina. — Tanto meglio se viene. Anzi gli spedirò io stesso un telegramma perchè venga subito, per me, capite? Così Lando.... zitti, ecco Roberto.

Ma non era Roberto: entrò invece nella sala un giovinetto alto, smilzo, a cui le lenti serrate in cima [p. 99 modifica]al naso, congiungendo le folte sopraciglia, davano un aria di cupa e rigida tenacia. Era Antonio Del Re, il nipote Pallidissimo di solito, appariva i quel momento quasi cèreo.

— Hanno letto nell’Empedocle? — domandò con un fremito nelle labbra e nel naso.

Il canonico Agrò e il Mattina alzarono subito le mani per impedire che seguitasse.

— Contro Roberto? — domandò donna Caterina.

— Contro il nonno! — rispose vibrante il giovinetto. — Una manata di fango! E contro te!

— Sozzure! sozzure! — esclamò l’Agrò. Per carità non ne sappia nulla il povero Roberto!

Già sta a leggerlo, — disse il nipote, sprezzante.

— No! no! — gridò allora l’Agrò, levandosi in piedi. — Oh Signore Iddio, bisognava prevenirlo! Già questi farabutti hanno avuto la lezione che si meritavano dal nostro Verònica! Per carità vada lei, donna Caterina.... Imprudenza, imprudenza, ragazzo mio!

Donna Caterina accorse; ma troppo tardi. Roberto Auriti, ignorando quello che poc’anzi aveva fatto il Verònica, era corso — pallido, col volto contratto da un sorriso spasmodico, e come un cieco — alla redazione di quel giornalucolo, presso Porta Atenèa. Vi aveva trovati già raccolti i maggiorenti del partito, con Flaminio Salvo alla testa, per proclamare, subito dopo l’aggressione, la candidatura d’Ignazio Capolino. Al vecchio usciere, che stava di guardia nella saletta d’ingresso, innanzi all’uscio a vetri della sala di redazione, aveva detto — ancor sorridendo a quel modo — che Roberto Auriti voleva parlare col direttore. Nella sala di redazione s’era fatto un improvviso silenzio; poi agli orecchi di Roberto eran venute queste parole concitate: [p. 100 modifica]

— Nossignori! Vado io, tocca a me; l’articolo l’ho scritto io, e io ne rispondo!

Non aveva neppur visto chi gli s’era fatto innanzi: gli s’era lanciato addosso come una belva, lo aveva levato di peso e scagliato con tale impeto contro l’uscio, che questo s’era sfondato, sfasciato, con gran fracasso e rovinìo di vetri infranti.

Quando il Verònica, il Mattina e il nipote Del Re sopraggiunsero a precipizio, tra la ressa della gente accorsa da ogni parte agli urli che s’eran levati altissimi dalla sala di redazione, Marco Préola col volto insanguinato e un coltello in mano si dibatteva ferocemente, sbraitando:

— Lasciatemi, maledetti, lasciatemi! Se lo liberate adesso, l’ammazzo più tardi! Lasciatemi! lasciatemi!