I suicidi di Parigi/Episodio primo/XV

Episodio primo - XV. Un capitolo di romanzo

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XV.

Un capitolo di romanzo.

Le emozioni, che dalla vigilia, colpo su colpo, eransi avvalangate su Regina, l’avevano sconvolta, disfatta.

Questa giovane non aveva conosciuto fin lì altri fremiti [p. 89 modifica]che quelli del piacere; altre cure, che le cure della toilette; altri turbamenti, che quelli dei desiderii non per anco soddisfatti; altre sensazioni, in una parola, che le sensazioni diverse che accompagnano il compimento delle imprese della vita elegante, della vita delle feste, dell’esistenza dei favoriti della fortuna e della natura. Ora, questa sultana dei saloni aristocratici subiva, da ventiquattro ore, i dolori più strazianti, le ferite più spietate cui potevano infliggere il denigramento, il rimorso, l’insulto, l’ignominia.

Ella era sottostata al racconto di Marco di Beauvois; al perdono di suo marito; al disdegno freddo di suo cognato; alla vista commovente delle sofferenze di Alberto Dehal; a Sergio — il quale l’aveva perfino richiesta di dettagli sullo stato del suo antico rivale, quasi e’ fosse stato uno straniero! Ella aveva sofferto l’insonnio della notte; la battaglia del cuore che consigliavale di rivelar tutto a suo marito; lo stoicismo ateo del dottore di Nubo, il quale aveva riso il mattino di tutte quelle corbellerie; e l’incontro col principe, cui ella aveva dovuto vedere quel giorno istesso per informarlo di tutto ciò che era avvenuto.

Il principe sapeva tutto di già.

Regina era abbattuta. Ella bruciava dei fuochi della febbre. I suoi pensieri s’infrangevano sotto il suo cranio come i cavalloni corrucciati della tempesta addentano il lido.

Rientrando, alle cinque, un messaggiero portò una lettera per suo marito. Ella la prese e gliela recò.

— Vien dal giornale — disse Sergio scorgendola. Leggila.

Regina lesse:

«Non abbiamo seppure una linea di manoscritto per domani. Ce ne occorre ad ogni costo. La fine, la fine, la fine ad ogni modo.»

— Ebreo errante, marcia! — gridò Sergio poggiando il capo sul guanciale.

— Andiamo, amico mio — ripetè Regina — un po’ di coraggio. Vuoi tu che io scriva sotto la tua dettatura? Puoi tu dettare?

— Che ne so io? La mia testa se ne va.

— Prova, amico mio, vediamo, io sono qui. Se non puoi, cesseremo. [p. 90 modifica]

Sergio si sollevò sul suo cubito, passò la mano sulla sua fronte, e concentrossi, per raccogliere le sue idee. Infine, cominciò a dettare.

Regina coprì di scrittura pagina su pagina. Era la fine del romanzo: Les sixièmes étages de Paris.

Regina, l’eroina del romanzo a cui Sergio aveva impartito il nome tanto amato di sua moglie, era per suicidarsi.

Sergio dettava:

«Il veggio era acceso. Le finestre e la porta ermeticamente riturate. Il povero giaciglio, non più verginale, ma innocente sempre era pronto a riceverla, come l’altare riceve le vittime delle tragedie antiche.

«Regina baciò religiosamente una ciocca di capelli di suo padre, il ritratto di sua madre, che pendeva al suo capezzale, a lato dell’immagine della madre di Dio. Ella cacciò bene addentro, in una piega del suo busto, un fiore da lungo tempo appassito, una lettera che conservava ancora le impronte delle sue lagrime — l’ultima, la lettera di separamento da Maurizio d’Apremont. Ella lisciò i suoi capelli, raggiustò la sua veste da domenica, di cui erasi azzimata per presentarsi innanzi alla morte, linda, bella, con tutte le eleganze che l’avevano adorna in la vita. Poi si assise alla sua piccola tavola, da cui cavò un foglietto di carta, e scrisse la lettera seguente:»

— Di’ carina — chiese Sergio — vuoi tu darmi una tazza di the?

— Lo vo benissimo — rispose Regina alzandosi dallo scrittoio. Ma l’è terribile e stupendo. Non mai avesti tu più di vena. Tu sei ispirato, amico mio.

— Esaltamento di febbre — replicò Sergio. Al postutto, ch’è dunque l’ispirazione se non una febbre cerebrale? Ed io ò due febbri: una alla testa, una al cuore.

Regina fece un passo verso di lui. Ebbe una tentazione subita di gittarsi nelle braccia del marito e di dirgli: «Giudicami! ecco le mie colpe!» Ma ella credè di scorgere negli occhi di Sergio uno sguardo sinistro, una luce scura che l’arrestò. Volse quindi il dorso in silenzio e se ne andò lentamente a preparare il the.

Sergio seguilla degli occhi con ansietà. Si avrebbe potuto leggere sul suo sembiante il desiderio di richiamarla... Si astenne. Invece, sporse la mano e preso tutto il manoscritto cui Regina veniva di terminare. [p. 91 modifica]

Questa ritornò tosto col the.

Sergio poggiò la tazza sul mobile vicino al suo letto, e, leggendo sempre la scritta della moglie, o sorbendo a centellini la bevanda profumata, le disse:

— Andremo a continuare.

— Dammi i fogli allora — rispose Regina.

— Prendi un altro quinterno — replicò Sergio senza levar gli occhi dal manoscritto.

— Non v’è che della carta a lettere.

— Ma! la carta a lettere è pur della carta, perdio! — sclamò Sergio con impazienza, leggendo sempre. — Scrivi dunque.

Regina prese un foglietto, e, la penna in aria, aspettò in silenzio che suo marito dettasse.

Sergio continuò:

«L’è troppo tardi, amico mio. Tu m’ài colpita del tuo disprezzo e m’ài minacciata di abbandono. La calunnia mi à ferita. Io sono sola. Non posso dunque lottare; non voglio più restare in piedi nella lotta.

«Se tu mi avessi creduta, io avrei resistito, ed avrei forse provato al mondo ch’esso ingannavasi. Tu ti sei arrangato dalla parte de’ miei insultatori. Io aveva vagheggiato la felicità con te, e gustata l’aveva per un dì. Poichè oggi tutto si abbuia, io abbandono il posto, cedo la parte, e mi ritiro — perdonandovi tutti.

«Se non lascio nulla dietro a me, neppur dei rimpianti, sii sicuro, amico mio, che io porto meco qualcosa: la sovvenenza di un amore cui la bufera à fulminato, ma cui Dio non à cessato un istante di benedire. Adesso, le apparenze son contro me. Mi lascio dunque schiacciare da esse... e muoio.

«È terribile pertanto morire a vent’anni! Ma, mestieri n’è. Addio. Io non voglio venir manco, intenerirvi... Addio, amico. Che Dio ti accordi l’oblio, perocchè tu ài di già il perdono della donna che ti amò tanto e che t’ama sempre.»

«Regina


— Regina! — rispose costei, lasciando cader la sua penna. Io scoppio, amico mio. O’ voglia di piangere. L’è ben triste la sorte di questa povera fanciulla. [p. 92 modifica]

— Restiamone dunque lì per oggi, allora — disse Sergio. Anch’io ò il cuore gonfio. Sì, fermiamoci. Non è abbastanza per un’appendice; ma dessi aspetteranno fino a domani. Porgimi codesto foglietto ed apparecchiami un’altra tazza di the. Non desino.

Regina dette la lettera ed uscì. I suoi occhi navigavano nelle lagrime.

Sergio raccolse tutta la copia di Regina, la piegò e la mise sulla colonnina a fianco al suo letto.

La sera, e’ si lamentò di un gran mal di capo.

Regina pranzò sola, ed alle dieci, Sergio la rinviò nella camera di lei.

Durante tutta la sera non le aveva volto dieci parole.

Rientrata in camera, Regina pregò e si coricò.

Ella non abbracciò neppur Nick, la sua guardia del corpo, che restava tutta la notte in fazion alla sua porta. Ella pianse pure senza troppo sapere perchè. Ella pianse di quelle lagrime che talvolta colano, subite e mute, e che muovon da Dio, vengono per la via del cuore, e ci sollevano di una tristezza profonda e misteriosa.

Regina si addormentò alla fine; e due lagrime — due ritardatarie, due trainardes — limpide, lente, spuntarono agli angoli degli occhi, solcarono tranquillamente le guance e bagnarono i guanciali. Erano di quelle perle, per le quali il dio dei cristiani avrebbe perdonato ben altre colpe che quelle di Regina!

A mezzanotte, ella dormiva del sonno placido ed eguale dei bambini.


Altra cosa occorreva nel tempo stesso nella camera di Sergio di Linsac.