I rossi e i neri/Primo volume/XVII

XVII

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XVII.

Di un Don Giovanni da dozzina e delle pretensioni che aveva

Dal bel principio di questo racconto si è fatto cenno di un Arturo Ceretti, figlio del padrone di casa del signor Lorenzo Salvani, notando che il giovinotto, salvo il nome attillato e profumato di Arturo, era tutto suo padre, il vecchio Nicola Ceretti di Molasana1, antico muratore e capomastro arricchito. Aggiungeremo adesso che era bianco e roseo; che aveva il naso un po’ stiacciato e gli occhi scerpellini, ma che i suoi capegli biondi erano sempre arricciati e lisciati; che era lungo, allampanato e discretamente ciuco; la qual cosa non si argomentava soltanto da due lunghi orecchioni che gli uscivano di riga ai due lati del volto.

Ora che l’abbiamo messo fuori, calziamolo e vestiamolo della roba sua; calzoni stretti di color grigio perlato, con le sue liste nere sulle costure; un abitino tra la giubba e il farsetto, di color caffè, i cui petti si abbottonavano a stento sull’alto del torace; un panciotto di velluto lavorato a scacchi rossi e neri, ed una cravatta di non sappiamo quanti colori. Una catenella d’oro a quattro file gli usciva da un occhiello del panciotto, la quale sosteneva parecchi ciondoli, gingilli ed altri picchiapetti, scendendo con una gran curva ad affondarsi nel taschino, dove era raccomandata all’anello di un orologio che il nostro Arturo faceva spesso vedere, col pretesto di guardar l’ora.

Nè vanno dimenticati gli anelli, che erano in buon dato, e se il nostro personaggio non ne portava ad ogni dito, come gli Assiri, ne aveva per contro due o tre ad un dito solo, tanto per non esser troppo da meno di quei popoli. Il nodo della cravatta era inoltre fermato da una grossa spilla ornata di brillanti. Il cappello era di feltro nero, come quello di tutti gli altri mortali; ma noi mettiam pegno che se il giovine Arturo Ceretti avesse potuto spiccare dal chiodo uno di que’ cappelli d’oro che stanno per insegna sulle botteghe di certi cappellai, lo avrebbe volentieri portato.

Con tanto sfarzo, e con tanto sforzo di eleganza, il signor Arturo Ceretti non ci aveva altro di eletto che il nome. Voleva parere un damerino, e riusciva una figura [p. 146 modifica]grottesca; copiando dai re della moda non era mai vestito a modo. Il suo sarto s’era già parecchie volte sentito tenero di dirgli: per carità, la non confidi a nessuno che sono io che la vesto!

Ma adesso, dallo sfoggio degli abiti nessuno argomenti che il nostro Arturo fosse uno scialacquatore come tanti altri. Era anzi misurato in ogni cosa; non giuocava a nessun giuoco, e segnava sul taccuino le buone e le male spese, per tirar la somma alla fine del trimestre. Il trimestre era il concetto fondamentale della sua testa. Gli averi di mastro Nicola, suo rispettabile genitore, consistevano in otto o dieci case, le quali davano il frutto di un’ottantina di appartamenti; e lo davano, perbacco! I Ceretti, padre e figlio, non usavano concedere proroghe a’ loro pigionali, nè condonare il fitto alla povera gente. Il trimestre era il perno di una ruota che girava di continuo, e i denti dovevano incontrarsi nelle pigioni anticipate; se no, la mercè dei soliti congegni, saltava fuori la citazione dal giudice.

Ora, siccome mastro Nicola sapeva leggere poco, e scrivere anche meno, il nostro Arturo teneva i conti, faceva egli stesso le scritte meglio di un notaro, e non gli sapeva male; che anzi ci aveva gusto. La protuberanza dell’abbaco doveva essere molto rilevata nel suo cranio, e, posta accanto a quella dell’egoismo, doveva formargli una specie di Parnaso, montagna poetica, la quale, se ben ci ricorda, aveva due cime.

E il fonte Castalio? diranno i lettori. Se il Parnaso c’era, il fonte non doveva mancare. Il fonte era degnamente rappresentato da una vena amorosa che spicciava sempre, sebbene non iscaturisse dal cuore. Ma che volete? Sotto l’abbaco e l’egoismo, vette nevose del suo Parnaso, quell’amorosa fontana non poteva dare acque limpide e salutari. Potete dunque argomentar di leggieri che amorazzi fossero i suoi. Correva dietro ad ogni femmina in cui si abbattesse per via; Don Giovanni di razza bastarda, passava il tempo a caccia di dubbie virtù, di bellezze da tanto alla giornata.... e condonateci la parola, che potremmo dir peggio.

Bisognerà tuttavia esser giusti. Arturo Ceretti era dolente di non aver tra mani selvaggina migliore, e si struggeva dal desiderio di esser prescelto da qualche gran dama. Piantato sull’angolo di una strada, in un crocchio di amici, vedeva passare le più lodate per bellezza, e le più tartassate per tutto il rimanente; ma per lui non c’era un bel nulla; doveva restringersi a contar le fortune degli altri. Teneva il suo scanno [p. 147 modifica]a teatro; e là, negli intermezzi del melodramma, ritto in piedi, con le risvolte dell’abito aperte, si atteggiava da conquistatore; ma ohimè! nessuna delle sospirate bellezze rispondeva da un palchetto alle guardate supplichevoli del suo cannocchiale, sebbene fosse incrostato di madreperla.

Ora indovinate a chi facesse l’occhiolino, costui! Alla fanciulla di casa Salvani. Come vedete, ci aveva buon naso. Qualcheduno gli aveva detto un giorno che la sua pigionale dell’ultimo piano era un fior di ragazza, e che egli certamente, da quel gran cacciatore che era, aveva dovuto porle gli occhi addosso, sapendo bene che non era sorella di quello spiantato del Salvani. Non era vero che egli le avesse posto gli occhi addosso; ma, con quel dargli la soia, gli amici lo avevano messo al punto. Da quel giorno il Ceretti si ficcò in capo che avrebbe potuto dar corpo alle celie dei compagni.

Maria non era sorella di Lorenzo; tutti lo dicevano. Che cosa era dunque, se non una amica? E se era un’amica, perchè non avrebbe egli potuto farsi innanzi? I quattrini, diceva Arturo Ceretti, son tutto; ed io ne ho, dei quattrini! Ora vedremo un po’ se non si ha da venirne a capo.

Certa gente ha il privilegio dei mali pensieri. Chi mal fa, mal pensa, dice il proverbio. E il nostro Don Giovanni da dozzina aveva fatto un conto, come sanno farne i suoi pari.

Egli dunque faceva l’occhiolino alla ragazza, con quella sicurtà che è propria di certi figuri, e che cresce anzi in ragione diretta delle loro sconfitte. Ora immaginate come dovesse il nostro Ceretti essere sicuro del fatto suo! Non c’era verso che la fanciulla di casa Salvani lo guardasse in viso, sebbene le cento volte, come suo casigliano, egli si fosse messo in mostra, o nelle scale, o alla finestra del cortile, dove, la mercè di un gomito che facevano gli appartamenti, egli poteva vederla e farsi vedere di sbieco.

Questo giuoco durava da un pezzo, allorquando l’occasione si offerse al giovine Arturo di metter piede in casa della sua bella pigionale. Il giorno del trimestre anticipato era venuto, ma il dente della ruota non aveva nulla in cui potesse incastrarsi; il che, vuol dire che Lorenzo Salvani non aveva pagato.

Era quello il caso di mandare la citazione; ma per quella volta il meccanismo dei Ceretti si dipartì dalle sue astiose consuetudini. In cambio dell’usciere, andò il giovine Arturo, vestito con quella eleganza che i lettori conoscono, carico d’oro, di profumi e di smancerie. [p. 148 modifica]

E già s’intende che egli, per andare in casa Salvani, aspettò che Lorenzo non ci fosse; di guisa che gli venne fatto avere un primo colloquio con la bella Maria. E dopo il primo venne il secondo, il terzo e via discorrendo, perchè Lorenzo Salvani aspettava una certa somma di denaro, la quale non giungeva mai. Arturo dal canto suo non incalzava, contentandosi di spesseggiar colle visite. Maria non poteva lagnarsi dei modi riguardosi del padrone di casa, e in quanto alle occhiate, fingeva di non addarsene punto.

Il trimestre, che s’aveva a pagare anticipato, cominciava dal primo di aprile; ma tra questi indugi s’era giunti alla fine di maggio; laonde, se si aspettava ancora un po’, c’era l’altro trimestre da mettergli accanto.

Lorenzo vedeva benissimo tutto l’orrore del suo stato; ma che farci? Egli era al lumicino. Aspettava certi denari da un tale che era debitore di suo padre, ma che faceva orecchi da mercante. Per colmo di sventura, da due mesi gli si era inaridita quella scarsa vena di guadagno che egli ritraeva dal bottegaio, a cui teneva i libri. Una sera, andando dal suo Creso per la consueta bisogna, il povero giovine aveva ricevuto il suo congedo.

- Perchè? non siete voi contento di me? - aveva egli chiesto al paffuto salsamentario.

- Dio guardi! - aveva risposto costui. - Mio nipote, che sa l’aritmetica, ha detto che va tutto a puntino, ed io poi non ho a lagnarmi di Lei. Ma che vuole? Mia sorella è vedova con tre ragazzi, e non ha chi le dia da vivere. Ella mi ha tanto pregato di pigliarmi il suo primogenito in bottega, che io non ho potuto dirle di no. Il sangue non è acqua! Il ragazzo è di buon’indole; sa il fatto suo, come ho detto, ed io, tenendolo qui in bottega, faccio, come suol dirsi, un viaggio e due servizi. -

Non era punto vero quello che il paffuto salsamentario diceva a Lorenzo con tanto candore, e il nostro giovinetto non poteva indovinare che sotto quel melato discorso ci fosse un tiro dell’uomo vestito di nero, dell’amico di Ernesto Collini. Giunto a trapelare la faccenda di quella tenuta di libri, lo scaltro Bonaventura aveva fatto dire al bottegaio non esser dicevole che egli tenesse a fargli i conti quel giovane, il quale aveva mano in certi garbugli politici, con quella gente che voleva rovesciare il governo, arruffare la cosa pubblica e dar di piglio nella roba altrui; però badasse egli alle cose sue e non si ostinasse a tenerlo presso di sè, che gliene sarebbe potuto derivare gran danno. [p. 149 modifica]

Questo discorso, dettato dal padre Bonaventura, era fatto al paffuto salsamentario da un suo vecchio compare, il quale gli aveva sempre voluto un gran bene, e col quale il bottegaio poteva aprirsi liberamente.

- Che diamine mi narrate voi mai! - esclamò il salsamentario, facendo gli occhiacci. - Io non sapevo che il signor Lorenzo fosse un briccone di questa fatta, e l’ho sempre avuto in conto di un giovine dabbene. Ma ora, come potrei farne senza? Mi tiene i conti così pulitamente! Bisogna vedere che fior di scrittura!...

- Oh! se non è altro che questo, - rispose il compare, - io ci ho proprio quello che fa al caso vostro.

- Davvero?

- Sì, un giovane che mi è raccomandato dal reverendo Bonaventura.

- Bonaventura!... Mi par di conoscere questo nome.

- Eh, certo lo conoscerete. È quella degna persona che abita in casa Torre Vivaldi. Il signor Antoniotto lo ha in tale concetto, che ha voluto dargli un quartierino nel suo palazzo.

- Ah sì, mi ricordo, - disse il salsamentario, - è proprio un sant’uomo. E poi, casa Vivaldi si serve da me; e non fo per dire, è molto contenta della mia bottega.

- Orbene, una ragione di più per accettare il giovine raccomandato dal reverendo Bonaventura. Vedete, compare; que’ signori la sanno più lunga di noi, e se vi dicono che bisogna levarsi di bottega quell’arnesaccio, credete pure che ci avranno delle buone ragioni.

- Dite benissimo. Fate venire questo giovine. In quanto all’altro, metterò insieme quattro chiacchiere per mandarlo a spasso. -

In questo modo era stato congedato Lorenzo. Egli non sapeva nulla di ciò; nè, come dicemmo, poteva indovinare che quel tegolo venutogli sul capo, gli fosse stato accoccato da qualche mano nimica. Gli pareva opera del caso; epperò aggiustando fede al racconto piagnoloso del bottegaio, ebbe anzi a lodarlo della sua carità di consanguineo, e se ne andò con l’amarezza nell’anima.

Erano ottanta lire al mese che egli perdeva in un tratto. Ora, come avrebbe egli potuto, non che pagar la pigione, provvedere ai bisogni quotidiani di casa?

Lorenzo era pronto nelle sue deliberazioni, e appena tornato a casa, aveva dato a Michele il suo orologio e la catena d’oro, perchè li portasse al Monte di Pietà. Ma le cento [p. 150 modifica]lire che ne aveva ricavato non approdavano a nulla. In casa non c’era più altro che il puro bisognevole; di guisa che, spese quelle cento lire, non c’era più da fare assegnamento su d’una capocchia di spillo.

Son questi i misteri dolorosi; e sono particolarmente i misteri di quel ceto, in apparenza agiato, ma a gran pezza più povero e più compassionevole del ceto dei braccianti. L’artigiano non ha a studiarsi di parere, non ha obbligo di tenere la dignità conveniente di uno stato, dal quale il mondo giudica un uomo, e senza il quale quest’uomo è perduto senz’altro nella estimazione universale, e gli vengono meno quelle attinenze che lo aiutavano a reggersi.

Infatti, gli usi del vivere, una certa larghezza nelle spese che paiono superflue, il modo di vestire, tengono un uomo a galla nel mare magnum della società. Si sa che non è ricco, ma si sa pure che vive senza chiedere la limosina ad alcuno. Può aver bisogno di voi per un verso, e voi potete aver bisogno di lui per un altro. E frattanto le costumanze sociali, la gente con cui bazzica, e tante altre piccolissime cose, formano intorno alla sua modesta persona quella ragionevole accolta di forze che lo tengono ritto. Ma se una di queste vien meno, le altre le rovinano addietro, e a rivederci coll’equilibrio! Nessuno aveva regalato mai nulla a quell’uomo, ed egli cavava profitto dall’attinenza di tutti. Però, se egli cade, non c’è un cane che lo rialzi. Se qualcheduno per avventura si accosta, fiuta un tratto.... e basta così.

Grande miseria, quella del signore povero, quando non ha più modo di tenere la faticosa dignità del suo stato! Se è un onest’uomo, tra per la disdetta sua e pei mille raffronti, che gli vengono spontanei, delle sue spregiate tribolazioni coll’onorata larghezza di certi felici bricconi, cola rassegnato a fondo, e talvolta anche s’aiuta a sommergersi, per affrettar l’agonia. Se non è di tempera così forte da cansare il mal esempio, s’aggrappa ad ogni cosa che galleggi, e così di ruffa in raffa s’industria, che, pur navigando sulla strada della galera, qualche volta la sfugge, e diventa un uomo per la quale, magari un pezzo grosso.

Ma basti di ciò, per non dar noia al lettore, che dobbiamo condurre in casa di Lorenzo Salvani, povero vergognoso della specie onesta, siccome è già noto.


Note

  1. Nell’originale "Molasana".