I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Nel paese dell'oro

Nel paese dell'oro

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Lo stregone della palude nera Le valanghe degli Urali

NEL PAESE DELL'ORO


La California! – Ecco un nome che faceva battere forte il cuore ai nostri nonni ed anche ai nostri padri.

Correva l'anno 1845 e da tutte le parti del mondo salpavano in gran numero navi d'ogni specie, pei lontani porti dell'America del Nord.

La California era sulle bocche di tutti, perché metteva indosso... la febbre dell'oro!... E dell'oro se ne aveva trovato in quantità meravigliose in quel paese bagnato dalle onde dell'Oceano Pacifico.

Bastava scavare la terra in qualunque luogo per trovare grani e polvere d'oro, sicché dopo che uno svizzero, certo Sutter, ne aveva trovato nel canale del suo mulino, una massa enorme di gente si era riversata su quel paese, poco prima quasi deserto.

Si narravano meravigliose storie su quella terra impastata d'oro, che scaldavano i cervelli anche agli uomini più calmi, più indifferenti.

Si diceva che dei minatori avevano raccolto in poche settimane delle fortune.

È bensì vero che si raccontava anche che molti non erano più tornati perché gl'indiani li avevano uccisi o gli orsi della Sierra Nevada li avevano mangiati, ma chi ci faceva caso?

Martino Rabaldo, un robusto garzone della provincia di Napoli, al pari di tanti altri, aveva dunque deciso di andare a far fortuna in California.

Già nel suo paesello, non la facevano troppo grassa. Mangiava più peperoni rossi e fichi d'India che pane, e non gli pareva giusto di continuare quella vita grama mentre altri non avevano che da curvarsi per empire la bisaccia d'oro.

Dotato d'una certa audacia ed intraprendente, Martino Rabaldo aveva dunque deciso di andare anche lui nel paese fatato per tornarsene poi ricco come un nababbo indiano.

Venduta la casetta che possedeva ed il bue che gli aveva servito ad arare il campicello paterno, Martino s'imbarcò e attraversato l'Atlantico prima, poi parte del Pacifico, sei mesi dopo sbarcava a San Francisco di California, col borsellino molto leggero bensì, ma l'animo ripieno di rosee speranze.

San Francisco non era in quel tempo l'opulenta città di oggidì, né godeva ancora la fama di essere la Regina dell'Oceano Pacifico.

Non aveva né i grandiosi palazzi che si ammirano ora, né le banche colossali, né ferrovie sbuffanti.

Non era formata che da una moltitudine di capanne e di tende improvvisate alla meglio e da un numero immenso di case da giuoco dove i cercatori d'oro si derubavano vicendevolmente e dove anche sovente si accoltellavano.

La quantità enorme di avventurieri, accorsi da tutte le parti del mondo, aveva rincarati i viveri a tale punto, da non averne un'idea. Figuratevi che una libbra di pane si pagava due lire; un paio di stivali cinquecento; un vestito mille e anche di più. Con cinquanta lire al giorno vi era ancora il pericolo di morire quasi di fame.

Il povero Martino al secondo giorno si era così trovato senza un soldo in tasca e colla prospettiva di dimagrire presto nel paese dell'oro.

Come dissi, non era però uomo da perdersi di coraggio. Avendo saputo che l'oro si trovava sulle rive d'un gran fiume chiamato il Sacramento e che per recarvisi occorrevano denari, viveri, qualche mulo e delle armi per difendersi dai briganti che infestavano le foreste, decise di lavorare per mettersi da parte un discreto gruzzolo.

In quell'epoca era facile trovare lavoro, perché tutti gli uomini validi, se ne andavano alle miniere.

Fuggivano i domestici, i facchini, i garzoni, perfino i marinari delle navi che giungevano in porto, per ciò non riuscì difficile accasarsi presso un piccolo albergo in qualità di sguattero.

Martino sapeva adattarsi a tutto ed eccolo lavare bravamente i suoi piatti come non avesse fatto altro mestiere in sua vita. In cambio si guadagnava cinquecento lire al mese, oltre il vitto e l'alloggio, paga favolosa per noi; non certamente in quel paese dove tutto costava esageratamente caro.

Risparmia di qua, risparmia di là, tre mesi dopo Martino dava un addio ai piatti e se ne partiva pel paese dell'oro in compagnia di due americani che asserivano conoscere un luogo dove il prezioso metallo abbondava straordinariamente.

Si erano forniti di zappe e di vanghe, di una ciotola di legno necessaria per lavare le sabbie aurifere, di un mulo pagato mille lire e che avevano caricato di viveri e di armi per difendersi contro i briganti, o contro gl'indiani ancora molto numerosi e ferocissimi.

Il drappello s'era messo animosamente in marcia, sognando già di raccogliere oro a palate. Martino credeva già di vedersi proprietario della più bella casa del paesello natìo, della più bella campagna e dei più grossi armenti.

Ormai non dubitava più di tornarsene in patria ricco a milioni.

Di passo in passo che si allontanavano dalla città, il paese diventava selvaggio. Foreste immense coprivano le montagne, formate per lo più da quei pini giganteschi, ai quali gli americani hanno dato il nome di sequoia e che sono le più alte piante che crescono sul nostro globo.

Figuratevi che ve ne sono alcuni che misurano perfino cento metri! E che grossezza di tronchi poi! Se ne ricorda anche oggidì uno nel cui interno, ben scavato, si diede una festa da ballo con quindici coppie di ballerini!

Sotto quelle foreste Martino vedeva fuggire in gran numero dei piccoli lupi somiglianti alle volpi; enormi bisonti somiglianti ai nostri tori e tre volte più grossi e con una gobba villosa; poi dei cervi rossi che scappavano come fulmini appena vedevano i tre viaggiatori.

Anche gli orsi non mancavano, grossissimi, tutti neri, anzi alla sera osavano mostrarsi vicino all'accampamento dei cercatori d'oro, tenuti solamente in rispetto dai fuochi che si mantenevano accesi tutta la notte.

Martino però, dobbiamo dirlo, aveva imparato a non temerli e più volte aveva fatto fuoco contro di loro per non farsi credere dai due americani d'aver paura.

Dopo quindici giorni di marce faticose attraverso montagne, a boschi, a praterie immense, i cercatori d'oro giungevano sulle rive del fiume nelle cui sabbie dovevano trovare le pagliuzze del prezioso metallo.

– È questo il luogo – disse il più vecchio dei due americani, chiamato John. – Se resisteremo alle fatiche, noi faremo una rapida fortuna.

– Non domando altro che di lavorare – rispose Martino, il quale già credeva di veder luccicare l'oro fra le sabbie del fiume.

Rizzarono la tenda presso un pino gigantesco, circondandola con una siepe formata di rami d'albero onde impedire agli orsi d'accostarsi e di divorare il mulo, misero in ordine i loro bagagli e le casse contenenti le provviste e prepararono ogni cosa per l'indomani.

Ai primi albori, Martino e i due americani erano già al lavoro.

Il primo, non avendo ancora pratica, scavava la sabbia; i due americani, tuffati nel fiume fino alle anche la lavavano nelle ciotole di legno, operazione non facile e che solo si acquistava dopo un lungo tirocinio. Bisognava tenere immersa la ciotola nella corrente, facendola ondeggiare onde le sabbie e le ghiaie se ne andassero.

Dopo un certo tempo si doveva dare alla ciotola un colpo secco che faceva balzare fuori tutti i rimasugli di terra, colpo che solamente i vecchi minatori sapevano dare.

L'oro, più pesante, rimaneva nel fondo e ad operazione finita si poteva non solo vederlo, ma anche valutarlo senza bisogno di pesarlo.

I due americani, vecchi del mestiere, non avevano forse di eguali in quella operazione molto delicata.

I primi lavaggi avevano dato subito frutti inaspettati. Quelle sabbie erano realmente d'una ricchezza prodigiosa, tali da far girare la testa al bravo Martino.

Alla sera i minatori avevano raccolto tanto oro pel valore di tremila lire, ossia quasi un chilogrammo di polvere.

– Martino, – disse il vecchio John, – tu tornerai in patria ricco come un creso.

Immaginarsi quali sogni fece alla notte il bravo giovanotto! La casa, il campo, l'armento, non gli bastavano più. Si credeva già padrone di tutta la borgata e di tutte le campagne e degli orti dei dintorni.

Nei giorni seguenti, Martino ed i due americani continuarono a lavorare con accanimento inaudito.

Le sabbie del fiume diventavano sempre più ricche. Oltre la polvere avevano trovati anche non pochi grani d'oro, grossi come piselli, chiamati pepite.

In una roccia avevano scavato un buco profondo e là accumulavano il tesoro, per paura che durante la loro assenza qualcuno entrasse nella tenda a derubarli.

Erano così trascorsi due mesi ed avevano raccolto tanto oro da arricchirsi tutti, quando una notte Martino, mentre sognava d'aver comperato tutte le case del suo villaggio, fu bruscamente svegliato da un grido straziante che pareva provenisse dalla parte ove avevano nascosto il tesoro.

Spaventato e inquieto si era subito alzato, chiamando John, pel quale aveva sempre avuto una particolare amicizia.

Con suo grande stupore nessuno rispose. Pareva che nella tenda non vi fosse più alcuno.

Il suo primo pensiero fu pel tesoro nascosto nel crepaccio della rupe.

– Che i briganti abbiano assaliti i miei compagni? – esclamò.

Martino non era un pauroso. Armatosi d'una rivoltella, si slanciò fuori dalla tenda, gridando:

– John! John! Dove siete?

Un gemito che veniva dalla parte della rupe fu la risposta.

Si diresse da quella parte ed inciampò contro un corpo umano il quale si dibatteva presso la rupe.

– Chi siete? – gridò, puntando la rivoltella.

– John – mormorò una voce fioca.

Era proprio il vecchio minatore, ma in quale stato! Una tremenda coltellata gli aveva squarciato il ventre ed il sangue gli usciva a fiotti.

– Cosa v'è accaduto, John? – gridò Martino, atterrito. – I briganti forse? E dov'è il vostro compagno?

– Derubati... siamo stati... derubati – gemette il disgraziato.

– Da chi?

– Dal nostro... compagno. L'aveva udito alzarsi e mi era subito venuto il sospetto che volesse derubarci. Mi si è gettato addosso come una tigre e mi ha conciato in questo modo. Martino... per me è finita... lasciatemi morire qui e voi... fuggite... subito... inseguitelo...

– Non vi lascerò, amico – rispose il bravo giovane, commosso fino alle lagrime. – Forse la vostra ferita non è mortale.

– Fuggite – rantolò l'americano. – Ha portato via l'oro e anche i viveri... fuggite se vi preme la vita.

– No, non vi abbandonerò. La vostra vita vale più della mia parte dell'oro e non commetterò mai una così vile azione.

Sollevò l'americano e lo portò nella tenda, ma durante quel breve tragitto il disgraziato, ormai dissanguato, cessava di vivere.

Martino gli si era seduto accanto, piangendo silenziosamente.

Cosa sarebbe accaduto di lui, rimasto ormai solo, senza viveri, senza più nulla e così lontano dai luoghi abitati?

Si pentiva ben amaramente d'aver abbandonato il tranquillo paesello che lo aveva veduto a nascere per capitare su quella terra infestata da bricconi, resi malvagi dalla febbre dell'oro.

– La mia sete per questo funesto metallo mi ha punito – mormorava.

Al mattino, quando spuntò il sole, fece l'inventario di quanto rimaneva sotto la tenda.

Il briccone che aveva così vilmente assassinato il suo compatriota per impadronirsi del tesoro, aveva portato via anche il mulo, tutti i viveri ed i fucili.

Al povero Martino non aveva lasciato che pochi biscotti appena bastanti per vivere tre o quattro giorni e la rivoltella, forse perché si era dimenticato di rubargliela.

– Intravedo già la mia sorte – disse il povero giovane, tergendosi le lagrime. – Morirò di fame in mezzo alle foreste e gli orsi mangeranno il mio cadavere. Sia maledetto il paese dell'oro!

Non voleva però soccombere senza lottare. Scavò una fossa, seppellì l'americano dopo d'averlo avvolto in un pezzo della tenda, si caricò di una coperta e di una pentola, si mise alla cintura la rivoltella e diede un triste addio al fiume dalle pagliuzze d'oro.

Prima però di allontanarsi per sempre, gli venne la felice ispirazione di visitare il crepaccio che aveva servito di nascondiglio al tesoro.

Non ebbe a pentirsi. Il ladro nella fretta aveva lasciato nel fondo non poche pepite ed alcuni pugni di polvere, forse un chilogrammo del prezioso metallo.

– Mi servirà almeno per tornarmene nella mia cara Italia, se Dio mi concederà di giungere fino al mare – disse Martino.

Nascose l'oro in una cintura che portava stretta sotto la camicia, diede un ultimo sguardo alla tomba dell'americano e si mise animosamente in cammino, deciso a lottare disperatamente prima di cadere. Si ricordava vagamente la via percorsa per giungere a quel fiume e sperava di non smarrirsi.

– Mi regolerò col sole – aveva detto. – Bisogna camminare sempre verso ponente e attraversare tre catene di montagne. Chissà che non incontri qualche banda di cercatori d'oro, di ritorno alla costa.

Il giovane era buon camminatore e robustissimo quindi si cacciò senz'altro sotto le immense foreste di pini, procedendo più rapidamente che gli era possibile.

A mezzogiorno fece una breve fermata sulle rive d'un torrentello dove fra i cespugli crescevano delle bacche, cibo preferito degli orsi neri, ne mangiò alcune manate assieme ad un biscotto, poi ripartì marciando sempre verso ponente.

Il paese sembrava deserto. Non si vedevano né animali, né uccelli; invece sempre pini immensi, poi altri pini e sempre così, senza alcuna variazione.

Quel silenzio e quell'isolamento producevano però una penosa impressione sul bravo giovane.

Dei vaghi timori cominciavano a prenderlo, timori che diventavano di momento in momento più intensi.

– Si direbbe che questo non è più il paese dell'oro, bensì il paese della morte – diceva.

Alla sera si arrestò presso un grand'albero. Era tanto stanco da non potersi più reggere in piedi, avendo continuato a camminare fino al calar del sole. Le tenebre che scendevano rapidamente lo atterrirono. Gli pareva di veder vagare fra gli alberi delle bestie enormi, pronte a precipitarglisi addosso appena avesse chiusi gli occhi.

In lontananza udiva le urla lugubri delle coyotes, bestie che hanno del lupo e della volpe e che sono da temersi quando si radunano in gran numero.

– Questa notte verranno a mangiarmi – disse Martino, rabbrividendo. – Accendiamo un gran fuoco per cercare di tenerle lontane.

La legna secca abbondava in quel luogo, sicché non gli riuscì difficile farne un'ampia raccolta che potesse bastargli fino al mattino.

Invece d'un fuoco ne accese due, poi si avvolse nella coperta di lana che aveva portato seco, s'appoggiò al tronco dell'albero e vinto dalla stanchezza non tardò a chiudere gli occhi.

Sognava di trovarsi nel paesello natìo, nella sua vecchia casetta in compagnia dei parenti, quando un urlo rauco lo svegliò bruscamente.

Immaginatevi quale fu il suo spavento, quando aperti gli occhi vide, a dieci passi dai fuochi, un orso nero di statura enorme che lo fissava ferocemente.

Il terribile plantigrado s'era sdraiato presso un folto cespuglio e si leccava le labbra come se già pregustasse le carni del povero giovane.

Ordinariamente gli orsi si nutrono di bacche, di frutta delle foreste, però quando la fame li spinge, diventano facilmente carnivori ed allora assalgono pecore, buoi ed anche gli uomini.

L'animale che lo fissava doveva essere diventato un carnivoro e certamente aveva contato di fare una scorpacciata coll'imprudente che si era addormentato in mezzo alla foresta.

Martino non aveva osato muoversi. Aveva però armata la rivoltella, essendo deciso a vendere cara la propria pelle.

L'orso, anche da canto suo, non faceva un passo innanzi.

Evidentemente quei due fuochi lo spaventavano e attendeva il momento che si spegnessero per assalire l'uomo, stringerlo fra le robustissime zampe e soffocarlo con una stretta poderosa.

– Se la legna dura, posso sperare di salvarmi – mormorò Martino, battendo i denti pel terrore. – Ah! Che brutto paese! Se riesco a mettere i piedi in San Francisco, me ne vado subito nel mio villaggio.

L'uomo e l'animale continuavano a guardarsi. Quest'ultimo di quando in quando mandava un urlo, che si ripercuoteva cupamente sotto gli alberi, e mostrava i lunghi denti aguzzi.

Certamente s'inquietava vedendo che i fuochi non accennavano a spegnersi.

Martino si guardava bene che mancasse la legna. Di tanto in tanto gettava rami sui due falò ravvivando le fiamme.

Furono otto ore d'angoscia indescrivibile pel povero giovane.

Quando però l'alba spuntò, l'animale, disperando oramai di satollarsi colle carni dell'uomo, se ne andò ricacciandosi nella foresta.

Era appena scomparso che già Martino fuggiva a rompicollo, dirigendosi verso una montagna che chiudeva l'orizzonte verso l'ovest.

Camminò anche tutta quella seconda giornata, mangiando solamente due biscotti e dissetandosi in una pozza d'acqua, poi sfinito cadde ai piedi di una pianta, vinto da un torpore profondo.

Quando si svegliò, il sole era già alto, ma era così debole da non potersi quasi reggere.

Le tempie gli battevano fortemente e provava per tutte le membra dei brividi interminabili.

La febbre lo atterrava.

– È finita – mormorò il povero giovane, piangendo. – Ma no, non voglio ancora morire!

Con uno sforzo supremo si rizzò in piedi per rimettersi in cammino, e subito ricadde mandando un grido d'orrore.

Al tronco di quell'albero, presso cui aveva passata la notte, stava legato un uomo quasi nudo ed imbrattato di sangue.

Aveva due larghe ferite al petto, prodotte forse da colpi di scure e la testa era stata privata della cotenna strappata forse violentemente assieme ai capelli.

Quel disgraziato doveva essere stato ucciso da qualche giorno, perché il sangue gli si era ormai raggrumato sul petto e Martino, inchiodato al suolo da un terrore impossibile a descriversi, lo guardava cogli occhi dilatati.

Ad un tratto s'alzò e come fosse stato spinto da una forza irresistibile, s'accostò al cadavere.

– Io lo conosco! – esclamò. – È l'assassino di John!

Martino non si era ingannato: quell'uomo era veramente il compatriota del vecchio minatore, il ladro che aveva rubato il tesoro.

Sorpreso dagl'indiani, nemici implacabili di tutti gli uomini di razza bianca, era stato a sua volta derubato, poi legato all'albero e ucciso dopo chissà quante atroci torture.

Martino stette molto prima di rimettersi dal suo terrore. Fu la paura di vedersi giungere addosso gl'indiani che gli diede nuovamente le ali ai piedi.

– Se mi sorprendono, non mi tratteranno meglio di quell'assassino – disse.

– Fuggiamo!

Si gettò nella parte più folta del bosco e si mise a correre all'impazzata.

Gli pareva di vedersi sempre addosso quei terribili guerrieri dalla pelle rossa, armati delle loro formidabili scuri.

Quanta via percorse? Non lo seppe mai dire. Si ricordò vagamente d'aver superato una montagna, poi d'aver attraversato parecchi torrenti, poi più nulla.

Quando tornò in sé, con sua viva meraviglia, invece di trovarsi fra i cespugli e gli alberi, solo, abbandonato, morente di fame e di febbre, si vide coricato sotto una spaziosa tenda, avvolto in una grossa coperta di lana ben riscaldata.

Un uomo, un messicano, a giudicarlo dalle vesti e dall'ampio cappello di feltro, gli stava seduto vicino, occupato a riempire una tazza d'un liquido fumante.

– Coraggio, giovanotto – gli disse, vedendo Martino alzarsi. – Bevete questo bicchiere di vino di Spagna bollente e anche la febbre se ne andrà!

Martino, sempre più stupito, lo guardava senza parlare.

– Orsù – riprese il messicano, sorridendo. – Non abbiate alcun timore e cercate di riaddormentarvi per ora.

Martino vuotò tutto d'un fiato il generoso vino che gli veniva offerto e tornò ad addormentarsi.

Quarant'otto ore dopo il bravo giovane, sfuggito miracolosamente alla morte, era già in piedi.

Nella sua fuga disordinata era andato a cadere sul sentiero frequentato dai cercatori d'oro della Sierra Nevada ed era stato raccolto dal messicano, il quale tornava allora dalle miniere in compagnia d'alcun compagni.

Il buon uomo, molto diverso da tutti quegli avventurieri che non conoscevano alcuna pietà, lo aveva raccolto e premurosamente curato.

La febbre era stata prontamente frenata mercé una buona dose di chinino ed il delirio era pure cessato.

Tre giorni dopo la carovana si rimetteva in marcia per giungere a San Francisco. Il messicano aveva offerto al bravo giovane una mula onde non si affaticasse troppo e ricadesse ammalato.

Tre settimane più tardi i cercatori d'oro facevano la loro entrata nella capitale della California, senza aver fatto cattivi incontri.

Il messicano, che si era stretto in profonda amicizia per Martino, non lo abbandonò. Lo condusse nella propria casa fino al giorno della partenza d'una nave per l'Europa e siccome aveva raccolto una vistosa fortuna nelle miniere del San Gioachino, lo pregò d'accettare un suo ricordo, dietro promessa di non aprirlo che giunto al paese natìo.

Quel ricordo consisteva in un sacchettino di pelle contenente delle pepite del valore di cinquemila lire.

Martino ora è vecchio, ma è sindaco del suo villaggio, possiede una bella casa, della terra e anche un grosso armento.