I pescatori di balene/XVII. Sepolti sotto le nevi

XVII. Sepolti sotto le nevi

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XVI. La capanna di ghiaccio XVIII. Il ritorno alla costa

XVII


SEPOLTI SOTTO LE NEVI


Nei giorni seguenti i due balenieri si adoperarono per rendere più comoda la loro abitazione nella quale prevedevano di dover passare delle lunghe giornate senza poter uscire.

Vi trasportarono un certo numero di provvigioni sufficienti per nutrirli qualche settimana senz'essere obbligati ad aprire i magazzini che erano stati ben chiusi, per metterli al riparo dagli assalti degli orsi bianchi; vi adattarono nel mezzo una gran lampada che doveva servire da stufa e da camino, costituita da un pentolone di ghisa munito di un grosso lucignolo; coprirono per bene il pavimento dopo aver battuta la neve e vi collocarono due piccoli letti formati di pelli di foca e di coperte di lana, e da ultimo vi trasportarono due barili d'olio di balena che dovevano servire all'illuminazione e al riscaldamento.

Per meglio proteggere la loro dimora dai gelati venti del nord, eressero quasi tutto all'intorno una muraglia di ghiaccio alta una decina di piedi, facendovi anche delle feritoie per difendersi dagli orsi, nel caso che questi fossero così audaci da venir a ronzare in quei pressi.

Il 10 gennaio, stanchi sì ma soddisfatti dei loro lavori, prendevano possesso della loro casupola entro la quale potevano sfidare, senza tema di soffrir troppo, i freddi intensi del polo artico.

Era tempo. Lo stesso giorno, la calma che fino allora li aveva favoriti e la temperatura cangiarono bruscamente.

Una bufera di neve si scatenò con inaudita violenza facendo scendere quasi improvvisamente il termometro a oltre 40° sotto lo zero, accompagnata da rombi minacciosi che annunziavano prossime pressioni.

Sei giorni interi l'uragano imperversò, spazzando i campi di ghiaccio ed atterrando non pochi «icebergs» e moltissimi «hummocks», durante il qual tempo i due balenieri non ardirono porre il naso fuori della loro dimora; poi sopravvennero le pressioni. Il grande banco, stretto d'ogni parte dai ghiacci che continuavano ad accumularsi ai suoi confini, si mise in movimento da nord a sud, da est ad ovest. Seguirono scricchiolii, muggiti, boati, detonazioni indescrivibili, con non poco timore da parte dei due balenieri che temevano assai per i loro magazzini e anche per la loro capanna, le cui pareti più volte oscillarono pericolosamente come se fossero per crollare.

Il 20 vi fu un pò di calma, ed i due balenieri ne approfittarono per sgranchirsi le gambe, ma dovettero prima lavorare un paio d'ore per aprirsi il passo attraverso le nevi che avevano quasi interamente coperta l'abitazione.

— Un'altra nevicata e saremo sepolti! — disse Koninson, salendo sul campo di ghiaccio che aveva raddoppiato lo spessore.

— Vedi nulla di nuovo? — disse il tenente che lo seguiva.

— Sì, un gran numero di ghiacci rovesciati ed enormi spaccature. Ma... tò, cos'è che si muove laggiù?

— Un animale forse?

— Fulmini... un elefante!

— Un elefante qui, con questo freddo? Sei matto, fiociniere?

— Allora è un orso colossale. Un fucile, signor Hostrup, un fucile!

Il tenente ritornò rapidamente nella capanna e prese le due carabine. Salito sul campo, guardò nella direzione che il fiociniere gli indicava.

A trecentocinquanta passi, presso un grandissimo «iceberg», la cui cima pareva che toccasse le nubi, egli vide, non senza una certa emozione, un colossale animale dal mantello bianco con una lunga coda che spazzava la neve.

Koninson non aveva esagerato. Quell'animale era grande quanto un vero elefante, quantunque non avesse nè la tromba, nè le zanne.

— Da dove esce quell'animalaccio? — si chiese il tenente che involontariamente retrocesse. — Non ho mai veduto una cosa simile.

— Che sia un orso di nuovo genere? — domandò Koninson che malgrado la sua straordinaria audacia era diventato pallido e tremava non poco.

— No, non è possibile. Piuttosto lo credo un «rhystine stelleri».

— Che bestia è mai questa? Io non ne ho mai incontrata una nelle mie caccie.

— È un colossale mammifero marino, la cui razza si è spenta da qualche secolo e forse più. L'esploratore Behring ha narrato che quando naufragò sull'isola che oggi porta il suo nome, verso il 1741, trovò una grande quantità di questi «rhystine stelleri». Perchè non potrebbe esistere ancora qualche campione?

— Erano pericolosi?

— No, a quanto lasciò scritto Behring.

— Allora possiamo arrischiare due colpi di carabina.

— Lo credo, Koninson, tanto più che non mi dispiacerebbe un bell'arrosto di carne fresca.

— Avanti allora e non manchiamo al colpo.

I due balenieri, tenendosi celati dietro alcuni massi di ghiaccio, s'avvicinarono all'animale che non pareva disposto a fuggire. Giunti a duecento passi puntarono le armi, e dopo aver mirato attentamente fecero fuoco.

I colpi di fucile furono tosto seguiti da due rumorosi scoppi di risa che gli uguali non avevano mai echeggiato in quelle alte latitudini. E vi era infatti da ridere e molto fragorosamente!

Le detonazioni non erano ancora cessate, che un cambiamento inatteso erasi manifestato. Il grande «iceberg» che pareva toccasse le nubi colla sua vetta, come per incanto era diventato un semplice a «hummock» e il preteso «rhystine stelleri» dalle forme gigantesche una misera... volpe, la quale, più che mai spaventata e ben contenta di non essere stata colta dalle palle, fuggiva con incredibile celerità attraverso i ghiacci.

— Ma che razza di scherzo è mai questo! — esclamò Koninson, che rideva al punto da slogarsi le mascelle.

— Uno scherzo che dovevamo indovinare prima — rispose il tenente che non rideva meno.

— Una semplice rifrazione adunque?

— Sì, la rifrazione, un miraggio qualunque, che lo scoppio delle nostre armi, agitando violentemente gli strati atmosferici, è bastato a distruggere.

— Un fenomeno frequente in queste regioni?

— Molto frequente, fiociniere. Andiamo innanzi, ma badiamo di non scambiare un canaletto per un fiume e un buco per un baratro.

Messi di buon umore da quello scherzo, ripresero il cammino dirigendosi verso nord colla speranza di fare qualche più fortunato colpo di fucile.

Percorsero due chilometri camminando con precauzione e tastando il ghiaccio perchè non si aprisse improvvisamente sotto i loro piedi, ma non incontrarono che «icebergs», che le ultime pressioni avevano inclinati capricciosamente, ma non distrutti. Di animali nessuna traccia: orsi, foche, trichechi, volpi, mancavano assolutamente sul campo di ghiaccio. Perfino gli uccelli erano scomparsi e non si udiva alcun grido in nessuna direzione.

Il tenente e il fiociniere, un pò sconcertati, ritornarono alla loro dimora, inquieti assai a causa di certi brutti nuvoloni che si alzavano rapidamente da nord e che promettevano un'altra abbondante nevicata e un maggior abbassamento di temperatura. E le loro inquietudini non errarono. Erano appena al riparo, che un vento furioso cominciò a soffiare sul campo spingendo innanzi a sè i nembi di ghiacciuoli sottili come aghi che, cadendo, producevano un rumore quasi metallico, mentre nelle alte regioni turbinavano fiocchi di neve di una grossezza inverosimile.

Koninson turò ermeticamente tutte le finestre della capanna ed alimentò la gran lampada per mantenere nell'interno un certo calore. Dopo un magro pasto e una fumata, si avvolsero nelle coperte mentre al di fuori l'uragano continuava a ruggire, ammonticchiando qua e là enormi ammassi di neve.

La notte fu cattiva. Più volte il tenente si svegliò e porse ascolto ai ruggiti del vento ed agli scricchiolii del campo di ghiaccio che talvolta pareva fosse diventato il fondo d'una caldaia in ebollizione e più volte, a rischio di compromettere il suo naso, tentò, ma invano, di guardare ciò che accadeva all'esterno.

Riaddormentatosi per la decima volta, dopo un tempo che stimò non troppo lungo si risvegliò con un certo malessere che non sapeva spiegare.

Respirava con fatica e attorno al capo gli pareva di avere un cerchio di ferro che sempre più si stringesse.

Si guardò intorno. La lampada, che poco prima ardeva benissimo, era moribonda, quantunque fosse piena d'olio. Pareva anzi che si dovesse spegnere da un istante all'altro.

Guardò Koninson e lo vide agitarsi e respirare affannosamente.

— Cosa sta per succedere? — mormorò con qualche ansietà.

Tese l'orecchio. Non udiva più gli scricchiolii dei ghiacci; solamente gli pareva che in distanza rombassero delle detonazioni molto sorde.

— Koninson! Koninson! — gridò.

Il fiociniere agitò le braccia, sbadigliò a lungo mostrando le mascelle solidamente armate di aguzzi denti e apri gli occhi.

— Tenente! — rispose.

— Provi qualche cosa tu?

— Sì, signor Hostrup. Mi pare che il mio capo giri e che i miei polmoni funzionino molto male. Tò! Che cos'ha la lampada che pare voglia spegnersi? Eppure io l'ho riempita per bene.

— Mi assale un dubbio, Koninson.

— E quale mai?

— Che noi siamo sepolti.

— Sepolti! E come? Che il campo di ghiaccio ci abbia inghiottiti senza stritolare la capanna? Sarebbe un bel caso, signor Hostrup.

— Ma poco allegro, fiociniere. Fortunatamente credo che non siamo sotto il banco ma sopra.

— Ed allora chi ci avrebbe sepolti?

— La neve.

— Infatti, signor Hostrup, mi pare che l'aria cominci a mancare. La lampada che si spegne, i nostri polmoni che si affaticano e le nostre teste che girano, sono segni belli e buoni per farci credere che non c'inganniamo.

— Proviamo ad uscire, finchè ci rimane qualche altra boccata d'aria.

Koninson, che non si trovava bene fra quell'aria viziata, levò la pelle che chiudeva l'entrata e si trovò dinanzi ad una massa di neve che pareva dovesse elevarsi quanta era alta la capanna. Si provò di rasparla, ma non ne venne a capo: il freddo intenso l'aveva ridotta in solidissimo ghiaccio.

— Hum! — esclamò. — La faccenda diventa seria, signor Hostrup. Siamo come murati e molto bene, a quanto pare.

— Eppure bisogna uscire, Koninson, e senza perder tempo.

— Proviamo ad aprire il buco che serviva d'uscita al fumo.

— Proviamo, fiociniere. Sta saldo che io mi arrampico su di te.

Koninson si piantò presso la lampada, colle gambe aperte e la testa curva e il tenente gli saltò agilmente sulle spalle. Strappò il pezzo di pelle che chiudeva l'apertura per impedire alla neve di entrare e di spegnere la lampada, ma si trovò in presenza di un blocco di ghiaccio che resistette a tutti i suoi sforzi.

— Siamo proprio sepolti! — disse con ira.

— E dunque, cosa facciamo? Sento che l'aria diminuisce rapidamente.

— Non ci resta altro che aprire una galleria.

— Ne avremo il tempo?

— Te lo dirò più tardi. Affrettiamoci, mio povero amico, che gli istanti sono preziosi.

Saltò a terra, afferrò un solido coltellaccio, e intaccò febbrilmente la neve che ostruiva l'uscita, mentre Koninson si poneva a lavorare ai suoi fianchi armato d'una scure.

La neve, a causa del freddo eccessivo, aveva acquistato una durezza estrema, ma non poteva resistere ai colpi disperati dei balenieri, si staccava in larghi pezzi che venivano subito gettati nell'interno della capanna. Ma l'aria veniva sempre meno ed era da prevedersi che sarebbe completamente mancata prima del termine del lavoro.

Già la lampada non mandava più che una fioca luce e i polmoni dei balenieri funzionavano furiosamente senza riuscire ad empirsi. Koninson, specialmente, di quando in quando provava dei capogiri e si sentiva mancare le forze.

Avevano scavato quasi un metro di ghiaccio, quando il povero giovane che impallidiva sempre più si arrestò, lasciando cadere la scure.

— Signor tenente! — mormorò con voce semispenta. — Io... io... non ne posso più...

— Coraggio, Koninson! — balbettò Hostrup che consumava i suoi ultimi resti di forza, menando coltellate furiose contro la crosta di ghiaccio.

Il fiociniere tentò di rimettersi al lavoro, ma gli fu impossibile e si accasciò rantolando.

In quell'istante la lampada si spense e una profonda oscurità regnò nella capanna.

Il tenente emise un urlo di rabbia.

— Bisognerà... morire... qui dentro!.. — rantolò, stringendo i pugni.

Aveva perduta ormai ogni speranza e all'estremo di forze stava per cadere a fianco del fiociniere, quando un pensiero gli balenò nel cervello.

Fece appello alla sua energia, si precipitò verso un angolo della capanna, afferrò il primo fucile che trovò sotto mano, l'armò rapidamente e puntandolo in alto fece fuoco.

Alla detonazione formidabile che fece tremare le pareti staccando larghe croste di ghiaccio, Koninson si rizzò sulle ginocchia balbettando:

— Signor... Hostrup!...

Il tenente non rispose. Ritto in mezzo alla capanna, col capo in aria, gli occhi fissi sulla volta, colla bocca sbarrata, pareva che attendesse qualche cosa.

Un leggero fischio si fece udire e subito dopo i due poveri balenieri, che poco prima si credevano perduti, respirarono dapprima stentatamente e poi a pieni polmoni. Koninson gettò un formidabile «oh!» di soddisfazione, mentre il tenente, malgrado il freddo, si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte.

— Avete aperto un foro con una palla? — chiese Koninson, accendendo la lampada.

— Sì, fiociniere, e, come vedi, è stata una eccellente idea.

— E venuta proprio a tempo, signor Hostrup. Mille grazie! Ah come respiro!

— Respira più che puoi, poichè il buco potrebbe turarsi da un momento all'altro.

— Scaricheremo ancora i fucili.

— Purchè non ci crolli addosso la capanna. Credo che faremo bene ad aprirci una galleria e sbarazzarci del ghiaccio e della neve che ci seppelliscono.

— Mano alla scure, adunque, signor Hostrup. Ora mi sento forte come un gigante.

Non perdettero tempo; dopo due ore di accanito lavoro raggiungevano la superficie del campo, sul quale si erano stesi oltre tre metri di neve, che il freddo intenso aveva convertito in solidissimo ghiaccio.