Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Camera con lumi.

Brigida ed Ottavio.

Brigida. Fin che sior Lelio bala, ghe vorave parlar.

Ottavio. Sono con voi, signora.
Brigida.   Lo prego a perdonar.
Che el me diga de grazia. Come xelo sto intrigo?
Falo per mi dasseno, o per burlar l’amigo?
Credelo che sior Lelio me possa un dì sposar?
Da tuli sti reziri cossa possio sperar?
Ottavio. Ora che siamo soli, vi parlerò sul sodo.
L’amico ha poco spirito, per questo io me lo godo.
Lelio ha vari fratelli: il primo è maritato;

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Anch’ei vorrebbe moglie, ma non si trova in stato.

Rovineria se stesso, la casa e i suoi parenti;
Tutti delle sue nozze sarebbero scontenti.
E la povera donna, che fosse sua consorte
Andrebbe ad incontrare una pessima sorte.
Brigida. Donca de far ste nozze perchè tratar za un poco?
Ottavio. Con un, siccom’è Lelio, posso prendermi gioco.
Brigida. El se pol devertir con chi ghe par e piase;
Che con mi el se diverta, xe ingiusto, e me despiase.
Che confidenza gh’alo, caro patron, con mi,
De scherzar, de vegnirme a minchionar cusì?
Lo so che el me cognosse, el saverà chi son;
E per questo me credelo qualche poco de bon?
Perchè ho cantà in teatro, ho perso el mio conceto?
Nissun no m’ha per questo da perder el respeto.
El teatro, la scena xe cossa indifferente.
Fa ben chi gh’ha giudizio, fa mal chi xe imprudente.
E non ocorre dir quelo xe un logo bruto,
Che ghe xe per le mate pericolo per tuto.
Cossa fale de mal quele che in mezzo a tanti
Riceve su le scene i amici e i diletanti?
Fa mal quele che in casa le visite riceve,
E el teatro e la casa confonder no se deve.
Vedo che tante e tante le gh’ha mile favori
Da dame e cavalieri, da prencipi e signori.
Vedo che in t’una corte a un publico servizio,
Se stima anca in teatro le done de giudizio.
Ghe xe del mal per tuto; in ogni profession.
In qualunque esercizio ghe xe el cativo e el bon.
Ma no pol el cativo chi è bon pregiudicar.
E no se pol dai pochi dei molti giudicar.
Ho cantà, m’avè visto; ma me posso vantar,
Che de mi no ha podesto la zente mormorar.
E pur con tuto questo, savendo el pregiudizio
De sto nostro mistier, ho fato un sacrifizio.

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Quel pocheto che aveva, me ho contentà magnarme,

Per viver retirada col fin de maridarme.
Me xe capita uno de meza qualità,
El m’ha dà la parola e adesso el m’ha impiantà.
Sola qua me retrovo; mia madre no me piase,
Perchè sto mio pensier lo so che el ghe despiase.
Ho persa un’ocasion. Ghe ne sospiro un’altra.
Vu me burlè, credendo che sia femena scaltra.
El desiderio mio creder me fa all’ingano;
Vu burlè una meschina, e mi ricevo el dano.
Che carità xe questa? che modo de pensar,
Cole povere done vegnirse a solazzar?
Se sè un omo d’onor, pensè ala mia desgrazia;
Abieme compassion, ve lo domando in grazia.
Socoreme, gramazza; quelo che mi sospiro
Per viver onorata, xe un consorte o un ritiro.
Lassè, lassè ste burle, che al ciel no le ghe piase;
Consoleme, ve prego, metè el mio cuor in pase.
Sieme mio bon amigo, sieme mio protetor:
Questa è la degna impresa de un cavalier d’onor.
Ottavio. Voi col parlar sincero, voi mi colpiste a segno,
Che assistervi prometto col più onorato impegno.
Vi condurrò a Venezia colla mia barca istessa.
Verrete in casa mia, verrà la madre anch’essa.
Dove son alloggiato, vi son delle signore;
Sarete custodita con zelo e con onore.
Moglie ancor non ho preso, forse la prenderò;
Non prometto sposarvi, ma non vi dico un no.
Noi ci conosceremo col praticarci a prova:
Vedrò, se mi conviene, farò quel che mi giova.
Ma in qualunque maniera, altrove o nel mio tetto,
Voi sarete assistita, lo giuro e lo prometto.
Brigida. Pianzo da l’alegrezza. (piangendo)
Ottavio.   Le lacrime son vane.
Spesso solete piangere, voi altre Veneziane.

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Brigida. Noi creda che ste lagreme sia lagreme sforzae1.

In verità da seno, dal cuor le xe mandae.
Una povera puta...
Ottavio.   Basta così, ho capito.
Vedo che dalla sala il signor Lelio è uscito.
Ritirarvi potete in sala o in altro loco.
Al mio albergo in Venezia noi anderem fra poco.
E per condurvi in casa con alquanto d’onore2,
Verrete con alcuna di coteste signore.
Brigida. Mi no voggio balar. In portego no vago.
Anderò in st’altra camera, e fin ch’el vol ghe stago.
Pregherò el ciel de cuor che de mi nol se penta.
Brigida, povereta, ti sarà pur contenta. (parte)

SCENA II.

Ottavio, poi Lelio.

Ottavio. Il ciel mi ha qui condotto per fare un’opra buona;

Quando di ciò si tratta, affè non si canzona.
Ma vo’ col caro Lelio seguir la burla ancora.
Quando di qua si parte, la finiremo allora.
Lelio. La Contessa dov’è?
Ottavio.   Finora è stata meco.
Lelio. Perchè con voi, signore?
Ottavio.   Perchè Cupido è cieco.
Lelio. Non capisco.
Ottavio.   Sappiate ch’è il di lei cuor sdegnato,
Perchè con altre donne voi avete ballato.
Lelio. Davver? s’ella è gelosa, segno che mi vuol bene.
Ottavio. Ella è meco venuta ad isfogar sue pene.
In pubblico voleva darvi d’amore un segno;
Ma io l’ho sconsigliata.
Lelio.   Siete un uomo d’ingegno.

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Ottavio. Tutti non sanno mica quale sia il vero affetto.

Lelio. Certo avrebbero detto che lo fa per dispetto.
Ottavio. Piuttosto, se volete qualche nuovo attestato
Dell’amor suo, la chiamo.
Lelio.   No no, bene obbligato.
Ottavio. Siete forse pentito?
Lelio.   L’adoro più che mai.
Ma in materia di questo, mi ha favorito assai.
Ottavio. Quando poi sarà vostra, io credo in verità
Che di queste finezze ne avrete in quantità.
Lelio. Quando poi sarà mia... non so che dir, vedremo;
Credo che le finezze noi ce le cambieremo.
Ottavio. Dite, avete risolto sposar quella signora?
Lelio. Se ho risolto, mi dite? Ma se non vedo l’ora.
Ottavio. La conoscete bene?
Lelio.   So quel che avete detto.
Ottavio. Se non fosse contessa?
Lelio.   Come! vi è del sospetto?
Ottavio. Ella è una cantatrice.
Lelio.   Affè, l’ho conosciuta
Che sapeva la musica nel batter la battuta.
Ottavio. Sposerete una donna che ha esercitato il canto?
Lelio. Questo cosa m’importa? La sposo tant’e tanto.
Ottavio. Ma il decoro?
Lelio.   Il decoro... intesi a dir così,
Che suol la maraviglia svanir dopo tre dì.
Ottavio. Bravo, così mi piace. A rivederci, amico.
Lelio. Dove andate?
Ottavio.   Ove vado sinceramente io dico,
Vado dalla Contessa, idest dalla cantante.
Lelio. Che avete a far con lei?
Ottavio.   Ho delle cose tante.
Lelio. Non vorrei che pensaste levarmi ancora questa.
Ottavio. Questo tristo pensiere non vi cacciate in testa.
Vado a parlar per voi. Vado a disingannarla,

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Che voi, perchè è cantante, vogliate abbandonarla.

Anzi che voi talora avete un bel falsetto,
E che con lei potrete cantar qualche duetto.
Circa al ballo dirò, che se avete ballato,
Vi hanno quelle signore pregato e ripregato.
E al di lei cuor temendo recar qualche molestia,
Siete stato costretto ballar come una bestia.
Dirò che il caro Lelio la virtuosa apprezza;
E che venga qui subito a farvi una finezza. (parte)

SCENA III.

Lelio solo.

Maledette finezze! possibile, che poi

Non mi faccia di quelle che piacciono anche a noi?
Sento ancora meschino sul viso, a mio dispetto,
Le marche generose del suo tenero affetto.
Ma se non è contessa, tanto meglio per me.
Di queste tenerezze più non ne voglio affè.
Quando la virtuosa ad isposar sia giunto,
Se canterà il soprano, io farò il contrappunto. (parte)

SCENA IV.

Tonina e detta.

Tonina. No no, lasseme star.

Andreetta.   La senta una parola.
Tonina. Se mio mario no vien, voggio andar via mi sola.
Andreetta. Mo cossa mai xe sta?
Tonina.   L’ho visto coi mi ochi.
A quela Zuechina l’ha urtà in ti zenochi,
E nol l’ha fato in falo. Sto mato senza inzegno
Per balar co sta frasca el gh’averà dà un segno.

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Andreetta. Cara siora Tonina, non abiè zelusia,

Za savè che la festa xe deboto fenia.
Anderemo a Venezia. Quel che xe sta, xe sta.
Ma partimo d’acordo in pase e carità.

SCENA V.

Felippo e detti.

Felippo. Gran Lunardo, compare. El vol che se fenissa

Come s’ha prencipià, e che tuti stupissa.
Quando che andemo via, l’ha ordenà una tartana;
L’ha laorà in do ore per una setimana.
Che xe dele peote, gondole in quantità.
Soni, canti e baloni, e luse in quantità.
Con alegria in laguna staremo infina di.
Tonina. Ma voggio mio mario senta arente de mi.
Felippo. Cossa gh’aveu paura, che i ve ne magna un toco?
Tonina. Eh che no savè gnente, povero sior aloco.
Mi so quel che ho passà, cognosso Giacometo,
E no voggio che el vegna a far de zenochieto.

SCENA VI.

Betta, Catte, Anzoletta, Toni e detti.

Betta. Gh’ho gusto in verità.

Catte.   Anderemo anca nu.
Anzoletta. De sta sorte de spassi no ghe n’ho abuo mai più.
Toni. Arecordete, Cate, che te vol star darente.
No te vôi sbandonar in mezzo a tanta zente.
S’avemo da sposar; poco ne mancherà;
E avanti de sposarte no voria novità.
Tonina. Fè ben, cusì me piase.

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Anzoletta.   Via, sareu più zelosa?

Tonina. Eh, ghe xe tempo ancora avanti che el la sposa.
No ghe xe delle gondole? Se s’ha da star fin dì,
Voggio star da mia posta, e mio mario con mi.
Andreetta. Gh’avere tempo a casa.
Felippo.   Sè una gran secatura.
Una muggier zelosa? piutosto in sepoltura.

SCENA VII.

Ottavio, Brigida, Giacometto e detti.

Ottavio. Tutto è già preparato.

Giacometto.   Deboto andemo via.
Tonina. (Velo qua, cole done sempre el xe in compagnia).
Vegnì qua, Giacometo.
Giacometto.   Coss’è? cossa xe sta?
Tonina. Fina che andemo via, no ve partì de qua.
Giacometto. Ligheme ale carpete3.
Toni.   Eh, so chi sè, fradelo.
Giacometto. Cossa songio, patrona?
Tonina.   Sè pezo de un putelo.

SCENA ULTIMA.

Lelio e detti.

Lelio. Siete qui? da per tutto vi cerco, e non vi trovo.

(a Brigida)
Brigida. Da mi cossa voressi?
Lelio.   Vi è qualcosa di nuovo?
Ottavio. Certo, amico carissimo, vi è qualche novità.
Ella ha per maritarsi le sue difficoltà.
Più di cento ragioni mi ha detto in confidenza.
Per cui di maritarsi ha qualche renitenza.
Lelio. Quali son questi obbietti?

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Ottavio.   Eccoli in due parole.

Principiamo da questo: dice che non vi vuole.
Lelio. Bastami questa sola. Più non v’incomodate.
S’ella ciò mi conferma, vi riverisco, andate.
Brigida. Sior sì, ghe lo confermo; no per poco respeto,
Ma perchè in tel mio stato un’altra sorte aspeto.
In te le mie desgrazie el ciel me agiuterà,
Perchè in te l’assistenza del cielo ho confidà.
Ma no parlemo più de ste malinconie;
Andemo che le barche xe a l’ordene fenie.
Andemo che i ne aspeta, e tuti xe curiosi
De veder in sta sera el fin dei Morbinosi.
Certo che nol sarà quelo che molti aspeta;
Come se poderà, se farà qualcosseta.
Ha dito sior Lunardo che averzì quel porton;
E a tuti sti signori ghe femo un repeton4.

Si apre il tendone e si vede una tartana illuminata, con peote illuminate, e varie gondole, dove tutti vanno a montare, chi in un luogo, chi nell'altro. Si sentono suoni, sinfonie e canti, e con questo termina la Commedia.


Fine della Commedia.

  1. Così l’ed. Pilteri. Stampano Zatta e altri: Nol creda che le sia ste lagrime sforzae.
  2. Nell’ed. Pitteri si legge: con alquanto onore.
  3. Alle gonnelle: v. pag. 370, n. 3.
  4. Profondo inchino. Detto per ischerzo. Vol. XIII, 326 ecc.