I malcontenti/Nota storica

Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA.

Scriveva il Goldoni in data 5 aprile 1755 all’Arconati-Visconti: «....ho già fatta la prima commedia per l’anno venturo, intitolata: I Malcontenti, in prosa però, non in versi, poichè dell’incantesimo dei versi il popolo si va annoiando, e la prosa è quella che nelle commedie di costume nostro dee prevalere» (Fogli sparsi di C. G., Milano, 1885, p. 34).

La presente commedia «si può asserire... essere quasi un prologo alle commedie che hanno per argomento la villeggiatura» (Targioni-Tozzetti, Prefazione alle Commedie sulla villeggiatura. Ediz. Rasi. Firenze, 1909, pp. LXXII, LXXIII). Il desiderio della campagna, più forte che mai in gente chiusa dalle acque ne’ suoi palazzi di pietra, degenera a mezzo il settecento in smania insana; nè al verde si cerca refrigerio d’aure e d'acque, ma vi si profondono patrimoni in vane gare di lusso e nel giuoco. Non per la prima volta (Il Prodigo), ma qui con maggior efficacia il Goldoni sferza questa inclinazione de’ suoi concittadini allo sperpero. Il concetto, a cui il lavoro s’informa, è chiaramente esposto in questi suoi versi in lode dei Vendramin:

          «Tutti all’onor della Fameggia intenti,
               Nemici della zente indegna e trista.
               Schivando le pazzie dei Malcontenti.
          In sta tal mia comedia ho messo in vista
               L’ambizion de chi fa quel che no pol,
               E el disonor che per tal via se acquista.
          Ho fatto veder chiaro come el sol,
               Della zente superba el precepizio
               E so de certo che a qualcun ghe diol».
          (Componimenti diversi, Venezia, 1764, vol. II, p. 156).

A chi? La critica era assolutamente impersonale e l’autore non doveva temere i fulmini della censura. «Facile qui discendeva — osserva l’Ortolani — e senza richiami la moralità della commedia» (Della vita e dell’arte di C. G., Venezia, 1907, p. 87). Eppure la prudenza goldoniana, forse anche per la caricatura del Chiari nel personaggio di Grisologo, fissa la scena a Milano. Nega bensì l’autore, nella premessa stampata l’anno 1758 nel volume quarto del Pitteri, ogni intento polemico, ma se ne trova conferma amplissima invece ne suoi carteggi privati. «Presentai questa commedia all’Agazzi [Segretario del Magistrato contro la Bestemmia] — scrive il Goldoni al Vendramin — a cui le critiche al Chiari hanno fatto spavento. Mi chiamò, mi pose in veduta delle cose molte, e fra le altre questa: che il Chiari avrebbe voluto poi vendicarsi, e Dio sa con quali bestialità, e i revisori per aver lasciato passar la mia, sarebbero stati vincolati a passar la sua, e che se io non mi persuadevo di ciò, e [p. 316 modifica]d’altro che mi disse, avrebbe dovuto rassegnar la commedia al Magistrato con i suoi dubbi. Può immaginarsi V. E. che impressione nell’animo mio possa aver fatto un simile ragionamento dopo tante impertinenze sofferte; tutta volta ho voluto lasciarmi reggere dalla ragione e soffocar l’amor proprio». Questo per non perdere la commedia affatto e per offrire un esempio di docilità. «So — continua la lettera — che nel Plauto dell’abate Chiari sono preso per mano. L’ho detto all’Agazzi; ed ei promette che non sarà così. Lo vedremo, e certo certo, se sarà altrimenti, andrò io in persona a querelarmi dell’ingiustizia a tutti i Tribunali che ponno essere competenti. Non dicano ch’io sia l’uomo perfido, ma nemmeno il vile. Ho piacere ora d’aver fatto così. La commedia non si perderà per questo. Cambierò quell’episodio che feriva il Chiari in un altro ridicolo che non sarà fuor di proposito; e basta che la commedia si faccia dentro l’autunno, perchè sia l’argomento suo alla stagione adattato» (Carteggio Mantovani, pp. 72-74). Il Plauto, composto nel maggio del 1755 e recitato nell’agosto con scarsa fortuna a Milano, non serba nella stampa allusione alcuna al Goldoni. I Malcontenti, recitati a Verona in quell’istessa estate e «andati malissimo» (Mantovani, op. cit., p. 69) dovevano inaugurare la nuova stagione al S. Luca o recitarsi subito dopo la Buona famiglia (ibid., pp. 72, 74). Se non si fece, ciò non fu per le ragioni dette nella Premessa, ma per il veto posto dalla censura, alla quale non parvero forse sufficenti le modificazioni fatte o proposte dall’autore, come si sa da una lettera del Vendramin al Goldoni: «Fu impedita in altro tempo la recita de’ Malcontenti, ma non per la commedia, ma solo per le circostanze de’ tempi, e per la divisione del popolo in due fazioni a Lei ben note» (ibid., p. 78, 79; lett. del 30 dic. 1758).

Nella commedia la satira della maniera chiaresca resta evidente. «Goldoni aveva facilmente sorpreso — osserva argutamente l’Ortolani — il segreto di quella potenza poetica» (op. cit., p. 82). Al modo, onde la potenza poetica dell’abate bresciano è posta in dileggio, dan lode il Sommi- Picenardi («finissima satira» Un rivale del Goldoni, Milano, 1902, p. 55), il Caprin («caricatura lepidissima» C. G., la sua vita, le sue opere, Milano, Treves, 1907, p. 151), l’Oliva («amabile caricatura» C. G., Giornale d’Italia, 24 febb. 1907), U. Ferrari-Bravo e A. Marconi («satira... forte» C. G. educatore, Firenze, 1907, p. 70), la Marchini-Capasso che in Grisologo scorge il prototipo dei poeti teatrali combattuti dalla riforma goldoniana (G. e la commedia dell’arte, Bergamo, 1907, p. 190). Sottolinea il Brognoligo le «argutississime parole» messe in bocca al novissimo poeta: «Unisco il tragico e il comico insieme, e quando scrivo in versi mi abbandono interamente al furore poetico, senza ascoltar la natura che con soverchi scrupoli viene da altri ubbidita», parole con le quali Goldoni ferisce per celia se stesso (Nel teatro di C. G., Napoli, 1907, p. 44). Alla satira letteraria aggiunge interesse il nome di Shakespeare, del quale si vale il Goldoni per far apparire più insulsa l’opera del misero poetucolo. Sorge spontanea la domanda se e quanto n’abbia conosciuto il Teatro, e per avventura quale influsso possa aver esercitato sul suo l’opera di quel «gran poeta e tragico politico» (Filosofo inglese, a. IV, se. IV). Ne lesse forse la prima volta il nome nella biblioteca del professor Lauzio di Pavia, dove, secondo il fantasioso ottuagenario poeta, il giovinetto sedicenne sul punto d’entrare nel Collegio Ghislieri impiegava tanto nobilmente l’attesa dei documenti necessari? [p. 317 modifica]Tra le collezioni drammatiche vi aveva scoperto anche un Teatro inglese... Se mai, lo Shakespeare non vi poteva essere che nella lingua originale. Poichè il Goldoni non seppe l’inglese nè allora nè poi, non ne avrà conosciuto le opere prima del 1745, anno in cui uscì la traduzione del Laplace. Questo, ammesso che già allora conoscesse tanto di francese da poterla intendere. I due soli spunti shakespeariani finora avvertiti nel suo teatro: nel Teatro comico gli ammonimenti d’Ottavio ai comici (a. III, sc. III) che ricordano un noto passo dell’ Amleto (a. III, se. II) (Lüder, C. G. in seinem Verhaltniss zu Molière, Berlin, 1883, p. 14, 15; Brosch, C. G., Beilage zur Allg. Zeitung, Monaco, 23 febbr. 1907), e delle Morbinose l’idea prima che fa pensare alle Allegre comari (Cuman, La riforma del teatro comico italiano e C. G., Ateneo Veneto, marzo-aprile 1900, p. 202) non recano in se sì stretti rapporti d’affinità che si possa discorrer di fonti (cfr., per le Morbinose, M. Ortiz, La cultura del G., Giorn. stor. d. lett. ital., 1906, vol. XLVIII, p. 35). Nè la commedia nè la lettera di dedica ci dicono il pensiero del Goldoni sul poeta inglese. Bene avverte il Brognoligo che nella satira dei Malcontenti è quasi solo questione di stile: «....se si accenna qua e là a qualche cosa che vada oltre a ciò, subito vi si ritorna, e con maggiore insistenza» (studio cit., p. 49). Nè il giudizio contenuto nella dedicatoria ha nulla di personale. «Mi paiono — scrive il Graf — parole prese in prestito, e l’allusione a miseri imitatori è vaga assai, come tutto il resto» L’Anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII. Torino, 1911, p. 317). Non ha torto lo Scherillo quando in un’uscita di Geronimo [«costui [Grisologo] ha letto il teatro inglese e s’è innamorato dello stile di Sachespir; chi sa se avrà preso il buono o il cattivo di quest’autore!»] fiuta «l’influenza della pedantesca e capziosa critica del Voltaire» (Ammiratori ed imitatori dello Shakespeare prima del Manzoni. Nuova Antologia, 16 nov. 1892, p. 231 ). Nè in verità le opere dell’inglese gli potevano garbare gran fatto poichè «il tipo di commedia da lui vagheggiato era il classico, il classico ravvivato dalla mente sovrana del Machiavelli» (Brognoligo, studio cit., p. 43).

Dopo l’insuccesso di Verona ritroviamo traccia dei Malcontenti nel 1759 a Modena, dove nel carnovale l’eseguiscono i convittori del Collegio Ducale (Gandini, Cronistoria ecc., Modena, 1873, voi. II, p. 251); di nuovo a Modena dieci anni dopo e nel 1768 a Reggio (Modena a C. G., 1907, pp. 240, 348). Trascorsi più decenni, pei quali le infruttuose nostre ricerche non significano certo oblio totale della commedia, questa riappare nel 1828 a Torino, interprete la Reale Sarda (Costetti, op. cit.; pp. 69-71), ma pubblico e critica la condannarono unanimi. Notevole per più riguardi quanto si legge in argomento nella rivista I Teatri di Milano (6 marzo 1829, p. 790). L’articolista riportando il giudizio della Gazzetta Torinese mostra velleità di allargare il biasimo a tutta l’opera del Goldoni. Troppo freddo l’argomento per «destare un vivo interesse». «Spiacque a taluni altresì il veder condannare, col mezzo del ridicolo, un genere di teatrali rappresentazioni non ancor ammesso nè proscritto dai dotti: urtò finalmente col buon senno dell’universale il veder Ridolfo e il nipote Grisologo introdursi nello scrittoio dello zio Geronimo per forzarne lo scrigno, e torne quanto danaro bastasse per ispendere e spandere in villa: segni manifesti di disapprovazione dati di così iniqua azione dal Pubblico mostrano apertamente ch’esso sente con noi che la commedia [p. 318 modifica]è fatta per correggere i vizii ed i difetti degli uomini, non per presentare l’ingrato e talora periglioso spettacolo delle colpe». Insomma «malcontenti i personaggi, malcontenti gli attori, malcontenta l’udienza». Di contenti, anzi contentissimi, c’era stato solo l’attore Borghi che nella sua beneficiata aveva visto pieni zeppi palchi e platea. Allude a una recita dei Malcontenti a Firenze il Tommaseo in lettera del 1833 al Capponi: «Me ne andrò a sentire i Malcontenti, commedia il cui titolo è un delitto di lesa altezza» (M. Tabarrini, Gino Capponi ecc., Firenze, 1879, p. 218). Celiava beninteso il caustico dalmata, ma il titolo in verità sembra al Brognoligo promettere nella sua indeterminatezza più che non mantenga, anzi non rispondere bene neanche al contenuto del lavoro, per non esservi di malcontenti, a creder suo, che un solo personaggio: Felicita (studio cit., p. 39). A noi sembra invece che, chi per un verso chi per l’altro, tutti i personaggi giustifichino il titolo della commedia. Notiamo di passata che questo titolo così discusso e occasione a facili arguzie, non era nuovo sulle scene. Il teatro francese contava già Les mécontents di Thierry (1727) e un’omonima commedia di La Bruere (1734) tutte e due a noi inaccessibili (cfr. Dictionnaire portatif des théatres, Paris, 1754, pp. 216, 217, 461).

Per la fortuna del lavoro va ricordata un’anonima traduzione francese attribuita a Carlo Sablier [Théàtre d’un inconnu. Paris, 1765, pp. 193-201], della quale il Goldoni dice più male che non meriti, mentre coglie occasione a elogiare la pur anonima dedicataria, Giovanna Francesca de Floncel, traduttrice dell’Avvocato veneziano (Mémoires, ediz. Mazzoni, vol. I, p. 455, vol. II, p. 194, 438). Là dove si allude a questa traduzione il Goldoni, per errore di memoria, dice d’aver già parlato della commedia, mentre quello alla traduzione e l’unico accenno nell’autobiografia. Ed è pur tra le dimenticate nel Catalogue des pièces ecc. in appendice ai Mémoires. Il Montucci accolse i Malcontenti nella sua Scelta completa di tutte le migliori commedie di C. G. (Lipsia, 1828, vol. IV, pp. 333-443) e scoperto che il Goldoni, per una piccola distrazione, aveva fatto di Cricca un nuovo servitore di due padroni (cfr. a. I, sc. 9; a. III, sc. 11), assegnò di propria borsa il servitore Fabio a Geronimo. Nel 1844 la commedia fu accolta pure nell’Ape comica italiana, edita a Monaco da S. Franz, e nel 1859 se ne fece una ristampa o nuova tiratura che sia.

Priva d’azione e di scarso interesse, la commedia resta pure storicamente notevole per la punta polemica, mentre per ragioni d’arte la rendono pregevole alcuni felici elementi che lasciano intravvedere, lontano ancora, capolavori nascituri; e non le Villeggiature soltanto, ma pur le commedie dove appare la lotta tra giovani e vecchi che sono tra le più significative e più perfette del teatro goldoniano (cfr. Brognoligo, op. cit., pp. 85, 40). I Malcontenti, s’è visto, è detta dall’autore commedia di costume nostro. Segno che componendola un quadretto di vita prettamente veneziana gli riviveva dinanzi. L’avesse stesa in dialetto, avremmo un gioiello di più.

Anche così questi Malcontenti sono tra «le migliori» dell’autore secondo Charles Simond che certo non si tolse il disturbo di leggerla, ma tale la giudicò per essere una delle poche goldoniane tradotte in francese (Prefazione al Bourru bienfaisant. Paris, Gautier, 1889, p. 66). Invece assai prima di questo critico [p. 319 modifica]improvvisato, un suo connazionale, Elia Fréron, sempre benevolo al Goldoni perchè mosso anche da ragioni tutte sue, aveva questa volta misurato la lode. Povera gli pareva l’azione nei Malcontenti e ignobili i caratteri. «Il est vrai qu’au milieu de ces trivialités, on trouve des étincelles de génie. D’ailleurs, Goldoni a le rare mérite d’être naturel et varié; il imagine, il crée; s’il sacrifioit moins au goùt du peuple, il pourroit faire beaucoup plus de progrès dans son art» (Année littéraire, 1761, voi. II, p. 211). Accettiamo deferenti il biasimo e la lode. Ma che dire della lezioncina finale (con la benevola previsione di possibili progressi) a un autore che contava cinquantaquattro anni d’età e nel suo patrimonio letterario una dozzina di mirabili capolavori da onorarsene la più esigente delle nazioni!?... Fra le scintille del genio il Fréron comprendeva forse il primo delizioso duetto, tutto colpi di spillo, fra Felicita e Leonide, non indegno di star accanto alla celebre scena delle Smanie fra Vittoria e Giacinta (atto III, se. 12: cfr. Targioni-Tozzetti, op. cit., p. LXXVI), e pensava forse ancora alla scena della lettura della commedia, tanto viva e vera nelle varie figure che vi agiscono. Fra le quali ferma l’attenzione di più d’un critico quella di Policarpio, introdotta con mossa magistrale (a. I, sc. VI). «Prendete — scrive il Giovagnoli — la quasi obliata, eppur così viva e così bella commedia I Malcontenti, ed esaminate il carattere del pacifico, sciocco e neghittoso Don Policarpio; egli è vero, egli è umano. Eccolo, sempre a zonzo per la casa, detestatore delle brighe e dei pensieri, amante della quiete, dei comodi, degli agi, rispettoso, quasi timoroso, di suo fratello, che è quegli che amministra e governa gl’interessi della famiglia. Lasciatelo andare posatamente a passeggio, con un cartoccio di datteri in saccoccia, lasciatelo pranzare tranquillamente alla sua ora consueta; non gli interrompete il beato dormiveglia della digestione con reclami angustianti, con osservazioni fastidiose, neppure con l’ombra della più lieve cura domestica;... ditegli di venire in villeggiatura, al teatro, ad una allegra casetta... egli ci verrà; ci verrà pro bono pacis, anche a danno delle sue abitudini... purchè tutto ciò non abbia da costargli il menomo pensiero, la più piccola preoccupazione... perchè egli è un egoista, un poltrone, la cui sola e vera felicità consiste nel potersi raggomitolare fra le molli piume della sua pacifica vegetazione. E quanto palpito di nervi, quanta vigoria di vita in questa fibra inerte e sonnacchiosa!» (Meditazioni di un brontolone. Roma, 1887, pp. 212, 213). Piace la figura di Policarpio all’Ortolani (op. cit., p. 88); piace al Dejob massime l’idea prima, che gli sembra anche originale, ma solo perchè non ricorda l’Ottavio del Tutore, «uomo dato alla poltroneria» (Dejob, Les femmes dans la comèdie ecc., Paris, 1899, p. 266). Per i richiami alla letteratura d’oltre Manica il G. dedicò questa sua commedia dei Malcontenti a John Murray, Residente a Venezia dal dic. 1753, come al cognato suo. Gius. Smith, console, aveva intitolato il suo pesantissimo e infelicissimo Filosofo. L’appartenenza alla massoneria, per il Goldoni verosimile ma non certa, avrà cementato più solidamente l’amicizia tra il poeta e i due inglesi (cfr. vol. IX, p. 369 di quest’edizione). Secondo il Casanova, che col Murray si vanta di essere stato intimo, questi, bell’uomo, pieno di spirito, dotto, sarebbe stato amantissimo del bel sesso e compagno di dissolutezze al famoso avventuriere. (Mémoires, Bruxelles, 1881, vol. II, p. 493, vol. III, 15). Anche il modo, onde se ne parla nelle lettere di Lady Montagu (non corsero però tra i due buoni [p. 320 modifica]rapporti!) confermerebbe il ritratto poco lusinghiero che n’esce dalle pagine del Casanova. Lo Zanetti invece negli Annali (1766) scrive di lui: «Fu ministro cortese, probo, liberale, amatore delle buone arti, e particolarmente della pittura, e generalmente ben voluto». Intenditore di quadri, il Murray ne faceva incetta e si gloriava di possedere «sette Tiziani» (Meschini, Della Letteratura veneziana del sec. XVIII. Venezia, 1806, vol. III, p. 51). Più tardi, dal 1766 al 1778, fu ambasciatore a Costantinopoli e morì in quell’anno a Venezia. (Per il Murray cfr. pure Giacomo Casanova e l’abate Chiari [Archivio Veneto, XXI, p. I], di Aldo Ravà, a cui ci professiamo grati anche d’altre gentili comunicazioni in argomento).

Vero, altissimo pregio della lettera di dedica è nella coraggiosa critica fatta alle unità, contro le quali era già mosso in guerra otto anni prima (Commedie, Venezia, Bettinelli, 1750, vol. I, p. 14) precorrendo così la lettera del Metastasio al Calzabigi che è del 1754. Deride ivi il Goldoni gli «adoratori d’ogni antichità» e briosamente li paragona a medici che non volessero usare la china «per questa sola ragione che Ippocrate o Galeno non l’hanno adoperata». L’arguto esame della famosa questione, compiuto dal Goldoni in questa dedicatoria, avrebbe potuto servire allo stesso Baretti nella polemica col Voltaire, se la sua visione dell’opera goldoniana fosse stata anche un solo momento oggettiva. Anche della commedia stessa (atto 2°, sc. VII e XII) - avverte giustamente il Concari (Il settecento. Milano, 1899, p. 132) - avrebbe dovuto tener conto l’autore della Frusta. Ottime pagine sull’importanza di questa lettera al Murray scrisse Achille Neri (Aneddoti goldoniani, Ancona, 1883, pp. 11-20). Tutto il passo sulle unità è riferito nello studio dello Scherillo, già citato, con questa giusta lode: «Io non so di altri che, prima della lettera del Manzoni allo Chauvet (per non dir pure delle saporite stanze di Carlo Porta), parlasse in Italia su questo argomento con uguale precisione, giustezza, buonsenso e coraggio». Ma perchè lo Scherillo aggiunge: «fu un vero peccato che quest’ultimo gli venisse poi meno, così da non fargli pubblicar più nelle edizioni posteriori dei Malcontenti la lettera al Murray»? (studio cit., pp. 231, 232). Di edizioni con premesse e dediche, volute e curate dall’autore, dopo quella del Pitteri non vi ha che la Pasquali. In essa, quando rimase interrotta al diciassettesimo tomo, delle quaranta commedie edite dal Pitteri non erano passate che sole tredici. Più fondato poteva esser l’appunto dello Scherillo se avesse accennato invece a quanto sulle unità scrivono le Memorie (P. II, cap. III). Li non è più parola di ingiuriosi legami, né di ragioni ridicole. Il Goldoni si mostra assai più misurato nell’affermare e nel ribattere: riserbo impostogli dal paese e dall’ambiente letterario in cui viveva.

E. M.



I Malcontenti uscirono per la prima volta a stampa nel t. IV dell’ed. Pitteri di Venezia, l’anno 1758; e furono nuovamente impressi a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino, 1758), a Torino (Guibert e Orgeas VII. ’75), a Venezia (Savioli III, ’72; Zatta, cl. Ia, VII, ’89; Garbo VII. ’95), a Livorno (Masi XX. ’91), a Lucca (Bonsignori XVI. ’89) e forse altrove nel Settecento. Non si trovano nell’ed. Pasquali. - La presente ristampa seguì principalmente il testo dell’ed. Pitteri, corretto dall’autore. Valgono le avvertenze solite.