I due Gentiluomini di Verona/Atto primo

Atto primo

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William Shakespeare - I due Gentiluomini di Verona (1590-1596)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo
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I DUE GENTILUOMINI

DI VERONA



ATTO PRIMO


SCENA I

Una piazza in Verona.

Entrano Valentino e Proteo

Val. Cessa da’ tuoi discorsi, mio amato Proteo; la gioventù che non esce dal suo paese, non ha mai che uno spirito ristretto. Se l’amore non incatenasse i tuoi giovani anni ad una donna assai degna di essere amata, ti esorterei ad accompagnarmi per vedere le meraviglie di un mondo sconosciuto, piuttosto che startene qui in una stupida indolenza, logorando la gioventù nella inerzia che sfibra d’ogni vigore: ma poichè tu ami, abbandonati alle tue inclinazioni, e cerca di essere così felice, come vorrò esserlo io stesso, allorchè comincierò sentire le passioni tenere.

Prot. Tu vuoi dunque lasciarmi? Addio, mio caro Valentino; pensa al tuo Proteo. Se per avventura vedi ne’ tuoi viaggi qualche oggetto degno di ammirazione, desidera d’avermi teco per dividere la tua felicità: se poi i pericoli ti minacciano raccomandati alle sante preghiere dell’amicizia, ed io sarò tuo intercessore.

Val. Amare per non raccogliere altro frutto de’ propri gemiti che disprezzo, un freddo e sdegnoso sguardo per le angoscie di un cuor straziato; comprare un momento di gioia colle noie, le pene e l’insonnia di venti notti; se anche trionfate, avere una vittoria che costa lunghi pentimenti: se a nulla riuscite. [p. 146 modifica]essersi procacciato che pene crudeli; l’amore che termina sempre con una follia comprata con tutte le pene dello spirito; o lo spirito che va perduto, vinto ed oppresso dalle insensataggini dell’amore... no, tutto ciò non mi piace.

Prot. Così udendoti io non sono che un pazzo.

Val. Temo bene ascoltandoti che se nol sei lo divenga.

Prot. Dell’amore tu sparli, ed io non sono l’amore.

Val. L’amore ti è signore; e quegli che si lascia soggiogare da uno stolto non dovrebbe i’ dico esser collocato fra i savi.

Prot. Gli scrittori nondimeno affermano che l’amore abita nelle più belle anime come il verme divoratore nel bottone della più bella rosa.

Val. Ma gli scrittori dicono eziandio che quel bottone che più promette è spesso fracido internamente prima di espandersi, e che del pari l’amore conduce alla follia gli spiriti giovani; che essi appassiscono, perdono la loro freschezza di primavera, e il frutto d’ogni più dolce speranza. Ma a che gittare qui il tempo dandoti consigli, quando già tu sei tutto divoto all’amore? Anche una volta, addio. Mio padre mi aspetta nel porto per vedermi salire sopra il vascello.

Prot. Io ti vuo’ condurre da lui, Valentino.

Val. No, amico Proteo, è meglio che ci lasciamo qui. Allorchè sarò a Milano, scrivimi intorno a’ tuoi successi amorosi e di tutto quello che ti accadrà durante l’assenza del tuo amico; io pure colle mie lettere verrò spesso a conversare con te.

Prot. Possa tu trovare a Milano ogni felicità.

Val. Così incontri a te pure qui. Addio.

(esce)

Prot. Egli seguita l’onore, ed io l’amore; egli abbandona i suoi amici per onorarli di più, ed io abbandono tutti i miei amici e me stesso per l’amore. Quale strano cambiamento tu hai in me operato, Giulia! Tu mi fai trasandare i doveri, sperdere il tempo, combattere i più savi consigli, contar tutto per nulla, logorare il mio spirito fra sogni chimerici, e macerarmi il cuore fra le più crudeli inquietudini.

(entra Speed)

Sp. Messer Proteo, Iddio vi salvi; vedeste il mio signore?

Prot. Ei partì di qui dianzi, e andò ad imbarcarsi per Milano.

Sp. Venti contr’uno ch’è di già imbarcato; ed io son stato una capra perdendolo.

Prot. La capra infatti devia spesso se il pastore se ne allontana solo per un istante.

Sp. Così volete conchiudere che il mio padrone è un pastore, ed io una capra. [p. 147 modifica]

Prot. Appunto.

Sp. Allora danque le mie corna sono le sue corna, sia io svegliato o dormiente.

Prot. Sciocca risposta, e ben degna di una capra.

Sp. Capra dunque rimango?

Prot. Sì; e il tuo padrone pastore.

Sp. Potrei impugnarlo valendomi di una circostanza.

Prot. Sarebbe difficile, ma io tel proverei con un’altra.

Sp. Il pastore cerca la capra, e non la capra il pastore; io cerco il mio padrone, e il mio padrone non cerca me; dunque non sono una capra.

Prot. La capra per l’alimento segue il pastore, il pastore per l’alimento non segue la capra; tu per danaro segui il tuo padrone, il tuo padrone per danaro non segue te: dunque una capra sei.

Sp. Codeste le non son prove.

Prot. Fine alle ciancie: hai dato la mia lettera a Giulia?

Sp. Si, signore: io monton perduto diedi la vostra lettera a lei monton trovato; ed ella monton trovato non diede a me monton perduto nulla per la mia fatica.

Prot. Qui vi è troppo piccolo pascolo per così grande armento.

Sp. Se il terreno è troppo ingombro, farete bene non occupando entrambi che un posto.

Prot. No, sarebbe meglio sospender te per aria, e lasciar libero il campo.

Sp. Chi porterebbe allora le vostre lettere, messere?

Prot. Di tali messaggieri è dovizia in ogni parte.

Sp. Lo credete: l’onor mio vuole ch’io ne dubiti.

Prot. Ma alle corte: che ti disse?

Sp. Aprite la vostra borsa onde i segreti e il danaro scorrano nel medesimo istante.

Prot. Eccoti per le tue fatiche: or che diss’ella?

Sp. In verità, signore, credo che difficilmente la vincerete.

Prot. Perchè? Che cosa vedesti?

Sp. Non vidi nulla: neppure un soldo per averle recato la vostra lettera, ed essendosi mostrata così dura verso di me che le aprivo la vostra mente, temo che nol sia del pari con voi per averle una tal mente aperta. Non le fate doni che di selci, perocchè ella è dura come l’acciaio.

Prot. E nulla disse?

Sp. No, neppure: prendi questo pel tuo disagio. Per mostrarmi la vostra generosità, e ve ne ringrazio, voi mi avete dato una moneta da sei soldi: perciò per l’avvenire potrete portare le [p. 148 modifica]vostre lettere voi stesso: e così, signore, io mi raccomanderò al mio padrone.

Prot. Va, parti per salvare il tuo vascello dal naufrago che non può perire capendoti: sendo tu designato per una morte più secca in terra. Mi sarà forza mandare qualche miglior messaggiere perchè temerei che la mia Giulia non isdegnasse le mie lettere, ricevendole da così indegno mariuolo.

(escono)


SCENA II.

Il Giardino di Giulia

Entrano Giulia e Lucietta.

Giul. Dimmi, Lucietta, ora che siamo sole, mi consigli ad amare?

Luc. Sì, madonna; purchè vi apponiate a retta scelta.

Giul. Di tutti i vaghi gentiluomini che mi corteggiano, quale stimi tu il più degno d’amore?

Luc. Vogliate ripetermene i nomi, ed io vi aprirò la mia mente, leggera com’ella è.

Giul. Che dici tu del vago Eglamour?

Luc. È un aggraziato cavaliere, nobile, elegante e che ben favella; ma s’io fossi voi nol vorrei.

Giul. Che pensi del ricco Mercanzio?

Luc. Bene delle sue ricchezze; di lui non tanto.

Giul. Quale ti sembra il gentil Proteo?

Luc. Dio! Dio! come la follìa s’impossessa talvolta di noi!

Giul. Che vuoi tu dire? Perchè siffatta commozione al di lui nome?

Luc. Perdonatemi, cara signora; ma è vergognoso che io, così piccola come sono, giudichi con tanta arditezza così amabili signori.

Giul. Perchè non parli di Proteo come parlasti degli altri?

Luc. Perchè lo credo il migliore.

Giul. E la tua ragione?

Luc. Non ho che quella di una donna: credo così perchè credo così.

Giul. Mi consiglieresti dunque ad amarlo?

Luc. Sì, e non potreste por meglio il vostro amore.

Giul. Ma egli è il solo fra tutti che non abbia mai fatto alcuna impressione su di me.

Luc. Pure è fra tutti, io credo, quello che più vi ama. [p. 149 modifica]

Giul. Le sue poche parole mostrano che il suo amore è ben piccolo.

Luc. Il fuoco più compresso è quello che brucia di più.

Giul. Non amano coloro che non fanno apparire il loro amore.

Luc. Ma anche meno aman quelli che un tal amore fanno apparire agli occhi di tutti.

Giul. Vorrei conoscere i suoi sentimenti.

Luc. Leggete questo foglio, signora.

Giul. A Giulia. Da chi viene?

Luc. Il contenuto ve lo chiarirà.

Giul. Di’, di’; chi te lo diede?

Luc. Il paggio di ser Valentino, mandato, io credo, da Proteo: voleva darlo a voi stessa, ma avendolo io incontrato, lo ricevei in vostro nome; vogliate perdonarmelo.

Giul. In verità per la mia modestia, siete un’eccellente negoziatrice! Come ardite voi ricevere lettere amorose, fermare segrete intelligenze e cospirare contro la mia gioventù? Credetemi, scegliete un bell’uffizio che a meraviglia vi si addice! Su via, ripigliate questa lettera; pensate a restituirla, o non venite mai più dinanzi a me.

Luc. Quando si serve l’amore si merita una ricompensa migliore che non è l’odio.

Giul. Volete uscire?

Luc. A fine che possiate meglio pensarvi. (esce)

Giul. E nondimeno vorrei aver letto quel foglio. Sarebbe ora vergognoso per me il richiamarla e il pregarla di commettere un fallo di cui l’ho garrita. Ma come è insensata! Sa che sono fanciulla, e non mi sollecita, non mi sforza a leggere quella lettera! Perocchè le fanciulle per pudore dicono no a ciò che più volentieri accetterebbero: oh Dio, qual vergogna! Quanto l’amore è fantastico e bizzarro! Ei somiglia ad un fanciullino capriccioso che bistratta la sua nutrice, e un istante dopo bacia la mano che l’ha punito. Con qual crudeltà ho cacciata Lucietta allorchè avrei desiderato che rimanesse qui! Con qual barbarie mi sono studiata di mostrarle una fronte torva, quando una gioia interna costringeva il mio cuore a sorridere! Ebbene il mio castigo sarà di richiamarla, e di chiederle perdono della mia follia. — Olà! Lucietta! (rientra Lucietta)

Luc. Che desidera Vossignoria?

Giul. È vicina l’ora del pranzo?

Luc. Vorrei fosse, onde poteste sfogare la vostra collera su le vivande, e non su la vostra fante. [p. 150 modifica]

Giul. Che cosa è che raccogliete così dolcemente?

Luc. Nulla.

Giul. Perchè vi siete dunque chinata?

Luc. Per prendere un foglio che mi era caduto.

Giul. E un foglio lo chiamate nulla?

Luc. Nulla che mi risguardi,

Giul. Lasciate dunque che lo raccolgano coloro a cui spetta.

Luc. Signora, temo che non restasse sempre per terra.

Giul. Sarà qualche vostro amante che vi avrà scritto per le rime.

Luc. Così potrò cantare i suoi versi, signora, se mi insegnate un motivo, voi che ne sapete tanti.

Giul. Credo che potreste cantar sull’aria: luce di amore.

Luc. È troppo grave per così amabile tema.

Giul. Grave? Avrete gran soggetto dunque di stare allegra?

Luc. Sì, signora; e voi pure l’avreste, imparando questa canzone.

Giul. Perchè non me la dite?

Luc. È troppo alta per le mie corde.

Giul. Vediamo questi versi. — Ebbene, fraschetta?

Luc. Mantenete questo tuono, e canterete a meraviglia, sebbene parmi che tal tuono non mi piaccia.

Giul. Non piace a voi?

Luc. No, signora, è troppo stridulo.

Giul. Voi, donzelletta, siete troppo sfacciata.

Luc. Così adoperando sbandirete ogni armonia: se la voce del tenore non ci soccorre, il nostro concerto è fallato.

Giul. Tal voce non varrebbe a rendervi tollerabile.

Luc. Eppure giuocherei di sì, se il tenore fosse Proteo.

Giul. Questa cianciatrice non m’infesterà più e suggellerò con quest’atto la mia protesta. (straccia la lettera) Escite e lasciate lì quei brandelli di carta che col solo toccarli mi fareste andare in collera.

Luc. (a parte) Ella fa la sdegnata; ma sarà contenta mettendosi in collera per una seconda lettera simile a questa. (esce)

Giul. Ah foss’io adirata davvero contro quella lettera! Oh odiose mani che laceraste quegli amati caratteri! Io vi assomiglio, o ingrate vespe, che vi nutrite del mele più dolce, e trafiggete coi vostri dardi l’ape che ve li porge. Per espiare il mio fallo vuo’ coprire di baci tutti i brani di questa lettera. Ecco, qui sta scritto tenera Giulia; oh di’ piuttosto; Giulia crudele! Per punirmi della mia ingratitudine vuo’ porre il mio nome su questi [p. 151 modifica]pietra e calpestarlo con isdegno: poi qui si legge Proteo ferito d’amore; povero nome che le mie mani han ferito, il mio seno come letto t’accoglierà fino che sii sanato; le mie labbra intanto cerchino di guarirti. Ma il nome di Proteo era scritto in varii luoghi. — Rattieni il tuo alito, buon zeffiro, non rubarmi una sola parola ond’io ritrovi ogni sillaba in questi brandelli sparsi, eccetto il mio nome: questo sia da te trasportato per rupi e deserti, e sommerso infine nel mare gonfio di sdegno! Ecco, in una sola riga il suo nome è scritto due volte: il povero abbandonato Proteo, il tenero amante Proteo... alla dolce Giulia, metterò in piccolissimi pezzi queste ultime parole. — E nondimeno, no. Egli ha così ben saputo unirle allo sfortunato suo nome, che tutte nel mio seno vuo’ riporle. Ora baciatevi, abbracciatevi, contendete, fate quello che vi piace. (rientra Lucietta)

Luc. Signora, il desinare è pronto e vostro padre vi aspetta.

Giul. Ebbene andiamo.

Luc. Debbono quei brani di carta, giacersi lì per terra per narrare le vostre avventure?

Giul. Se voi li rispettate, raccoglieteli.

Luc. Fui garrita per averlo voluto fare: ma nondimeno non li lascierò qui per tema che non incappino in un raffreddore.

Giul. Veggo bene che avete voglia di ripigliarli.

Luc. Sì signora, potete ben dire quello che vedete: ma molte cose che veggo io, sono da me dissimulate.

Giul. Venite, venite; vi piace di seguitarmi? (escono)

SCENA III.

Una stanza nella casa d’Antonio.

Entrano Antonio e Pantino.

Ant. Dimmi, Pantino, qual fu il grave discorso che mio fratello ti tenne nel convento?

Pan. Versò sul suo nipote Proteo, figlio vostro.

Ant. Che disse di lui?

Pan. Maravigliò forte che Vossignoria permettesse ch’ei sperdesse qui il suo tempo intantochè altri padri di un grado e di un nome ben meno cospicuo fanno partire i loro figliuoli in cerca di fortune, sia col mezzo delle guerre, o di più miti studii. Dice che vostro figlio Proteo sarebbe riescito nella maggior parte delle imprese in cui fosse posto, e mi scongiurò perchè v’importunassi onde nol lasciate più a lungo inoperoso, e in una [p. 152 modifica]inesperienza, di cui si risentirebbe ad ogni passo in età più matura. Un viaggio gli sarebbe necessario.

Ant. Tu non hai bisogno di infestarmi perch’io consenta a ciò; è più d’un mese che ci penso. Ho bene notata la rovina del suo tempo; e come, senza lo stadio e la cognizione del mondo, ei non possa giammai diventare uomo perfetto; ma l’esperienza s’acquista collo studio e l’applicazione, e si perfeziona col volgere deg anni. Dimmi dunque dove sarebbe più conveniente di mandarlo.

Pan. Credo che Vossignoria non ignori come il suo amico, il giovine Valentino, sia partito per la Corte dell’imperatore.

Ant. Lo so.

Pan. Sarebbe bene, penso, che lo inviaste colà, onde avesse occasione d’esercitarsi nelle giostre e nei torneamenti, nel bel conversare coi nobili, e in ogni altro esercizio degno della sua nascita.

Ant. Mi piace il consiglio; bene ti apponesti: e per mostrarti quant’io t’approvi, vuo’ che tosto tal disegno vada in esecuzione, e che mio figlio parta.

Pan. Dimani, se vi piace, ei potrà accompagnare don Alfonso, ed altri egregi valentuomini che vanno a salutare l’imperatore, e ad offrirgli i loro servigi.

Ant. Ottima compagnia; Proteo andrà con essi: e in buon tempo giunge perch’io gliene dica. (entra Proteo)

Prot. Dolce amore! Dolce scritto! Dolce esistenza! Ecco la sua mano interprete del suo cuore; ecco il suo giuramento di amarmi, e i pegni della sua anima. Oh vogliano i nostri padri approvare la nostra inclinazione, e suggellare questa felicità col loro assentimento! Divina Giulia!

Ant. Che lettera state leggendo?

Prot. Piaccia a Vossignoria, son poche parole d’amicizia che mi scrive Valentino, e che mi furono consegnate da uno che venne pur ora.

Ant. Datemi quella lettera; ch’io vegga quali novelle reca.

Prot. Non vi son novelle, signore; ei mi scrive soltanto che è felice, amato e beneficato dall’imperatore e desidera d’avermi compagno delle sue fortune.

Ant. E che dite di tale desiderio?

Prot. Nulla più di quello che debbo dire un figlio obbediente al proprio genitore, soggetto alle voglie di questo, prima che a quelle dell’amistà.

Ant. Ebbene i miei desiderii concordano perfettamente coi suoi; non vi meravigliate di questa mia subitanea risoluzione [p. 153 modifica]perchè voglio ciò che voglio, e tutto è detto. Sono risoluto a farvi star qualche tempo con Valentino alla Corta dell’imperatore; e quello che la sua famiglia gli dà per sussistere onorevolmente, voi pure l’avrete da me. Domani apparecchiatevi ad andare, non vi son parole; lo voglio.

Prot. Signore, non potrò provvedermi così subito di quanto m’è necessario: piacciavi concedermi un giorno o due.

Ant. Quello che ti manca, ti sarà mandato: non più dimore;, domani convien partire. — Venite, Pantino; voi attenderete ad affrettare il suo viaggio. (esce con Pant.)

Prot. Così ho evitato il fuoco per tema d’abbraciarmi e mi son gettato nel mare in cui ora annego. Non volli mostrare a mio padre la lettera di Giulia per paura ch’ei non s’opponesse al mio amore, ed è della mia scusa stessa ch’ei si prevale contro l’amor mio. Oh come questa primavera d’amore somiglia alla luce incerta d’un giorno d’aprile, che ora mostra tutte le bellezze del sole, e un istante dopo è da una nabe lasciato in profonda oscurità! (rientra Pantino)

Pan. Messer Proteo, vostro padre vi chiama; egli ha gran pressa, onde vi prego di andare.

Prot. Oh, che è ciò? Il mio cuore vi consente, e nondimeno mille volte mi dice di no.

(escono)