I drammi della schiavitù/17. Sotto l'equatore

17. Sotto l'equatore

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16. Odio ed amore 18. Una vela sull'orizzonte


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XVII.

Sotto l’Equatore


L’uragano che aveva causato la perdita della Guadiana, a poco a poco si calmava. Le nubi, squarciate dalle ultime raffiche e dalle ultime scariche elettriche, si erano per così dire sminuzzate, dileguandosi negli immensi spazi celesti e più non si vedevano; il vento da qualche ora aveva cessato bruscamente di soffiare; i tuoni, dopo d’aver brontolato a lungo sul lontano orizzonte settentrionale, si erano spenti e le onde si spianavano rapidamente, come se avessero perduto tutta la loro terribile forza in quella formidabile lotta.

La zattera, dopo di essere stata violentemente scossa in tutti i versi e di essere stata più volte spazzata dai marosi che superavano facilmente il ponte, era rimasta quasi immobile, perduta su quell’immenso Oceano, sotto una pioggia di raggi infuocati, scottanti, mordenti.

L’equipaggio, dopo d’aver messo un po’ d’ordine su quel galleggiante ingombro di casse, di cassette, di barili e di botti e di aver sciolto la gran vela, si era sdraiato sotto un pezzo di tela tesa a poppa, per gustare un po’ di sonno e rimettersi dalle fatiche della notte. Soli pochi uomini erano rimasti in vedetta, alcuni per la manovra, altri con la speranza di scoprire qualche nave in rotta per l’Atlantico meridionale, o per l’America del sud, o pel Capo di Buona Speranza.

Anche Kardec si era sdraiato sotto la tenda e così pure Seghira, sotto quella rizzatale a prua da Niombo.

Il dottore invece si era assiso a poppa, presso Vasco che teneva la barra del timone, e guardava distrattamente le onde che venivano a infrangersi sui bordi della zattera con lunghi brontolii.

Un leggero venticello si era alzato e spingeva il galleggiante verso l’est, in direzione delle coste d’Africa, che erano pur tanto lontane. [p. 129 modifica]— Una vela! una vela!... In piedi, camerati! (Pag. 143) [p. 131 modifica]

– A cosa pensate, signor Esteban? – chiese Vasco, che stava indolentemente appoggiato al lungo remo che serviva di timone.

– Pensavo alla gravità della nostra situazione e agli avvenimenti che qui succedono, Vasco.

– Credete che la nostra situazione sia molto grave, dottore?

– Sì, Vasco.

– La zattera è solida.

– Ma l'Africa è lontana.

– Però la raggiungeremo un giorno e, poi, contiamo sull'incontro di qualche nave.

Il dottore crollò il capo.

– Delle navi qui! – disse poi. – E quali vorresti incontrare? Quelle che si recano al Capo si tengono quasi in vista della costa africana, quelle che vanno in America attraversano l'Oceano sopra l'Equatore e non tagliano che al di là dell'isola di San Paolo.

– Pur troppo è vero, signor Esteban, ma possiamo contare sui negrieri, che dall'America vanno nella Guinea o viceversa.

– Sono ormai rari come le mosche bianche. Io temo, Vasco, che fra breve saremo alle prese con la fame e con la sete e per quanto io cerchi di scacciare il terribile ricordo, mi viene sempre in mente il naufragio e la zattera della Medusa.

– Mi fate rabbrividire, dottore. Che siamo destinati anche noi a divorarci l'un l'altro?

– Lo temo, Vasco. Fra breve le calme equatoriali piomberanno su di noi e ci immobilizzeranno.

– Ma abbiamo viveri per due settimane.

– E cosa sono due settimane? Credi tu di giungere in Africa prima di allora, con questa zattera che si avanza come una tartaruga?

– Ma spero che non si morrà subito, e che alcuni giorni potremo resistere anche senza mangiare.

– Non dico di no, anzi si citano dei casi straordinari di persone che hanno vissuto delle intere settimane e perfino dei mesi senza inghiottire un boccone.

– Dei mesi!... Scherzate, dottore?...

– No, Vasco, ti cito dei casi rigorosamente esatti, registrati da autorità mediche di gran fama. Non accenno le persone vissute qualche settimana senza toccare cibo, essendo cosa molto comune. Il professor Haller di Gottinga cita parecchi casi da lui osservati nel 1735. Il celebre dottor Van der Staelport di Aia, assistette una fanciulla che era affetta da malinconia acuta e che visse centoventi giorni senza cibo e senza acqua. [p. 132 modifica]

– Quattro mesi!

– Sì, Vasco. L’italiano Borelli, nel 1665 vide un individuo digiunare novanta giorni e Malipieri, un altro medico italiano, vide una donna morire dopo quarantasei giorni, prendendo solamente un po’ d’acqua ogni qual tratto.

– Ma sono casi rarissimi, dottore.

– Non tanto, Vasco. Giorgio Cheyne narra che un tisico visse trenta giorni prendendo solamente dell’acqua nitrata, e il medico di Clemente XI, parla di un uomo che ne visse venticinque.

– Ma nessuno era marinaio, dottore.

– Vi sono anche dei marinai. Nel 1809 un vascello naufragava nel Mar Baltico ed i sette uomini che si salvarono, vissero quindici giorni ingoiando solamente dei pezzetti di ghiaccio. Si cita poi un fatto che è il più meraviglioso di tutti, poichè si tratta di un digiuno di anni.

– È impossibile, dottore!

– È storia, Vasco. Una donna, certa Anna Garbero, una piemontese, nata a Racconigi, visse trentadue mesi e dodici giorni senza nutrirsi. Era stata prima inferma molti anni, poi tutto ad un tratto si trovò nell’impossibilità d’inghiottire qualunque cibo o bevanda e nondimeno potè vivere tanto, conservando una lucidità di mente incredibile e anche la favella. Aggiungi poi, che dall’autopsia risultò che la morte era stata causata, più che dal prolungato digiuno, dalle lesioni sopravvenute nell’apparato digerente. Nell’India, presso i Fakiri, fanatici che si tormentano in mille guise per guadagnarsi il paradiso di Buddha, i lunghi digiuni sono comuni ed è frequentissimo il caso di uomini che stanno dei mesi interi senza mangiare.

– Ma io dubito, dottore, che noi possiamo resistere delle settimane.

– Lo credo, tanto più che prima a mancare sarà l’acqua. Se si possedesse almeno quella in abbondanza, si potrebbe resistere qualche tempo, ma senza acqua, sotto questo clima ardente che dissecca le carni e le ossa e che infiacchisce il più robusto organismo, non potremo affrontare alcun digiuno.

– Quale terribile esistenza, dottore, se fossimo costretti a prolungare la nostra agonia con carne umana!... Rabbrividisco solamente al pensarlo.

– E più terribile sarà il momento per colui che estrarrà il bottone fatale, Vasco.

– Potesse almeno toccare al bretone. Io l’odio, dottore, quell’assassino. [p. 133 modifica]

– Ed io non meno di te, Vasco.

– E non poterlo punire!...

– V’è chi lo punirà.

– Chi?

– Seghira.

– Lei?... Ma se si dice qui, che lo ama! Questi negri o mulatti che siano, non hanno cuore e mentono coloro che affermano che la riconoscenza è una virtù dei negri.

– Ti dico che Seghira odia quell’uomo più di me e di te insieme, ma occorre il nostro aiuto per condurre a buon termine la vendetta che essa medita.

– Se è vero, io sono pronto a tutto. Cosa devo fare?

– Spingere sempre la zattera verso la Guinea, nei pressi della baia di Lopez.

– Perchè?

– È là che Niombo e Seghira, faranno cadere l’assassino.

– Non vi comprendo, dottore.

– Mi comprenderai più tardi.

– Ah!... forse che Niombo... lo trascinerà nell’interno?...

– È probabile, Vasco, ma bada che non ti sfugga una sola sillaba.

– Contate su di me, signor Esteban. Io solo possiedo una bussola che conservo religiosamente, non avendo i marinai pensato a imbarcarne una nella confusione dell’ultimo momento; io solo quindi posso guidare la zattera con sicurezza verso l’est e lo farò, ve lo prometto.

– Sta’ in guardia, però, perchè so che Kardec cerca di raggiungere la Costa d’Oro, che è la più vicina.

– Voi sapete che in questa regione la brezza non soffia che di notte e quando le tenebre sono discese, il sole non è più là a indicare il levante e il ponente e la Croce del Sud non può dare una direzione rigorosamente esatta. Monterò i quarti notturni e spingerò la zattera, dal tramonto all’alba, sempre verso l’est.

Il dottore fece col capo un gesto affermativo e ricadde nel suo mutismo, guardando distrattamente le onde che scintillavano sotto quella pioggia di raggi infuocati, che diventava di minuto in minuto più scottanti.

La zattera intanto procedeva lentamente verso levante, alzandosi penosamente sopra le onde e ricadendo pesantemente nei cavi, con mille scricchiolii e mille urti causati dalle botti galleggianti ai suoi fianchi. Di quando in quando un colpo di mare spazzava la [p. 134 modifica] prua e giungeva fino alla tenda stesa a poppa, risvegliando bruscamente l’equipaggio.

L’Oceano si manteneva sempre deserto. I pochi uomini di guardia avevano un bel guardare aguzzando gli occhi, ma nessun punto, nè bianco, nè oscuro che indicasse la presenza di una nave o di una vela lontana, appariva in nessuna direzione. Solamente alcuni tintoreas, voraci squali, lunghi da sette ad otto metri e che mostravano delle bocche enormi irte di molteplici file di denti, si scorgevano a breve distanza, pronti ad accogliere nelle loro gole le prede.

A mezzodì Kardec, che si era svegliato, fece chiamare a raccolta l’equipaggio e per la prima volta fece la dispensa di viveri, consistenti in pochi biscotti, in un pezzo di porco salato e in poco meno di mezzo litro d’acqua, razione scarsa per quegli stomachi robusti e sempre affamati, ma necessaria se si voleva prolungare l’esistenza di tutti.

Kardec avrebbe voluto raddoppiare la razione di acqua a Seghira, ma non l’osò, sapendo che avrebbe sollevato un uragano assai pericoloso, fra quelle ruvide genti.

Il dottore, per non accrescere la sete, aveva consigliato di lasciare da parte il porco salato e di gettare in mare il tafià, liquore estremamente pericoloso con quel caldo, ma le due proposte, specie l’ultima, erano state respinte.

– I pesci non hanno bisogno del nostro tafià, – avevano risposto alcuni. – È meglio che ce lo beviamo noi, dovremo crepare di sete più tardi.

Durante la giornata, nulla accadde a bordo della zattera. La maggior parte dei marinai sonnecchiò al riparo della tenda, altri s’occuparono a rinforzare le murate che le onde di quando in quando spostavano e Seghira non abbandonò il suo posto dinanzi a cui vegliava Niombo, insensibile come una salamandra, ai morsi del sole equatoriale.

Kardec, che pareva fosse smanioso di vederla, si avvicinò parecchie volte alla tenda, ma non osò scavalcare il negro che chiudeva, col suo gigantesco corpo, l’entrata. Cercò pure parecchie volte di avvicinare il dottore, come se volesse attaccare con lui il discorso, ma accorgendosi che questi fingeva di non vederlo, dovette rinunciare alla sua idea; continuò però a ronzargli attorno, sperando di venire interrogato.

Alla sera, poco prima del tramonto, vi fu un’altra dispensa di viveri, consistenti in poche scatole di conserva alimentari divise scrupolosamente fra tutti, in pochi biscotti ed una sorsata d’acqua [p. 135 modifica] che fu subito bevuta, ma che fu insufficiente a spegnere l’arsura prodotta da quel caldo veramente insopportabile.

Con la scomparsa del sole si era alzata una leggera brezza, la quale soffiava dal nord-ovest, rinfrescando l’aria. La zattera, che era rimasta immobile quasi tutto il giorno fra quell’atmosfera ardente e soffocante, si mise a filare verso sud-est, stringendo il vento più che poteva, allontanandosi dalla Costa d’Oro, ma avvicinandosi alle coste della Guinea inferiore, con gran piacere di Vasco, che si era collocato alla barra, orientandosi con la sua piccola bussola che aveva deposta dinanzi a sè, su di una cassa, coprendola con la propria giacca.

I marinai, dispersi sul ponte, aspiravano con delizia quel po’ di frescura e chiacchieravano fumando gli ultimi pacchi di tabacco, salvati miracolosamente dal naufragio. Anche Seghira aveva lasciata la sua tenda e si era seduta a prua, a fianco del dottore il quale contemplava tacitamente l’astro notturno che allora sorgeva sull’orizzonte, riflettendosi vagamente nei flutti che pareva si cospargessero di pagliuzze d’argento.

Kardec, seduto a poca distanza da loro, su di una cassa vuota, fumava in silenzio, ma i suoi occhi non si staccavano un solo momento da Seghira e aguzzava gli orecchi per sorprendere qualche parola, ma senza risultato poichè nè la giovane e bella schiava, nè il dottore, parlavano e parevano entrambi immersi in profondi pensieri. Ad un tratto Seghira si scosse, dicendo:

– Guardate, dottore!...

Esteban, strappato bruscamente dalle sue meditazioni, alzò il capo e guardò nella direzione indicata.

Dinanzi alla prua della zattera, fra le acque si vedevano correre degli strani bagliori come se dal fondo del mare salissero dei filamenti di fuoco, i quali si contorcevano, si spezzavano fra la spuma prodotta dall’urto delle onde, si riunivano e formavano delle corone, delle serpentine, degli ellissi, degli angoli che crescevano di minuto in minuto.

– Del fuoco? – chiese Seghira.

– No, una fosforescenza – rispose il dottore. – È un fenomeno che si ammira sovente sotto i mari equatoriali.

I filamenti crescevano rendendo sempre più luminose le onde. Strani bagliori guizzavano in tutte le direzioni; e si formavano dei grandi gruppi di punti luminosi, che parevano gruppi di stelle, poi delle grandi strisce che apparivano e scomparivano con dei bagliori simili a quelli che produce il fosforo strisciato durante una notte oscura; poi delle larghe chiazze che parevano formate [p. 136 modifica] di zolfo o di bitume infuocato, poi getti di luce che rimbalzavano fra le creste delle onde, indi tutto il mare intorno alla zattera divenne argenteo come se sotto quei flutti fosse stata accesa una potente lampada elettrica o splendesse un’altra luna di uno splendore incomparabile.

– Bruciamo? – chiese Seghira.

– No – disse una voce dietro di lei. – Non vi è pericolo.

Seghira nell’udirla trasalì e le sue labbra s’incresparono a un sorriso terribile, ma volgendosi disse con voce quasi ilare:

– Voi, signor Kardec? Vi credevo sotto la tenda.

– No – disse il bretone con voce insinuante. – Ero venuto a osservare questo fenomeno che non si è mai stanchi di ammirare, Seghira. Non abbiate timore, la zattera non brucerà, poichè quei fuochi non sono prodotti che da piccolissimi organismi marini, che ancora oggi non si è potuto constatare con precisione se siano di natura animale o vegetale e che gli scienziati chiamano nottiluche. È vero, signor Esteban?

– Sì – rispose il dottore con voce secca.

– Ma io non li vedo quei pesci, signor Kardec.

– Pesci non sono, si chiamano molluschi, hanno la forma di un pesce con un’appendice mobile che è rivestita di una membrana resistente ed emanano la loro luce da una sostanza fosforescente che copre il loro corpo, la quale si spande come scintille sulle acque. Sono poi così piccoli, che non si possono vedere senza l’aiuto di una lente, è vero, signor Esteban?

– È vero – rispose il dottore, con l’egual tono di prima.

– Ah! – riprese Kardec. – Se voi vorreste, io vi farei vedere un mare infinitamente più bello di questo e sul quale potreste ammirare i più meravigliosi fenomeni della natura, Seghira.

– E dov’è questo mare? – chiese la schiava.

– È lontano da qui, verso il sole che sorge, al di là di una regione che si chiama India.

– È il mar Malese, è vero, signor Kardec? – disse Esteban con un’ironia più tagliente della lama d’un coltello. – Tu vedresti, Seghira, delle meraviglie incomparabili laggiù e anche degli uomini che scannano gli altri per derubarli e che si chiamano pirati, è vero, signor Kardec? Che peccato che la Guadiana non sia andata laggiù. Mah! Alvaez era un uomo che aveva degli scrupoli da femmina, è così, signor Kardec?...

Il bretone non rispose: era diventato livido e aveva dinanzi agli occhi un velo sanguigno. Aveva capito fin troppo la mordace allusione del dottore. [p. 137 modifica]

Si allontanò fremente, col viso burrascosamente alterato, i pugni chiusi attorno al manico del pugnale, ed il dottore lo udì mormorare con voce sibilante:

– Quell’uomo è di troppo qui!... Ma la fame piomberà sulla zattera!