I divoratori/Libro secondo/XV

XV

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XV.

Peg e George la accompagnarono al battello — Peg, eccitata e chiaccherina, e George depresso e silenzioso.

Nel suo tetro ufficio nella città bassa George si era recentemente sentito più poeta che commesso. Ed ora la sua anima era tutta una elegia. — Ella partiva! Ella se [p. 292 modifica]ne andava; e con lei partiva il suo cuore! Con lei partivano anche i quattrocento dollari — che non erano suoi, ma di un amico, un’anima meschina e sordida. George soffocò questo volgare pensiero nato dal commesso, e si abbandonò completamente al dolore del poeta.

Addio! Addio!... Il bastimento volse il fianco crudele, nascondendo la figuretta sventolante sul ponte... E con lento palpito, come un grande cuore infedele, abbandonò la riva. Addio! Che cos’erano quattrocento dollari appartenenti ad un amico, in confronto al cuore lacerato d’un amante?


... Il battello si spinse altalenante verso l’Est, alzandosi e sprofondandosi sul gigantesco respiro del mare, e portando Nancy e le sue vesti, e i suoi cappelli, e i suoi vasetti di crema, verso lo Sconosciuto.

E più Nancy si avvicinava a lui, più una immensa paura la afferrava, la opprimeva.

Pensava:

— E se arrivassi a Parigi coi quattordici dollari che mi restano... e lui non ci fosse? O se, essendoci, fosse un brutale e orrendo personaggio?

Poi un altro terribile pensiero l’assaliva. S’egli non la trovasse bella quanto se l’aspettava?

Poichè veramente, assolutamente, bella non lo era. Oh! perchè non aveva lei quelle pallide chiome soleggiate della giovane americana che le sedeva accanto a tavola? Perchè non aveva gli occhi come la ragazzetta del Far West — quella che andava a studiar pittura a New York — occhi verdi e stellanti, color acqua-marina, che la giovinezza inondava di chiarità?

Nancy per consolarsi sperò che fosse lui stesso un orrore di bruttezza. Ma — e se lo fosse? Nancy come avrebbe potuto parlargli e sorridergli, s’egli era un ripugnante [p. 293 modifica]mostro? Poi ragionò che se fosse un mostro non le avrebbe detto di venire. «Perchè non pranzeresti con me giovedì?» non è il telegramma che manderebbe un mostro. No. Nancy era persuasa che egli non era un mostro.

Poi pensò: che cosa gli direbbe ella al primo vederlo? Tutto dipendeva da quel primo momento dell’incontro. Quel momento Nancy se lo figurava sempre in mille guise diverse; e le sue fantasticherie cominciavano sempre allo stesso modo.

Ecco: ella arrivava a Parigi; saliva in carrozza, e andava — non al Grand Hôtel dove stava lui, ma al Continental. Ivi prendeva uno splendido appartamento... Come? con quattordici dollari? Già, precisamente. Ormai che importava?

Era Rouge, o Noir! Se usciva Rouge, era salva. Se Noir — era la debâcle! Cinquanta franchi di più o di meno non cambiavano nulla alla situazione.

Dunque — e Nancy riprendeva il filo delle sue immaginazioni — ella si ritirava nelle sontuose camere, prendeva una tazza di thè nel suo sontuoso salotto, e poi riposava per un’ora o due sul suo sontuoso letto. Indi faceva una elaborata toletta, usando tutte le creme. E alle otto meno un quarto mandava un messaggero con un biglietto al Grand Hôtel: «Caro Sconosciuto. Sono qui!»

Allora... ah! allora?... Egli arriva, entra... la vede! E Nancy deve dirgli qualche cosa. Ma che cosa? quali saranno le prime parole ch’ella gli rivolgerà?

«Buona sera. Come sta?» Orribile! no, questo non lo dirà. Oppure: «Eccomi!» Dio mio! peggio! Clarissa a Milano aveva una serva, che, chiamata, rispondeva sempre «eccomi». E Clarissa diceva che la parola era stomachevole. Dunque, qualcos’altro. Forse in francese? «Me voilà!» Buffo! Ridicolo! No, no. Nancy non direbbe nulla. Parlerebbe lui per il primo. [p. 294 modifica]

E Nancy cercò di immaginarsi la sua prima frase. Forse, dopo un lungo silenzio, direbbe con voce profonda e fremente: «Sì! siete voi la Donna dei miei sogni!» Questo sarebbe gentile e piacevole. O allora: «Ah, Eva! Eva! Quanto vi ho sospirata!» Ecco, ciò darebbe subito il tono giusto alla conversazione. O — chi sa? — forse in tono più gaio, stendendo ambe le mani: «Dunque è questa, Nancy?... Vi ho sempre sognata così, con una fossetta nel mento!» Ciò sarebbe delizioso e originale.

Quante ore notturne vegliò Nancy pensando a queste Prime Parole!... e rivoltandosi nella stretta cuccetta, rigirando il cuscino per sentirne il fresco sulla guancia accaldata, Nancy palpitò e tremò, sorrise e si disperò, pentita un istante, beata l’altro, finchè il grande piroscafo premette cigolando il fianco contro i pilastri del porto di Havre.

Nancy arrivò a Parigi alle tre del pomeriggio. Salì in vettura, e si fece condurre all’Hôtel Continental. Prese un appartamento che costava ottanta franchi al giorno: un salotto tutto a delicate tinte verde chiaro e grigio tenero, che pareva visto traverso l’acqua; e accanto, una sfarzosa camera da letto in rosso e oro, tutta rilucente di specchi che parevano aspettare con deferenza l’elaborata toletta.

Nancy sorbì nervosamente il thè, tanto per attenersi al suo programma. Poi tentò di riposare. Ma non le fu possibile dormire. Alle quattro e mezzo il biglietto che doveva essere mandato alle otto meno un quarto era già scritto. E Nancy principiò l’elaborata toletta.

Pensò dapprima a far venire il parrucchiere; poi ricordò che i parrucchieri le avevano sempre accomodato i capelli tutto a rotoli e attorcigliamenti, che le facevano una testa come una focaccia, a cui il suo viso non pareva affatto appartenere. Dunque si pettinò da sè, alla Carmen, coi capelli divisi da una parte. Le parve che [p. 295 modifica]«Quella delle Lettere» si sarebbe pettinata a quel modo. Ma quando fu fatto, le parve di avere un’aria troppo insolita e impertinente; dunque sciolse di nuovo i capelli e si decise di adottare una pettinatura semplice e naturale. Divise i capelli in mezzo e fece due treccie che appuntò in corona attorno al capo. Sì; era semplice e naturale! Nancy così somigliava alla minore e più oca delle ragazze svedesi della pensione. Certo non somigliava a «Quella delle Lettere». Dunque tornò da capo. Disfece tutto, e si pettinò alla «Pierrot»: un ciuffo in mezzo e due sbuffi ai lati; un’acconciatura che la rendeva graziosa, frivola ed equivoca.

Mio Dio! erano già le sei! Le creme! Prima, dunque, un po’ di cold-cream su tutta la faccia; poi della crème Impératrice. Poi — Nancy ricordava perfettamente tutte le indicazioni datele dalla commessa del profumiere a New York — poi, dunque, una piccolissima quantità di «rouge Leichner», spalmato con un po’ di crème des crèmes, e lievemente applicato alle guancie. Poi, della cipria rosa; e poi un po’ di cipria Rachel. E adesso?... Ah, sì! un «soupçon» (la signorina aveva detto un «soupçon») di rossetto sul lobo delle orecchie, e dentro alle narici. Le narici — aveva detto la signorina — erano molto importanti.

Adesso un atomo di «mascaro» applicato con uno spazzolino alle sopracciglia; e un’idea di un’ombra intorno agli occhi... Et voilà!

Voilà! Nancy si guardò nello specchio. La sua faccia era bianco-violacea, e le sue narici indicavano un forte raffreddore. I suoi occhi parevano grandi e stanchi e intensi come gli occhi dei volatili occidentali a Montecarlo.

Le sette!! E aveva dimenticato le unghie!

Per venti minuti dipinse le sue unghie colla vernice liquida che era di un rosa vivido: era molto appiccicaticcia, [p. 296 modifica]e una volta messa, non si poteva più levar via. Pareva avesse immerso la punta delle dita nel sangue.

Le sette e mezzo! Bisognava mandare il biglietto. Suonò il campanello e apparve un cameriere. Era il cameriere che le aveva servito il thè. Allora si era mostrato un cameriere corretto e rispettoso, entrando con molti inchini nelle stanze sontuose e facendo il suo servizio silenziosamente a occhi bassi.

Ora vedendo Nancy — che aveva rapidamente indossato la più chiara delle sue vesti fruscianti — il cameriere la guardò stupito, poi continuò a fissarla in faccia, sfrontatamente, mentre le prendeva dalla mano il biglietto.

Lesse l’indirizzo, e disse:

— «C’est bon. All right. Jawohl».

Intascò il biglietto, sorrise — sorrise a lei! — poi se n’andò per il corridoio zufolando piano.

A Nancy era salito il sangue al viso. Colla fronte rossa di vergogna chiuse la sua porta; si tolse l’abito luccicante ed entrò nella bianca e argentea stanza da bagno, attigua alla sua camera. Fece scorrere l’acqua calda e si lavò la faccia: lavò dagli occhi e dalle guancie tutta la cipria rosa e Rachel, dalle orecchie e dalle narici tutti i «soupçons» e le ombre e le creme e il mascaro e il Leichner. Poi disfece la pettinatura e raccolse le chiome ondeggianti in un largo nodo in cima al capo, come era avvezza a portarle; e indossò la più scura e semplice delle sue fruscianti vesti.

Ma le unghie se le lavò, se le strofinò, se le spazzolò invano. Rimanevano d’un colore vermiglio vivido e aggressivo. E Nancy si sentiva diventar di fuoco ogni volta che le guardava. Allora decise di mettersi i guanti e il cappello. E così fece. Poi sedette nel salotto ad aspettare.

Aspettò quindici minuti. Poi qualcuno bussò alla porta. [p. 297 modifica]

Nancy balzò in piedi come se avesse udito un colpo di pistola. Col cuore palpitante fuggì. Si precipitò sotto la portiera, e corse a rifugiarsi nella sua camera, chiudendo l’uscio dietro a sè. No, l’uscio non era chiuso, girò un poco sui cardini e rimase semi-aperto. Nancy lo lasciò così, non osando più muoversi. Udì ribussare più forte alla porta del salotto. Poi udì la porta aprirsi: e qualcuno entrò.

Indi la porta fu richiusa, e dei passi — i passi del cameriere — s’allontanarono per il corridoio.

Qualcuno era lì, nel salotto, a due passi da lei. Qualcuno — un uomo, uno sconosciuto — a cui lei aveva scritto quaranta o cinquanta lettere, e che ella aveva chiamato «Amico mio! Mes amours! Prince Charmant! Mio sconosciuto amore!»

Nancy ritta, immobile, pietrificata dalla vergogna, si era nascosta la faccia nelle mani inguantate di bianco. Non entrerebbe in quel salotto... mai! Neppure se dovesse star qui in piedi degli anni! Mai non avrebbe avuto il coraggio di affrontare quel misterioso personaggio nella stanza vicina.

La situazione diventava ridicola. Il silenzio era teso e intenso in ambe le stanze. Ah! pensò Nancy, quando il flutto di tremila miglia d’Oceano li separava, come si era sentita vicina a lui! Ed ora, con qualche metro di tappeto e una porta aperta tra di loro, egli le era lontano, incommensurabilmente lontano! Era uno straniero, un intruso, un nemico.

Silenzio assoluto. Ma... c’era poi qualcuno, di là?

Sì; c’era. Nancy sentiva che egli era lì, aspettante.

E tutt’a un tratto Nancy ebbe paura. Un folle subitaneo terrore la prese di quel silenzioso uomo sconosciuto — e pensò di fuggire. Fuggire! Fuggire!... Scivolerebbe piano nella sala da bagno, aprirebbe la porta sul corridoio, e via! Mosse un passo, piano, con infinita cautela. [p. 298 modifica]La sua veste sfrusciò; la sua scarpetta dai tacchi alti scricchiolò... E l’uomo nella stanza vicina, tossì.

Nancy si arrestò di botto, agghiacciata, impietrita.

Un altro lungo silenzio, assurdo, insostenibile. Poi, nel salotto, furono dette le Prime Parole. Egli le pronunciò in una voce calma e piacevole:

— Il nostro pranzo sarà freddo.

Nancy rise, di un piccolo riso convulso e dolce. Poi rispose (e la sua voce era nervosa e soave come il trillo d’una colomba):

— Che cosa avete ordinato?

— «Bisque d’écrevisse», — disse l’uomo nella stanza vicina, — e sogliola...

— Fritta? — mormorò Nancy; e, sentendo che se non scivolava dentro su quella sogliola fritta non sarebbe entrata mai più, passò rapida sotto il drappeggio della portiera ed entrò nel salotto.

Si guardarono. Ella vide un uomo di alta statura; una bocca dura, un naso curvo e forte in una faccia bruciata dal sole, due occhi chiari e freddi; e una fronte grave sotto folti capelli grigi e ondulati.

Ed egli la tenne lungamente sotto al suo sguardo fermo e penetrante. La squadrò dalla cima del piumato cappello alla punta delle scarpette Louis XV. E i suoi occhi furono soddisfatti.

— Andiamo, — disse, offrendo il braccio.

E uscirono insieme.

Il pranzo non era freddo. Nancy parlò pochissimo. Era nervosa e timida e incantevole, sorseggiando del Liebfraunmilch colle fossette fluttuanti e il sorriso mite.

Egli le raccontò che aveva delle miniere nel Transvaal e che per vent’anni era stato lontano dai paesi civilizzati.

— Sono sceso nelle miniere quando avevo vent’anni; [p. 299 modifica]e ne sono uscito quando ne avevo quaranta. Cioè, quattro anni fa. Da allora in poi ho avuto un gran da fare a sfuggire alle trappole tesemi dalle donne. Io ho un vero terrore delle donne.

— Anch’io, — disse Nancy; e non era vero.

Egli rise e disse:

— Soltanto le donne vi fanno paura?

— Oh no, anche i ragni, — disse Nancy.

— Ed altro?

— I leoni, — disse Nancy.

— Ed altro?

— I temporali, — disse Nancy. E poichè pareva che egli se lo aspettasse, soggiunse: — E anche voi mi fate una grande paura.

Egli non le credette. Ma era vero.

Dopo pranzo la condusse alle Folies Bergères, e poi alla Boîte à Fursy.

La osservò, col suo sguardo chiaro e penetrante, e fu contento di vedere che non rideva: la curva grave del giovane profilo gli piacque. Poi la ricondusse all’Hôtel.

Salirono insieme nell’ascensore, poi camminarono fianco a fianco sul tappeto rosso del lungo corridoio adorno di scarpe. Giunti alla porta del salotto verde e grigio, egli entrò senza chiedere permesso; e sedette, poderoso e grande, nella poltrona di broccato.

— Siete stanca? — chiese.

Nancy disse:

— No, — e rimase in piedi.

Egli stette per gran tempo guardando fisso davanti a sè, sporgendo il labbro inferiore e mordicchiandosi pensosamente i corti baffi dritti. Era un uomo grande e forte e aspro; i rudi lineamenti spiravano severità e fierezza.

E Nancy d’un tratto si ricordò che gli aveva dato del «tu» e detto «adieu, mes amours», nelle sue lettere; e a questo pensiero si sentì venir male dalla vergogna. [p. 300 modifica]

Egli fece udire un piccolo suono tra il ruggito e la tosse, e la guardò.

— Cosa pensate? — disse con voce rude.

Nancy rise.

— Penso che vi ho chiamato «Prince Charmant» dei racconti delle fate. Invece, veramente, somigliate molto di più all’Orco...

— Già, — disse lui e la guardò fisso per lungo tempo.

Poi si alzò, improvviso, e stese la grande mano forte a Nancy:

— Buona notte, Miss Brown, — disse.

Prese cappello e bastone, e uscì chiudendo risolutamente la porta dietro a sè.

Miss Brown entrò nella sua sontuosa camera da letto, e si svestì.

Nella lunga camicia da notte semplice, da collegiale, che non era parente delle vesti dubbie nè delle scarpette frivole, ella si inginocchiò accanto al letto, con un ritrattino di Anne-Marie fra le mani. E ringraziò Dio per averle dato Anne-Marie; e per averla condotta in salvo traverso l’Oceano; e per averle fatto trovare lo Sconosciuto così qual’era, al termine del viaggio. Poi andò a letto e dormì come un angelo.

L’indomani mattina alle undici egli arrivò, con un piccolo mazzo di mughetti in mano.

— Mi invitate a colazione? — disse.

Sì, sì! Nancy ne sarebbe felicissima. Pensò, rapida, ai ventidue franchi che erano nel suo portamonete. Ma che importava?

Presero il lunch nella grande sala da pranzo. Egli fu molto silenzioso.

Nancy tutt’a un tratto ricordò che doveva essere Quella delle Lettere, e cercò di essere gaia e spiritosa. Parlò di musica, ma egli rispose a monosillabi, senza entusiasmo. [p. 301 modifica]

— E voi, cantate? — disse Nancy infine.

Egli alzò gli occhi con una espressione di belva offesa.

— Ho l’aria di saper cantare, io? — chiese.

— Veramente no, — disse Nancy. — Avete l’aria di saper ruggire.

Egli sorrise un po’ sotto ai baffi corti e non rispose.

Nancy rinunciò ad ogni tentativo di conversazione. Il suo cuore batteva forte. Tutto andava male. Egli era già stanco di lei. Aveva l’aria annoiata — no, non veramente annoiata — ma completamente indifferente come se fosse stato solo.

Quando ebbero preso il caffè, egli si alzò (ogni volta che lo vedeva levarsi in piedi Nancy si meravigliava nuovamente di vederlo così alto e poderoso) e uscì, precedendola, dalla sala da pranzo. Nancy gli trottò dietro con passi brevi. Entrarono nel vasto Hall, ed egli scelse un tavolo presso la finestra. Spinse innanzi una poltrona per Nancy, e sedette.

— Permettete ch’io fumi? — chiese, e si tolse un grosso portasigari dalla tasca.

Nancy disse:

— Sì, — e stette a guardarlo.

Lo vide scegliere con cura il suo sigaro, e tagliarne la punta, e accenderlo. Nancy non trovava più una parola da dire. Aveva voglia di piangere. Davanti a questo laconico selvaggio tutte le sue idee frivole e graziose, le sue frasi originali, i suoi motti arguti le abbandonavano il cervello. Non era preparata a monologhi.

Il Selvaggio si volse:

— Voi, non fumate? — disse.

— Oh, no! — esclamò Nancy. — Mai.

Appena pronunciate queste parole un’ondata di vivo rossore le corse sul viso.

Ricordò di avergli scritto che fumava sempre delle [p. 302 modifica]sigarette russe profumate all’eliotropio bianco. Naturalmente, egli non l’aveva creduto.

Dio! Dio! come mai le era venuto in mente di scrivere delle cose così stupide?

E, d’un tratto, Nancy ebbe la chiara percezione che ella non era affatto Quella delle Lettere. Ed egli doveva essere seccato e disilluso.

Ma neanche lui era Quello delle sue lettere; almeno lei se lo era figurato tutto diverso, sottile e biondo, con gli occhi lunghi e sognanti, e l’anima di poeta. Ma poi ricordò che nelle sue lettere egli non aveva mai parlato di sè.

A questo punto egli alzò il capo e disse:

— Mi piace una donna che sa star zitta. Da mezz’ora non avete parlato.

E Nancy rise, contenta.

Quando ebbe finito di fumare il suo sigaro, egli disse:

— Spero che non avrete lasciato del valori in camera vostra. Non sarebbero sicuri.

— No, no, — disse Nancy.

— Li avete dati al bureau?

— No, — disse lei. — No.

E dicendolo, ricordò di avergli scritto che portava dei gioielli su tutta la persona. Una vampa di rossore le salì di nuovo al viso.

Egli non alzò gli occhi.

— Volete darmi il vostro portamonete? — disse. — Ne avrò cura io.

Nancy si disse che se continuava ad arrossire così, le si sarebbero incendiati i capelli! Ma, docilmente, tolse il portamonete di tasca e glielo porse.

Egli l’aprì lentamente e con deliberazione; ne prese i tre soldi e i due franchi che conteneva e se li mise in tasca. Aprì il piccolo scompartimento di mezzo e contemplò il solitario pezzo da venti franchi; poi lo levò e [p. 303 modifica]lo mise sul tavolo. Guardò in tutte le altre divisioni, contemplando pensosamente un biglietto di tram e una medaglietta della Madonna del Monte.

Rimise questi nel portamonete, lo chiuse e lo rese a Nancy. I venti franchi se li mise in tasca.

— Adesso usciamo, — disse. — Ho ordinato una victoria per le due. Andate a vestirvi.

Nancy, come in sogno, si alzò, traversò il vasto Hall, e salì in ascensore al suo appartamento. Si appuntò in testa il grande cappello, prese mantello e guanti, e arrivò a riprendere l’ascensore che appunto tornava dal piano superiore.

Quando egli la vide disse in tono d’approvazione:

— Avete fatto presto; — e insieme uscirono dall’Hôtel.

Il portiere con profusione di inchini li accompagnò all’aspettante victoria, ed i bei cavalli partirono a trotto sciolto per i Boulevards e verso l’Etoile.

Egli le fece molte domande durante il tragitto, ed ella, rispondendogli, fu per quanto le era possibile Quella delle Lettere. Egli le chiese di Montecarlo, e Nancy fu contenta di poterne parlare con profonda conoscenza, accennando con disinvoltura ai sistemi e al Café de Paris.

— Vi piacerebbe tornarvi? — chiese lui.

— Oh sì! — esclamò Nancy congiungendo le mani, delicatamente inguantate di suède viola chiaro.

Poi i suoi pensieri vagarono lontano, ed ella fece mentalmente una piccola preghiera per Anne-Marie.

La carrozza entrava nel Bois quando il suo compagno le disse:

— Dove vorreste andare?

Nancy rispose:

— Ma va bene qui! Il Bois è bellissimo. [p. 304 modifica]

— Non chiedo questo, — diss’egli. — Voglio sapere dove volete andare domani, o domani l’altro, o tra otto giorni. Non vorrete mica stare a Parigi eternamente?

Con un lieve sussulto Nancy lo guardò. Disse:

— Oh... — e poi ripetè: — Oh!... davvero? — guardandolo con occhi dubbiosi.

— Non mi guardate come se fossi il ragno, o il leone, o il temporale, — disse lui. — Ditemi piuttosto se esiste un luogo al mondo dove avete desiderio di andare. E quando? E come? E con chi?...

Gli occhi le si empirono di fervide lagrime.

— Vorrei andare in Italia, — disse. — C’è un paese, bianco nel sole, sospeso sopra il Mediterraneo,... come una Naiade timida che bagni il piede nel mare...

Il Selvaggio, inglese e positivo, disse:

— Geograficamente, si chiama...?

— Porto Venere, — disse Nancy.

Il Selvaggio, che aveva letto «Elle et Lui», sorrise.

— Va bene, — disse. — E poi?

— Vorrei, — balbettò Nancy, col respiro breve per l’agitante, per l’incredibile gioia, — vorrei fermarmi anche un giorno o due a Milano... a vedere delle persone care...

— E poi?

— Oh... e poi, vorrei andare in Isvizzera! solo in uno o due piccoli posti che ricordo: Splügen, Sufers, la Via Mala...

— E poi? — disse lui, aspettando altro.

— E poi, oh! a Napoli! a Napoli!... Ma più di tutto vorrei andare a Porto Venere!

Egli annuì col capo.

— Quando volete partire?

— Domani, — disse lei.

— E come? In treno? In automobile? o per mare? [p. 305 modifica]

— Non importa, — e Nancy si coprì il viso, e si mise a piangere.

— E con chi? — Vi fu una pausa. Egli suggerì: — Vorrete una cameriera.

— Oh no! senza cameriera, — disse Nancy, e alzò il viso. — Con voi! — soggiunse piano, perchè Quella delle Lettere avrebbe detto così. Ed anche perchè era vero.

— All right, — disse lui. — Prendete pochi bagagli.