I divoratori/Libro secondo/VI

VI

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VI.

New York.

«Mamma adorata,

Ti manderò questa lettera quando tutto ciò che scrivo in essa non sarà più vero. Se esco viva da questo spaventoso sogno, saprai tutto; se no... Ma certo ne esciremo, ci sveglieremo un giorno da questo incubo fantastico, incredibile.

Poichè, non si muore di miseria, vero, mamma? Non è possibile che si patisca davvero la fame? Quelle sono cose che si sentono a dire; ma non succedono, non possono realmente succedere, vero? «Zu Grunde gehen!» La tetra vecchia frase tedesca mi rulla nella mente come tuono lontano, «Zu Grunde gehen!» [p. 189 modifica]

Lo so, lo so che ciò non avviene. Non si va «zu Grunde». Ma quando si ha in tutto il mondo quarantacinque dollari e un uccelletto piccolo che apre il becco e vuol essere nutrito (e nutrito di dolci e cioccolattini quando ne ha voglia), si diventa vili e paurosi, e si pensano delle cose folli... si finge persino di credere alla possibilità di morire di fame!

Mamma, non pensar male di me se non sono tornata a Milano ad abbracciarti, a dirti addio, prima di partire per questo viaggio atroce, per questa terra straniera e così lontana.

Non mi reggeva il cuore.

E poi Aldo disse che non ne avevamo i mezzi; e forse aveva ragione, visto che i nostri «viatiques» riuniti e i miei gioielli venduti bastarono appena appena a portarci a New York.

Sbarcammo qui tre giorni fa. Ieri mattina ti mandai una cartolina: «Arrivati felicemente». Felicemente! Oh, mamma mia adorata! Io credo che forse vi sarà un secondo e più divino Paradiso riserbato a quelli che hanno il cuore di dire simili menzogne. Felicemente!...

Non voglio straziarti. Ti basti che arrivammo, io nel mio costume di Montecarlo, col mio cappello guarnito d’osprey e le mie scarpette lucide e impertinenti; Anne-Marie, con un’aria di principessina svogliata; e Aldo — un pallido Antinoo, con quarantacinque dollari nel portafogli.

E venne la Via Crucis del cercare alloggio. Mamma, ma fui io mai al Grand Hôtel a Roma? Fui io, Nancy, che scesi con languido passo le larghe scale dai vellutati tappeti, per salire nell’automobile reale che m’aspettava per condurmi al Quirinale? Ed ero io, che sdraiata nella grande poltrona dello zio Giacomo ascoltavo benignamente i folli poeti che mi leggevano i loro canti? Ero io, [p. 190 modifica]che con dita svogliate suonavo campanelli elettrici perchè i domestici mi venissero a servire?

Ciò avvenne forse ai tempi
D’Omero e di Valmichi...

Quella era un’altra Nancy. Questa Nancy trascinò i stanchi passi per ore ed ore traverso strade dritte e terribili chiamate «Avenue», con un lugubre marito da un lato, e una bimbetta piagnucolante dall’altro.

Terza Avenue... Quarta Avenue... (poi in fretta traverso la Quinta Avenue dove non sta che la gente ricca)... e giù per la sesta Avenue... e dovunque v’erano gli stessi negozi sporchi, e bambini strillanti, e ragazze impudenti, e uomini villani; e il rombo di treni sopra il capo, e il clamore e lo stridìo di tram e di trolley. Poi, finalmente, la Settima Avenue — una via tranquilla, squallida, senza treni — traversata da altre strade tranquille e squallide, dove v’erano meno bambini strillanti e meno negozi sporchi, ma delle file di case scialbe e repellenti, dei «boarding-houses», dove alloggiano gli infelici, gli stranieri, la gente senza casa, i naufraghi della vita.

Suonammo alla porta d’una di queste case che aveva l’aria più pulita e modesta delle altre. Una donna aprì. Mi guardò; guardò il mio cappello e le mie scarpe. «Cosa volete?» disse. — «Una stanza» — cominciò Aldo. La donna chiuse la porta senza rispondere.

Nella casa vicina una donna avvolta in uno sporco accappatoio di seta rosa, si affacciò alla finestra: «Se cercate stanze», disse, «qui ce n’è. Otto dollari al giorno. E i pasti un dollaro».

Nella casa seguente non prendevano bambini. Nell’altra non prendevano forestieri. Tutti ci guardavano male; stupiti e diffidenti di vederci nella loro povera con[p. 191 modifica]trada coi nostri abiti troppo costosi ed eleganti. Li insospettiva la bellezza di Aldo; il suo accento italiano faceva loro paura. E Anne-Marie, ad ogni nuova faccia che appariva alle porte, strillava.

Finalmente Aldo disse: «Andrò al Consolato italiano. Tu, aspetta colla bambina in qualche negozio». Entrammo da un fornaio, e ci sedemmo; e Anne-Marie mangiò molti panini.

Il Consolato era all’altro capo di New York e quando Aldo vi arrivò lo trovò chiuso. Ritornò depresso e sfinito; io, frattanto, avevo fatto amicizia colla moglie del prestinaio. Era una tedesca, grassa e bionda e mite. Le raccontai la nostra Storia del Lupo: che io ero una poetessa, e che ero stata ricevuta dalla Regina; e poi tutta la storia di Montecarlo.

Lei continuava a dire «Ach!» ma mi pare che non credesse nè capisse molto di tutto ciò. Certo, però, le facevamo pietà. D’un tratto Anne-Marie, udendo parlare tedesco, saltò fuori a cantare: «Schlaf, Kindchen, schlaf!» La donna subito l’abbracciò. «Ach! du Süsses», disse, tutta commossa. «Come fa a sapere quella canzone? Ach! vi condurrò da Frau Schmidl».

Infatti ci condusse tutti e tre nella 38.ma Strada, in casa di sua sorella; e la sorella ci diede questa camera. La camera è pulita; e Frau Schmidl è una dolce creatura.

Ed ora? Cosa accadrà? Mi sono comperata un orrendo vestito color pepe e sale, e un cappello di paglia nera. Anne-Marie porta una spaventevole mantellina di lana verde-oliva, regalatale da Frau Schmidl. Sembriamo dei Poveri Meritevoli!... Anne-Marie urla tutte le volte che le metto la mantellina; ma non possiamo offendere Frau Schmidl. Frau Schmidl è l’unica amica che abbiamo in America.

Poichè il «ranch» del Texas — ti ricordi quando [p. 192 modifica]Aldo ne parlava? — è un mito. Mai in vita sua Aldo è stato in un rancio. Una volta ha incontrato un francese malato di polmoni, che era stato nel Texas; e questi gli aveva narrato tutti quei romantici dettagli che egli ha poi riservito a noi. Ti ricordi, mamma? Sul Lago Maggiore... Ci raccontava — un po’ vagamente, è vero, e soltanto quando noi lo pregavamo — quelle storie dei cavalli selvaggi del West, i «bucking bronchos», su cui galoppava traverso le sterminate praterie... Quando gli rimprovero le sue favole, egli mi risponde che era colpa nostra. Insistevamo per sapere tutti i dettagli! Dice poi che è stata Clarissa a metter fuori la leggenda del rancio, perchè le pareva una idea estetica e graziosa. E lui s’è trovato a dover continuare questa storia come poteva.

Povero Aldo! Quando ci vede in questi abiti ci detesta! E detesta tutte le cose tedesche che Frau Schmidl ci dà da mangiare. È andato ora per la terza volta dal Console italiano a vedere se questi non potesse procurargli delle corrispondenze da fare. Io potrei dare delle lezioni; ma Frau Schmidl dice che v’è molto più gente che vuol dar lezioni che gente che ne voglia prendere. E poi... c’è Anne-Marie a cui bisogna badare. Anne-Marie! Frau Schmidl l’adora per il suo nome. Dice che è «echt Deutsch!» Frau Schmidl è una cara bionda grassa, come sua sorella, e, come lei, parla quello spaventoso linguaggio che è l’inglese dei tedeschi americani. Anne-Marie ama assai quel modo di parlare, e lo imita. Mi vien freddo pensando che Anne-Marie imparerà a parlare così.

* * * * * *

Aldo non ha trovato occupazioni di sorta. Gli americani non vogliono avere nulla a che fare con un italiano; e gli italiani vogliono ancor meno aver a fare con un italiano. [p. 193 modifica]

Ci rimangono otto dollari.

* * * * * *

Se ti scrivo chiedendoti dei denari tu li manderai. E poi? Da qui a poche settimane saremo al punto in cui siamo oggi.

Meglio vale combattere da soli le nostre battaglie.

* * * * * *

Ecco. Non abbiamo più niente. Niente.

Il signor Schmidl dice che ci lascierà tenere la stanza. «Almeno», aggiunge in tono burbero, «per un’altra settimana o due». Ma sua moglie non deve darci da mangiare. «Almeno», soggiunge, ancora più burbero, «non a tutti. Soltanto a voi, e alla Anne-Marie».

È un uomo povero anche lui. Ha ragione. Non può mantenere una famiglia d’estranei. Ma — e Aldo? Come farà?

* * * * * *

Abbiamo venduto i vestiti di Montecarlo per dodici dollari. Ci siamo riabilitati.

E poi, dove avevo la testa? Io posso scrivere! Come mai non ci ho pensato? Manderò un articolo al giornale Italo-Americano. Senza firma s’intende.

Lo scrivo subito. Stasera stessa.

* * * * * *

È scritto.

* * * * * *

È accettato.

* * * * * *

È stampato. [p. 194 modifica]

E pare che tutto finisca lì. Hanno detto ad Aldo che non pagano mai gli articoli che vengono mandati dal di fuori, anche se sono brillanti e originali com’è questo. Non pagano che i loro redattori.

E non vi sarebbe posto nella redazione per lo scrittore dell’articolo brillante e originale?

Posto, sì. Fin che se ne vuole. Ma denari no.

Aldo vive di datteri e di un po’ di riso. Non parla quasi mai. Non so che cosa siano i suoi pensieri. Ho paura per lui.

* * * * * *

Oggi, conducendo fuori Anne-Marie a prendere un po’ d’aria davanti alla casa, ho incontrato una persona che conoscevamo in Italia, un certo Fioretti.

Mi pare che fosse un vecchio amico di Nino. Egli mi guardò, e passò, senza riconoscermi. Ringraziai il cielo! Mi tremavano le ginocchia per la paura che si fermasse, che mi dicesse: «Voi, qui? Ma dove state? Cosa fate?»

Dove sto? Sto in questa vile strada nel quartiere dei negri. E cosa faccio? Muoio di fame.

Mamma! mamma! mamma! ma questo è un sogno che faccio, non è vero? Uno stolto, incredibile sogno, da cui mi sveglierò ridendo, per ritrovarmi vicino a te. Vorrei svegliarmi ancora bambina in Inghilterra, nella Casa Grigia... C’era la nonna, vero? non me la ricordo, ma so che c’era. E nel giardino un’altalena: quella la ricordo...

E poi, non c’era anche una ragazzina colla treccia bionda, che si chiamava Edith? Non so perchè mi pare di ricordarmela adesso. Che cosa ne è stato di lei?... Era forse quella poverina che morì d’etisia a Davos?...

* * * * * *

Aldo non si muove più di casa. Non ci parla più. Sta [p. 195 modifica]tutto il giorno immobile, a guardarci. Io ho paura di lui.

Se posso trovare denari sufficienti, ti telegrafo.

* * * * * *

Questa gente è buona. Tengono Anne-Marie da basso, in cucina. Ma anche loro hanno paura di Aldo. Credo che ci manderanno via. Ma terranno la bambina, e avranno cura di lei.

Oh Dio! Mamma! mamma! Pensa!...

Voglio telegrafarti, voglio telegrafarti.

Vado fuori. Vado a domandare che mi si aiuti. Domanderò a chiunque, a tutti...

· · · · · · · · · · · · · · ·

Sono stata alla Chiesa italiana, al Consolato italiano. Vedranno, dicono; e faranno il possibile... ma ci sono tanti casi pietosi! Mamma, siamo un «caso pietoso» noi? Come è strano!...

Non hanno voluto darmi i denari per un telegramma. Hanno detto che telegraferanno loro, quando avranno assunto informazioni...

Ho fermato per istrada una donna. Le ho detto: «Perdoni! Potrebbe forse lei...», e poi mi è mancato il coraggio e le ho domandato dov’era la 38.ma Strada. Me l’ha indicata, ed io son tornata indietro per la strada già fatta.

Sono arrivata alla Quinta Avenue e nel mio misero abito sono scesa per quella via splendida e opulenta. Sono passata davanti a tanti grandi palazzi. Uno di questi aveva le finestre aperte e, dentro, qualcuno suonava «Der Musikant» di Hugo Wolff. Una voce di donna cantava.

Wenn wir zwei zusammen wären
Möcht’das Singen mir vergch’n.

Mi fermai. Tornai indietro; salii la larga scalinata [p. 196 modifica]bianca, e suonai il campanello. Immediatamente la porta fu aperta da un domestico in sontuosa livrea.

«Desidero parlare colla signora che canta», dissi.

«Eh?» disse l’uomo squadrandomi. Vidi che mi credeva una mendicante e che stava per mandarmi via.

«Ditele, ditele in fretta», aggiunsi, «che... che Hugo Wolff mi ha detto che potevo venire.»

Certo qualche cosa nel mio viso — oh mamma! nel mio disperato viso — toccò una corda umana in quel pomposo automa.

Andò diritto alla porta del salone, bussò piano, ed entrò a portare il mio messaggio.

Sulla tavola dell’anticamera era un immenso canestro dorato, pieno di gigli pasquali.

La musica tacque, e quasi subito apparve sulla soglia una signora. Era giovanissima — poteva avere pochi anni più di me — era bella, e vestita di panno color d’ametista. Mi guardò curiosamente; poi disse, improvvisa:

«Volete entrare?»

La seguii nella vasta sala sfarzosa. Dalla parete «La Bella» del Tiziano mi guardava blandamente d’in fra le palpebre arrossate.

«Che cos’era quel messaggio che mi mandaste?» chiese la giovane signora, con la graziosa testa un po’ inclinata sull’omero. «Non ho capito bene...»

Non avevo quasi voce. «Ho detto»... balbettai, «ho detto che Hugo Wolff mi invitava ad entrare. Vi ho sentito cantare la sua romanza».

Essa rise. Poi disse: «Siete dunque musicista?»

Crollai il capo. Ebbi per un istante l’idea di narrarle la Storia del Lupo. Poi temetti che potesse conoscere il mio nome, e forse parlarne con gli italiani di New York. E l’Italo-Americano scriverebbe un articolo, e il Corriere della Sera a Milano lo riprodurrebbe... [p. 197 modifica]

Ma la dolce giovine donna parlava: «Posso fare qualche cosa per voi?»

Io dissi: «Sì.»

«Denari?» chiese lei.

«Sì.»

«Quanto vi occorre?»

«Cinque dollari,» dissi io.

Essa sorrise. «Così poco? Sarei lieta di fare di più per un’amica di Hugo Wolff.»

Uscì dalla stanza chiudendo la porta dietro di sè. Mi lasciò sola nel suo magnifico salone; coi miei abiti dimessi, col mio cappello di paglia nero, colla mia necessità di cinque dollari mi chiuse in quella sala piena di ornamenti d’oro e d’argento, di cornici ingemmate e ninnoli di valore inestimabile. In un angolo v’era una libreria aperta, tutti i volumi rilegati in cuoio rosso con lettere d’oro. Guardai. Erano poeti tedeschi: Lenau, Uhland, Heinrich Heine... E poi Rossetti e Mrs Browning; e un volume della meravigliosa Lawrence Hope. E più in là vidi le «Odi Barbare»; e vicino a loro il mio volume di versi... il mio nome in oro sul cuoio rosso!...

Mi coprii il viso colle mani e piansi.

Dopo pochi momenti essa era tornata, tenendo nella mano una moneta d’oro di venti dollari.

«Ecco, per porte-bonheur!» disse; e, nel porgermela, il delicato viso si soffuse di rossore. «E non c’è altro ch’io possa fare per voi?»

Io feci cenno di sì. Le lagrime mi impedivano di parlare, ma guardai il pianoforte.

Essa sorrise, e subito sedette davanti alla tastiera.

E cantò. Cantò per me.

Tutta la dolcezza e tutto il fervore che Dio le aveva versato nella divina voce, essa lo mise nel suo canto per me, sconosciuta, che non vedrebbe mai più, venuta da chi sa dove, a domandarle la carità. [p. 198 modifica]

Mamma, mamma mia cara, perchè non si fa mai quello che si vorrebbe? Avrei voluto prenderle le mani e baciarle; e baciarle il dolce viso commosso, e dirle che l’adoravo; e dirle che era mio quel libro di versi; e darle del tu. Hugo Wolff, pazzo e affamato, morto di crepacuore e di miseria, ci spingeva l’una verso l’altra, lo so.

Ma la canzone finì. — Ella si era levata in piedi, ed io non la guardai più. Uscii senza parlare. La lasciai così, ritta accanto al pianoforte, e so che mi guardava...

Nell’anticamera i domestici si inchinarono al mio passaggio come se fossi stata una principessa, e mi aprirono la porta. Io passai davanti a loro piangendo, e scesi, piangendo ancora, la larga scalinata.

Camminai così, senza curarmi di chi mi vedesse; e giunta a Madison Square sedetti su una panca sotto gli alberi.

Qualcuno venne a sedere accanto a me. Era una donna. Sentii i suoi occhi fissarsi lungamente su di me, e mi volsi anch’io a guardarla. Era il volatile occidentale! Subito ne riconobbi, sotto la toque di velluto color turchese, i capelli d’oro e la grossa faccia rosea.

«Come sta, Mrs Doyle?» le dissi.

«Eh!» esclamò, sussultando. «Come fa a conoscermi?» Poi soggiunse guardandomi fissa: «E cos’ha da piangere?»

«Piango per amore di una donna», dissi, «che è stata buona con me.»

«Ce ne sono tante di buone donne,» disse lei. «Anch’io sono buona. Perchè? Cos’ha? Cosa vuole?»

«Voglio che ella venga a parlare con mio marito», dissi, «che da quattro giorni... Venga... Lo conosce... L’ha visto a Montecarlo. Si chiama Aldo Della Rocca».

«Come? Della Rocca? Quell’angelo di napoletano? Quell’Apollo del Belvedere? Ma sicuro che lo conosco! E dov’è? Cosa fa qui?» [p. 199 modifica]

«Venga a vedere», dissi.

Ed ella venne con me nella sua toque turchese, alla meschina casa di Mrs Schmidl nella lurida 38.ma Strada.


Quella sera pranzammo col volatile occidentale o, piuttosto, essa si invitò a pranzare con noi.

Disse: «Che veleno!» quando assaggiò la Knödelsuppe di Frau Schmidl. E: «Che veleno!» quando mangiò il Blutwurst coi krauti.

A giudicare dai suoi modi, che sono esecrabili, essa è probabilmente una gran signora.

Mamma! nel mio cuore la speranza apre timidi occhi...»

* * * * * *