I Salmi di David (Diodati)/SALMO LXXIII

SALMO LXXIII.

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SALMO LXXIII.

1          Pur è il Signor benigno e grazioso
     Ad Israel; anzi a chiunque il petto
     Have purgato e netto.
     Ma sono incorso in varco periglioso,
     E per poco mancarmi i piedi lassi,
     E sdrucciolarmi i vacillanti passi.
2          Perchè veggendo degli stolti ed empi
     Nel mondo prosperar la turba rea,
     Di gelosia ardea.
     Che non son tratti da travagli e scempi,
     Come con lacci ad immatura morte,
     E godon di vigor intero e forte.
3          Degli altri il mal da loro s’allontana,
     Nè son, col resto de l’umana gente,
     Battuti parimente.
     D’orgoglio avvinti, a guisa di collana,
     Vanno gonfi e pomposi, e dansi vanto
     D’attorno aver di violenza il manto.
4          Scoppian lor fuori per lo grasso gli occhi:
     E lor ventura di gran lunga avanza
     Lor concetto e speranza.
     Sciolgon la lingua, perchè audace sbocchi
     Protervie, oppression, rampogne e liti,
     Ed in alto si fan sentir saliti.
5          Metton nel ciel la bocca bestemmiante:
     La lingua lor per l’universa terra
     Corre sfrenata ed erra.
     Di Dio la gente, che si vede innante
     Mescer d’angosce ognor le coppe piene,
     Per ciò di querelar non si rattiene.
6          E susurra fra sè: Come esser puote
     Che Dio, Signor sovran, il tutto vegga,

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     Ed al mondo provegga?
     Sono pur di costor palesi e note
     Bestemmie e colpe, e pur vivon felici,
     Colmi tuttor di grazie beatrici.
7          Adunque de l’avermi netto ’l core,
     Nel tuo cospetto, d’ogni vizio brutto,
     Mercè non colgo o frutto:
     Ed indarno le man lavo in candore:
     Poscia che tuttodì mi rinovelli,
     Infin dal primo albor, piaghe e flagelli.
8          Ma se così di favellar imprendo
     Al tuo santo legnaggio ingiuria e frode
     Fo del suo pregio e lode;
     Mentre con tua ragion così contendo.
     Per ciò volli chiarir quel caso oscuro,
     Ma più grave tuttor mi parve e duro.
9          Entrato infin nel tempio venerando,
     Chiaro conobbi, che Dio gli destina
     Ad eterna ruina.
     E dato lor dal ciel eterno bando,
     Gli fa calar, come su ghiaccio e vetro,
     Ne l’abisso, onde ’l piè non torna addietro.
10          Come furo distrutti in uno stante?
     Come perir di sorte orrenda e strana,
     D’infra la gente umana?
     Qual sogno son, quand’uom si desta errante.
     A l’apparir de la tua gloria e regno,
     Avrai la lor vana sembianza a sdegno.
11          Qualor da quel dispetto inamarito,
     Mi sentiva trafitto e cor e reni
     Di fiero tosco pieni:
     M’era, i ’l confesso, ogni senno smarrito:
     Ed in me di ragion il lume spento,
     Rassembrava appo te bruto giumento.
12          Ma pur ti fui di cor sempre congiunto,
     E me cadente, per la destra mano,

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     Tu sollevasti umano.
     Tu m’hai, Signor, nel tuo governo assunto:
     Onde sarò, da’ tuoi consigli scorto,
     Di gloria accolto nel bramato porto.
13          Evvi egli altri per me che tu nel cielo?
     Posso io trovar in terra il piacer mio
     In alcun fuor che ’n Dio?
     Se di carne e di cor, lasso, trafelo,
     Egli è la Rocca mia, ripar superno,
     E cara parte di retaggio eterno.
14          Perirà certo chi da te devia,
     E chi viola i tuo’ sagrati patti,
     Che teco have contratti.
     A me giova fondar la fede mia
     Nel sol Signor, che m’è sostegno e speme,
     Per di lui celebrar l’opre supreme.