I Mille/Capitolo XVI

Capitolo XVI. Cozzo ed i cinquanta Palermitani

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Capitolo XVI. Cozzo ed i cinquanta Palermitani
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CAPITOLO XVI.

COZZO E I CINQUANTA PALERMITANI.

     Les cloîtres, les cachots, ne sont point son ouvrage.
Dieu fit la liberté — l’homme a fait l’esclavage.
(Chenier).


Quand’io considero quella serie di mostruosi governi che da secoli reggono la meridionale Italia — con popolazioni energiche come son quelle — cresciute sulle lave dei nostri vulcani — io concludo: che non basta l’energia per fare un popolo libero e grande. — Dirò di più, che non basta l’energia e l’intelligenza, poichè a dovizia possiede il nostro popolo l’una e l’altra qualità.

E qui devo ancor mettere la mano sulla piaga della nostra patria infelice: il clericume — ossia l’impostura.

E chi potrà negarmi che sia il pretismo la base su cui poggiano tutti i governi perversi?

E mentre si millanta progresso, incivilimento dovunque — in questi giorni stessi trionfa nelle elezioni al Parlamento Belgico, il clericume! — E chi può sottrarre all’influsso malefico del 2 [p. 71 modifica] dicembre protettore della menzogna, i piccoli Stati che attorniano la Francia, quali l’Italia, la Spagna e il Belgio?

Manca certamente al nostro popolo la disciplina — che tanto grandi fece i nostri padri — la disciplina da cui lo distolgono una mano di dottrinari per la gloriuzza d’esser chiamati grandi, mentre sono piccolissimi.

E ciò mi spinge sempre più all’idea d’una Dittatura onesta e temporaria.

Il «Siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali» del Mazzini, significa «Siate tutti una Babilonia!»

Cozzo! Pare impossibile; la terra dei gesuiti e dei preti — l’Italia — partorisce anche i Cozzi — quelle antitesi così pronunciate del malvagio!

Io l’ho veduto Cozzo — bello come una fanciulla e giovanissimo. — Cozzo che non s’è mai presentato che al momento del pericolo — e nel pericolo sempre tra i primi, io l’ho veduto a Caserta — morente — col petto rotto da una palla borbonica — e baciai cogli occhi umidi quella fronte d’angelo!

Egli sorrise vedendomi — d’un sorriso che terrò scolpito nell’anima fino alla morte — e pronunciò le ultime solenni parole: «Io sono felice d’aver dato la vita al mio paese!» .

E tutte le provincie italiane possedono i loro Cozzi da non esser superati da nessuna casta nel mondo.

Cotesti superbi rappresentanti dell’abnegazione, [p. 72 modifica] del decoro, del martirio, della dignità umana scaturiscono dalla folla di quella moltitudine corrotta che serve di piedestallo alla menzogna ed alla tirannide — e qualche volta la dominano e la guidano verso il bene — ma spesso vi rimangono travolti, superchiati, sinchè i cilicii e le battiture la riconducono ancora sulla via tracciata dai liberatori.

Ogni provincia possiede alcuno dei prototipi della nobile Legione — e l’Italia ne può andar orgogliosa. — Essa mai è meno dei Mille, ma il giorno in cui la gioventù italiana capisca, quanto sia grande il titolo di militi di quella incomparabile Legione — in quel giorno: Addio menzogna e tirannide. — La libertà riscalderà, vivificandola, questa terra delle grandi glorie, e delle grandi sventure!

Era la mezzanotte, quando Cozzo, dopo di aver riunito i cinquanta coraggiosi figli di Palermo, marciava risoluto all’assalto di Castellamare, presidiato da cinquecento uomini — da molta artiglieria — e colla parte del mare protetta dalla flotta borbonica, schierata a poca distanza.

I Borbonici apprezzavano giustamente la posizione di Castellamare — sia per la facilità di poter sbarcare al sicuro ogni specie di sussidio d’uomini, armi e vettovaglie — sia per facilitare la ritirata delle guarnigioni di Palermo sulla base dell’imponente flotta.

E perciò mantenevano quel propugnacolo della loro tirannide, molto provvisto dei migliori [p. 73 modifica] soldati, d’armi, di munizioni, e d’ogni specie di cose necessarie.

«Che importa!» aveano esclamato i cinquanta campioni della libertà italiana «più ardua è l’impresa, e più gloriosa».

E qui mio malgrado devo ancora fermare i liberatori per un inaspettato evento.

Un’illuminazione a giorno, pria a Palazzo Reale, poi a Castellamare, ed in seguito ne’ pubblici stabilimenti e nelle case di quanti impiegati borbonici si trovavano in Palermo — e di quanti non poterono esimersi dall’ordine d’illuminare — fermò i nostri mentre s’accingevano ad attraversare la piazza che divide Castellamare dalla Città.

Un rovinío di cannonate dai forti e dalla squadra assordava la gente, e più ancora le grida selvagge di tutta la ciurmaglia borbonica, con gli evviva a quel modello di monarca e morte ai filibustieri!

In sostanza era giunta in Palermo la notizia che i valorosi generali Bosco e Van Michel avean raggiunto i Mille presso Corleone, li avean distrutti, preso l’artiglieria e fugati i pochi resti verso il mare africano, ov’eran aspettati dai prodi della flotta per esser condotti in quei certi ergastoli di S. Stefano e Favignano, che i patriotti dell’Italia Meridionale ben conoscono, oppure per essere appiccati ai pennoni di detta valorosa flotta: ricompensa generalmente assegnata ai pirati o filibustieri, simili ai Mille, che si [p. 74 modifica] occupano di disturbar l’ordine sì ben mantenuto dalle monarchie in generale e dalle italiane in particolare.

Fra poche ore noi avremo un cenno certo della veritiera loquacità dei dispacci governativi, che per la decima volta avean mangiato i Mille od annientati. — Bosco e Van Michel avean bensì raggiunto, verso Corleone, l’artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi invalidi la difese valorosamente, ed a cui tolsero, credo, un pezzo inutile. Ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La-Masa avea riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte per sentieri asprissimi sulla capitale dei Vespri presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell’esercito borbonico.