I Mille/Capitolo LXIV

Capitolo LXIV. Il Sogno

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Capitolo LXIII Conclusione

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CAPITOLO LXIV.

IL SOGNO.

Pareami in sogno al sacro monte in cima
Venir per l’aure a voi, sovr’ali snelle
Tra il coro delle vergini sorelle
Per cui l’uom tanto il viver suo sublima.
(Alfieri).


Tornai sul luogo della mia nascita e gridai: «Gli amici della mia gioventù, ove sono?» E l’eco mestamente rispose: «Ove sono?»


Nella fortunata campagna del 60, quando i pezzenti della Democrazia Italiana passeggiavano nei parchi regi, tra i fagiani ed i daini, e tergevano i loro rozzi calzari sui reali tappeti — in una stanza del sontuoso palazzo di Caserta, io sognai di Roma.

Roma! il più commovente, il più prezioso, il più stimolante sogno della mia vita — sempre! perchè sempre innamorato della grandiosa sua storia, ma massime dall’età di diciotto anni, in cui ebbi la fortuna di potere tra le macerie delle immense sue rovine, ispirarmi al gran concetto dell’emancipazione della mia patria e della [p. 395 modifica] famiglia umana: — Roma! ch’io visitai imberbe, per mia ventura, e ch’io salutai per la prima volta con affetto d’amante: — Roma! alle cui ispirazioni certamente, io devo il poco operato nella tempestosa mia vita; Roma, infine, il cuore dell’Italia, l’ideale dell’Italia! e che per essere la più preziosa delle sue gemme, fu sì accanitamente conculcata, percossa, oltraggiata da tutte le tirannidi, da tutte le imposture, che, per meglio corromperla, trasformarla, contaminarla, vi posero il loro seggio di serpe! E fecero del più grande dei popoli il più infimo! Roma! per cui questo corpo, oggi cadente, fu forato tre volte. E quando sul Gianicolo fui ferito in un fianco, alla sua difesa, io esultai con me stesso al pensiero di morire su d’un colle sì glorioso e per la santa causa della repubblica.

Era un bel giorno (così il sogno); dall’alto del Campidoglio io assisteva al sorgere del figlio maggiore dell’Infinito1 che spuntava dalle cime dell’Apennino. [p. 396 modifica]

Italia aveva conquistato il suo capo nel nido di vipere che avvelenavano Roma da tanti secoli; era caduto il fulmine, e vi aveva incenerito persino gli acciai degli strumenti di tortura e di roghi. Vi era un governo di tutti e per tutti, non so se lo chiamassero Repubblicano, ma so che il tempio di Temi — della vera — funzionava egualmente per tutti.

Comunque, non era un governo bordello, come quello d’una repubblica vicina nostra. Ognuno, indisturbato, andava per i fatti suoi; soltanto, siccome il putridume e la depravazione di costumi erano menomati sì, ma non scomparsi, essendo recente ancora la caduta dei tiranni, abbisognava una mano forte e volontà ferma per ripulire a dovere la società, ed un savio ed energico uomo era stato eletto dalla maggioranza del popolo con votazione diretta, per aver il fastidio di reggere la cosa pubblica temporariamente.

Egli non aveva leggi scritte: un mazzo di [p. 397 modifica] zolfanelli — senza petrolio, come vedremo presto — aveva fatto ragione d’ogni parto di certi famosi legislatori che hanno fatto del mondo una Babele.

La giustizia era da lui amministrata sulla piazza pubblica, e con tempi piovosi, nel maggiore dei templi del mondo, non più consacrato all’idolatria ed alla menzogna, ma ai capilavori dell’arte, ed agli uomini grandi e valorosi, che avevano illustrato l’Italia e sparso il loro sangue per essa.

Egli aveva un solo segretario, e li vidi io stesso ambedue mangiare un pezzo di pane e formaggio, per non lasciar la cattedra, in cui si conformavano di stare anche l’intiero giorno, se occorreva. — Tutto il loro lusso era un bicchiere di vino buono all’ora del pasto, ed acqua nel corrente della giornata.

Una centuria di militi cittadini serviva per fare ubbidire le deliberazioni del savio, giacchè non c’era più in Italia di gente armata, se non che circa due milioni di cittadini che supplivano a qualunque specie di servizio, e le di cui occupazioni diurne erano le officine e l’agricoltura, quando la patria non abbisognava di loro.

Tutta la sequela dei legislatori era stata inviata ad occuparsi di cose utili, e gli sgherri ed i preti, grandi e piccoli, a bonificare le paludi Pontine.

Accanto alle ceneri del nido di vipere e dei rottami ardenti vi si vedeva un altro incendio di cartaccie, a cui i bimbi avevano appiccato il fuoco, e con delle lunghe canne, gli stessi attendevano [p. 398 modifica] a spingere nel fuoco i fogli renitenti. Vi si scorgevano le parole: Leggi fondamentali dello Stato: 1° articolo: La religione cattolica apost.... e qui le irrompenti fiamme ne facevano giustizia. In un altro foglio semi-spento, che i ragazzi con più ardore scaraventavano sul fuoco, leggevasi: Imposta sul macinato; in altri: Imposta sul sale; prerogative, privilegi, dotazioni, ordini della Corona d’It....., non so più di che santi; e quei diavoli di fanciulli spingevano tutto ciò nel fuoco con tanto ardore ed accanimento, quanto i reverendi del Sant’Ufficio, in tempi andati, le sventurate vittime dell’Inquisizione.

Dal Capitolino io avevo assistito ad uno dei più solenni spettacoli della natura: il levar del sole, all’aspetto venerando d’un vero reggitore di popolo, sedente sull’antica sedia Curale, nel centro del Foro Romano e dispensando la vera giustizia, non quella del privilegio e del carnefice, come la intendono i moderni Soloni.

Tal quadro era forse impresso nella mia giovine immaginazione, dacchè quarantacinque lustri avanti, io per la prima volta passeggiavo rispettoso ed attonito in quel Foro, ove dettavansi dai nostri antenati i destini del mondo, e vicino, lontano, nella buona o cattiva fortuna, giammai si cancellarono nel mio spirito le impressioni raccolte in quella visita avventurosa.

Dal Capitolino scesi verso il Tevere, passai il ponte che difese Orazio Coclite, e che i preti chiamarono di San Bartolomeo, e m’incamminai [p. 399 modifica] verso il Gianicolo in cerca dei tumuli dei nostri Achilli italiani che, contro gli sgherri del Bonaparte sostennero l’onore italiano vilipeso e calpestato da loro. — Tumuli! E chi doveva innalzare tumuli ai superbi difensori dell’orbe? Chi? I preti? i preti, secolari traditori d’Italia, innalzarono tumuli, mausolei ai soldati stranieri che avevano sgozzato italiani, ma che avevano salvato la religione (la pancia agli scarafaggi).

Chi lo aveva da innalzare un sarcofago ai valorosi caduti del 30 aprile, del 3 giugno, dei monti Parioli, di Mentana? — Chi? — I nuovi venuti2, i ministri del governo italiano? — gli uomini delle garanzie papali? — Ma essi hanno paura di Roma, si sgomentano al solo suo nome, e poi hanno ragione; i pigmei non arrivano a posarsi sulle sedie dei giganti, non si sentono degni di atteggiarsi tra i monumenti della grandezza umana, ove posarono in tutta la loro maestà sublime i padroni del mondo! — Sì, hanno ragione cotesti piccinissimi ermafroditi seguaci d’ogni potere che loro garantisca il ventre, caporioni della setta dei consorti che si ponno paragonare al maiale del Casti:

Qualunque sia governo al porco piace,
     Anche a furia che sia di bastonate
     Mangiar, bere e dormir lasciato in pace.

No! essi non son degni di sedere in presenza di quel Panteon che fu centro del mondo [p. 400 modifica] conosciuto. Essi, tremanti sempre davanti a qualunque prepotenza, non ponno pesare al cospetto di quelle macerie ove prestando l’orecchio s’ode ancora l’eco delle maschie ed eloquenti favelle che parlavano ai figli di Marte quando decidevano se un re dei Cimbri, uno delle Gallie od uno della Mauritania doveva trascinare il carro del trionfatore repubblicano.

Sul Gianicolo, sì! lo trovai un monumento coll’iscrizione: « Audinot ed il valoroso esercito di Buonaparte vincitore degli eretici e salvatore dell’infallibile Dio in terra!» Cotesti bestemmiatori e traditori dell’Italia l’avevano eretto il mausoleo della maledizione! E migliaia d’italiani passavano ogni giorno davanti a quel sacrilegio senza minarlo e farlo saltare in aria.

Ma portento!... mentre era assorto in tante e sì dolorose meditazioni, io contemplai una folla di Romani armati d’arnesi di distruzione che in un momento atterrarono quella nostra vergogna! Poi altri Romani io vidi occupati a disseppellire le ossa dei nostri martiri, e sulle rovine del mausoleo maledetto innalzare un tumulo somigliante a quelli che adornano le pianure di Morat e di Maratona, e lo vidi coprirsi d’una piramide di bronzo che mi sembrò della forma di quella di Cecilia Metella. Sui lati della piramide scorgevansi molti nomi, in lettere cubitali, degli eroi caduti per l’Italia sul maggiore dei sette colli.

Fui ben felice nello scorgere i nomi di quei valorosissimi: Masina, Manara, Montaldi, Mameli, [p. 401 modifica] Melara, Ramorino, Peralto, Carbonin, Daverio, Davide, Ceccarelli, Cavallotti, Settignani, Minuto, Pelizzari, i Cairoli, i Franchi, Oziel, Bronzetti, Debenedetti, Montanari, Schiaffino, Ciceruacchio. — Che nomi! dicevo tra me, e mi pavoneggiavo d’essere stato fratello d’armi di quello stuolo di prodi!

Sopra un altro lato della piramide scorgevansi i nomi non meno gloriosi di Ugo Bassi, Mosto, Ferraris, Perla, Imbriani, Rossetti, Rossi, Risso, Molinari, Taddei3, Tukery, Coccelli4 e tanti altri nomi di martiri che le venture generazioni pronuncieranno con orgoglio e rispetto!

Salendo la scala marmorea, che adorna al settentrione il palazzo dei Quattro Venti — scala famosa ove morì il prode dei prodi, il bolognese Masina alla testa d’un pugno dei più valorosi assaltando petto a petto i soldati del Buonaparte, già trincerati ed in gran numero nel palazzo — salendo quella scala, io mi trovai su d’un belvedere ove la vista spaziavasi meravigliosamente sulla vasta e deserta campagna romana.

Ma miracolo!... in un istante, invece delle micidiali paludi Pontine, presentavansi agli occhi miei magnifici campi coltivati che mi ricordavano la ubertosa e ben coltivata valle del Po coll’incantevole sua vegetazione. [p. 402 modifica]

Invece del deserto, graziosissime cascine con orti verdeggianti ed alberi carichi d’ogni specie di frutta, pianure immense coperte di biade color dell’oro.

E ciò che più mi stupiva nello stato mio di ammirazione, era il brulichìo di gente tutta occupata ai diversi lavori della campagna.

Qui i carri carichi d’ogni ben di Dio e maestrevolmente guidati da preti, dal sacrestano agli eminentissimi; e, ben fissando, scopersi nella folla dei chercuti anche un santissimo padre, non più panciuto e colle pantofole dorate, ma calzato con un buon paio di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo. Egli mi sembrava occupato a dirigere i lavori ed a stimolare alcune schiene diritte di quei buoni curati che avevano passato la loro vita tra il fiasco e la Perpetua.

Là altri servi di Dio, facili a distinguersi dalle chieriche, che colla vanga, colla zappa o coll’aratro, lavoravano la terra ch’era una delizia.

Le strade ferrate solcavano la vasta e ricca campagna in tutte le direzioni, e mi sembrò di distinguere sulle locomotive, facendo le funzioni di macchinisti, fochisti, ecc., una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubblica sicurezza, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima.

Ora, dicevo tra me, capisco la meravigliosa trasformazione della campagna romana mettendo all’opera tutta cotesta schiera di fannulloni. — E che sarà quando i quattro o cinquecentomila [p. 403 modifica] giovani che formano oggi ciò che si chiama esercito regolare, saranno resi alle officine ed alla campagna di cui sono i più robusti coltivatori?

Lì consiste il principal morbo dell’Europa — lì la causa vera delle perenni sue guerre; e la pace potrà esser duratura soltanto quando gli eserciti permanenti saranno sostituiti dalla nazione armata mettendo, s’intende, i preti a bonificare le paludi Pontine.

«Non più imposti governi né guarentigie all’impostura, ma governo scelto da noi e culto del Vero» si udiva cantare da molti operai e contadini (non dai preti e dagli altri fannulloni cresciuti all’ombra d’uno stipendio vergognoso ed ora obbligati a piegar la schiena al lavoro).

«Vengano avanti al giudice supremo tutti cotesti uomini a nuove grandi fortune senza fatica, e lo ragguaglino sul modo da loro usato per accumularle».

Ed allora si scorgevano nella folla dei subalterni predoni gli uomini delle regìe, i ministri che, oltre al loro stipendio, avevano accumulato dei milioni appropriandosi un tanto per cento sui prestiti con cui avevano rovinata la nazione; scorgevansi, dico, cotesti messeri che si facevano piccini piccini e nascondevano l’antipatico ceffo dietro alcuni inferiori della stessa risma ch’erano stati complici dei loro misfatti.

«Noi (son sempre i manuali che cantano) lo possiam provare l’acquisto di questi cenci; possiam provare la fame patita dalle nostre povere [p. 404 modifica] famiglie che, malgrado l’abbondanza presente, conservano ancora sulle loro fronti sparute i solchi dei patimenti, e gli stenti, e le desolazioni da noi sofferte.

«Noi le possiam provare le nostre miserie su cui si satollarono tutti cotesti epuloni, lenoni e mascalzoni venduti corpo ed anima ai potenti».

Inaspriti e stimolati dal melanconico canto, tutti quei poveri braccianti avanzavano in massa colle loro falci, zappe e vanghe in aria per dar addosso ai preti e compagni..... Ma una voce potente come quella del tuono, uscita dal Foro, ristabiliva la calma in un momento.

«Ite ai vostri lavori!» tuonava la favella del savio.

«Ai tiranni ed ai preti conveniva la vendetta e la strage, essendo la loro potenza edificata sulla violenza e sulla menzogna; a voi, uomini liberi, umanitari e che avete il culto del Vero, conviene la tolleranza, e solo con essa potrete raggiungere la sublime meta di affratellare i popoli tutti della terra».

E tutti tornavano alle loro occupazioni, e si udiva nella folla la parola tolleranza ripetuta da tutti e con rispetto.

«Tolleranza» gridavano altri «meno però per i lupi, le vipere ed i preti, sinchè tornati alla condizione d’uomini onesti, se ne son capaci».


Note

  1. Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono numerosi fascicoli per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla; io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. (Col dottrinarismo intolleraute per il mezzo, certo sarà un affare un po’ serio).
    Per parte mia accenno e non insegno.
    Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo.
    V’è il tempo infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza, quindi incontestabile.
    Resta l’intelligenza infinita.
    È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia?
    La soluzione di tal problema è superiore alla mia capacità, e sinchè non si risolva matematicamente, io mi attengo ad un’idea che nobilita il mio povero essere, cioè: all’Intelligenza Infinita, di cui può far parte l’infinitesimale intelligenza mia, siano esse emanazione della materia o no.
    Di più, devo confessare, che non capisco come sian la stessa cosa: l’incudine, il ferro che batte il fabbro, e la sua idea di farne una marra. Non capisco come sian la stessa cosa: il pianeta, l’orbita elittica, in cui rota e traslata, la legge che ha circoscritto il suo moto in quell’orbita, e la mente di Kepler che scopriva questa legge....... Accenno!
    Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?.....
  2. Mi si perdoni un anacronismo — era un sogno.
  3. Taddei, brillante ufficiale dei Mille, morto poi alla battaglia di Custoza.
  4. Il tenente Coccelli venuto da Montevideo coi 73 nel 48. Uno dei più brillanti ufficiali di quella schiera.