I Marmi/Parte terza/Allegoria sopra la nave/Giorgio e Neri Paganelli

Giorgio e Neri Paganelli

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Giorgio e Neri Paganelli.

Giorgio. Ben che non ci sia messer Michele, non resterò per questo di non vi dire il restante di que’ due principii delle due altre lettere; quando saremo insieme, comodamente dirò l’avanzo: in tanto voi l’avrete ragguagliato di questo che io vi dirò ora.

Neri. Ancóra che io abbi da fare, perché ho desiderio d’udir nuove cose, lasciarò per ora le faccende e ascolterovvi. La terza lettera contiene quella nave che arrivò in porto, sí bella, con sí ricche spoglie, che lasciò tante confezioni, oro, argento e gioie: dite, adunque.

Giorgio. La nave, dice il padre che non è altro che la stanza o la casa della Fortuna; e sta benissimo, fondata sopra una nave, che del continuo sta in moto, continuamente è dall’onde battuta in acqua, del continuo posata dove ogni fondamento è nulla. L’esser gran navilio non vuol significar altro che la sua ampia abitazione. Questa non è nuda, ma vestita; questa non è calva dietro nella collottola né ha i capelli dinanzi sul ciuffetto, ma è in tutto bellissima e ornata; non può pigliarla alcuno né tenerla, ma bisogna che le piaccia di venire con il [p. 38 modifica] suo ricco navilio nel porto de’ nostri bisogni o della nostra povertá; ed è difficilissimo a saper per che vento la naviga, che viaggio ella vuol fare, perché la sua nave fa come fanno tutte l’altre spesse volte, che vanno dove piace al vento e a lei, e, come le piace, conduce in porto, le rompe, le dá in mano d’altri; chi piace a lei, va in servitú, divien mendico, perde la nave e la roba alcune volte e alcune altre in compagnia la vita. Quanto tesoro getta ella in terra? Infinito, certamente. Ella è reina del mare; ella, quando le piace, fa adestrare gli uomini e con prestezza incredibile affaticarsi; ella ha molte donzelle, la Sorte, la Disgrazia, la Bonaccia, la Perdita, l’Utilitá, la Mercanzia, la Furia, la Tempesta, la Nebbia, la Necessitá, la Nube, la Paura, la Pioggia, la Saetta, la Disperazione, l’Instabilitá, la Ricchezza, la Inconstanzia, l’Impazienzia e altre infinite femine; poi i suoi marinai principali sono i Vènti; degli altri, v’è il Danno, l’Utile, il Timore, il Dispetto, l’Errore, l’Inganno, il Bisogno, il Guadagno, il Tempo prospero, il dannoso, il buono, il cattivo, l’Oblio, il Desiderio, e tutti gli altri Disagi e Piaceri e Dispiaceri. Ella gli manda con il suo battello per tutto il mare e fagli intrar per tutte le navi, e, perché sono invisibili (ma ben si sentono), non si può riparare ai mali che fanno; ella con un cenno si fa ubidire; né mai, mentre che l’è nel porto nostro, si può averne utile alcuno; poi, quando la va via, se gli pare, la spande delle sue ricchezze, la ne getta abondantemente. Bisogna essere aventurato e trovarsi a’ piedi del suo navilio in porto e pigliare prestamente quando la getta i tesori, acciò che altri non venga a prendergli.

Neri. Io non mi troverò mai a cotesti guadagni.

Giorgio. Come ella si parte, non l’agiungerebbe il vento; la sparisce in un súbito.

Neri. La non si può pigliare, adunque, per i capelli?

Giorgio. Il padre dice che le son baie che si scrivano e si dipingano: messer no, ché l’è troppa terribil femina. Andate dietro a quel navilio grosso, grande, potente e col vento in poppe, voi! Oh, se la si potessi pigliare, noi ce la presteremmo l’uno all’altro, e forse ci sarebbe tale che la legherebbe in casa; [p. 39 modifica] ma l’è come io v’ho detto la cosa. Un’occhiata se ne cava del fatto suo generalmente quando la viene in porto; nel quale bisogna stare attento e non si spiccar mai da quella nave insino a tanto che la si parte, perché, come se gli volta la fantasia, la toglie su e netta: l’è poi femina, che significa come dir persona testericcia, e dá a chi gli piace. Egli v’è stato tale uomo da bene, secondo che ’l padre trova scritto su’ libri, che non s’è mai discostato da bomba, ed ella non ha mai voluto gettar giú nulla; come egli s’è punto punto fatto da parte o ritirato indietro, e che vi sia venuto qualche gaglioffo, súbito ella ha fatto gettar giú ricchezze e tesori ed è sparita via: cosí il buon uomo s’è trovato con le mani piene di mosche.

Neri. Cotesta è una mala femina; e se mai io ho da far dipingere una Fortuna, voglio cotesta istoria, perché l’è nuova, e non vo’ far quella che ha bendato gli occhi e siede sopra il mondo con que’ goffi fantocci a torno: il padre la debbe aver cavata di qualche libro greco.

Giorgio. Se la fusse nuda, come potrebbe ella dare tante ricchezze? Io credo che tutti i tesori che sono in mare la gli facci metter nella sua nave, e, quando la ne vuole, la facci affondare i navilii dove vi son sopra tante ricche spoglie.

Neri. Forse anche che sí: i suoi beni son tutti oro, argento, gioie e altre mobilie che vanno e vengano.

Giorgio. Nel partir che fece la nave, la Fortuna scagliò fuori gran numero di confezioni, e in quelle erano, dopo il dolce, gioie e pietre preziose.

Neri. Che significan elleno?

Giorgio. Vuol dire che le gioie sono una certa dolcezza dilettevole e pasto da plebe, ciò è che a’ plebei basta vederle.

Neri. E non l’avere, eh?

Giorgio. Messer si.

Neri. Buona sposizione!

Giorgio. Adagio, udite pure il resto: voi sapete che le gioie sono pregiate a opinioni e che le vogliono piú assai in mano a un ricco che a un povero.

Neri. È verissimo: io ne vorrei avere assai, per farne buon mercato. [p. 40 modifica]

Giorgio. Gittaron poi monete, medaglie, tanto è, oro e argento assai. Oh questo non è pasto da plebei! Però i ricchi ci messero le man sopra e lo portarono nelle case loro e lo riposero ne’ forzieri, negli scrittoi, e ne’ cassoni. I plebei cominciarono a leccare e succiar quei confetti dolci, e, quando ebbero consumato la dolcitudine, restò loro quella pietra in bocca.

Neri. Ciò è che son ricchi di gioie in parole.

Giorgio. Voi mi siate in corpo. Poi, vedutole lustranti, le mostravano a quell’altra parte degli uomini ch’avevano atteso a raccor la moneta; i quali, dilettando loro quel bianco, quel rosso, quel turchino, quel verde, quel giallo e quel mistiato, cominciarono a barattare con quelle i loro ori e arienti; e la plebe, che spendeva meglio per i suoi bisogni la moneta e in cambio d’un diamante o d’un rubino gli serve un vetro, a poco a poco diede via tutta la sua ricchezza e la cambiò con suo disavantaggio; conciosia che i ricchi volevano dar loro poco oro, con dire: — Le son baie, cose che si rompano e d’adoperare per fummo e per boria; voi plebei non avete bisogno di pompe né di fummi, ma del ducato; adunque, eccovi i danari che fanno piú per le signorie vostre plebee. — La gentaglia, che non sa di lettera, si lasciò dar di questo pasto e nettarsi di gioie con pochi danari, come un bacin da barbieri: cosí una parte venne ad aver tutte le gioie e mezzo il tesoro. Ma egli non v’andò molto che i plebei s’accorsero che l’eran piú belle che i vetri e che l’avevano qualche virtú, e volsero cominciare a ricomperarne e ricambiare; ma i potenti, che se n’erano impadroniti, vi fecero sopra un altro pregio e, secondo che l’avevano comprate una moneta, ne volevano dieci e vénti.

Neri. Cotesta usanza maladetta non s’è ancóra spenta né si spegnerá mai.

Giorgio. Brevemente, a poco a poco, con barattare, ricambiare e tornare, distornare, levare e porre, con l’accrescere e il diminuire, la cosa si restò tutta in una parte e l’altra nulla nulla; da quel poco de dolciore di bocca in fuori, il plebeo non ha altro in questo mondo. [p. 41 modifica]

Neri. Tanto quanto egli tira con il dente, verbigrazia.

Giorgio. A pena. In questi beni di Fortuna entrò una maladizione occulta, una certa pestilenza secreta, un morbo acuto, una febbre penetrativa, un certo affanno intollerabile, che io non ve lo saprei mai dire; e credo che ve lo facesse entrare qualche uno che può piú che la Fortuna: e fu questa la maladizione che vi si ficcò dentro, che chi aveva usurpato il tesoro, se ne inamorasse e ne stesse male, come dire, pensare sempre a quello, aver l’occhio a quello, temer di quello, desiderar sempre quello, abracciarlo, guardarlo, serrarlo e non se ne servire, se non forzato dalla necessitá, di quello; gli altri, che l’avevano trabalzato e atteso alle dolcitudini spandendo e spendendo quello, volle, chi potette, che non potesse mai piú star loro troppo in cassa, in borsa, e cosí le gioie in dito o intorno, se non poco tempo, poco poco, vi dico, quanto tempo va a gustare qualche dolcezza di bocca, del resto nulla. Ma peggio la cosa va di rede in rede: poveri fanno poveri, e lascian loro quella maladizione della povertá, che sempre scaccino da loro le gioie, l’oro e l’ariento; i ricchi poi lasciano ancor loro per linea il tesoro e la maladizione insieme che lo serrino, che non lo dien via e sempre ardin di desiderio d’averne dell’altro. Sí che voi udite che dichiarazione ha dato il padre a questa nave in sin qui; or venghiamo al mostro.

Neri. Le son cose che paion baie da lèggere, ma, per la fede mia, che le son tanto vere e tanto che poco meglio si potrebbe dire. L’è una bell’invenzion cotesta, vedete, maestro Giorgio; ed è nuova cosa non piú detta: cotesto vostro padre ha intelletto. «Or via, all’altra», disse il cacciatore.

Giorgio. L’altra lettera dice (a faccie I, 228-229, nella seconda parte), che nella parte di settentrione è nato un mostro eccetera. Il mostro è l’uomo e, per settentrione, il mondo, che è la piú cattiva parte; il qual mondo è la abitazione dell’uomo in questa vita. In una sola massa, o corpo, v’è la femina e mastio, che s’intende l’anima e la carne; una parte si ciba e l’altra no, perché l’anima si nutrisce di celeste spirito e cosí lo spirito tace e il corpo favella; e vivono tutti due, la madre e il padre di questo uomo. [p. 42 modifica]

Neri. Saldo: che gente è questa? Ecco una baruffa di pòpoli la quistione è in piedi; oimè che sono alle mani a spada e rotella! So che ogn’uno spulezza; fia bene che noi andiamo altrove, ché io non son buono fra queste spade.

Giorgio. Né io: un’altra volta diremo il resto. Ma e’ vanno via; a me paiono eglino, al mio occhio, il capitan Pignatta e il capitan Rosa.

Neri. Sien chi si voglino, pur che vadin via, mi basta.

Giorgio. Tutte le genti, nobili e ignobili, de’ Marmi gli vanno dietro a piú potere.

Neri. Vadino nel nome di Dio; noi staremo piú larghi e passeggeremo il campo per nostro. Chi intende il padre per padre e la madre per madre?

Giorgio. Iddio e la Natura; e cosí l’anima favella con Dio, e quella non tocca mai le cose terrene, anzi si duole quando il corpo si volge nelle terrene voluttá.

Neri. La lettera dice che si mostra la metá: come s’intende questo?

Giorgio. Il corpo si vede solamente e l’altra parte una sola volta, che viene a essere alla fine della vita nostra. Ecco che tornano adietro con maggior furia; per la mia fede, che s’amazzeranno gente assai: andiancene a casa, messer Neri.

Neri. Fia meglio, ché noi non caveremmo costrutto del nostro ragionamento; tosto andate via, ché di qua è la mia. Io non resto punto sodisfatto di questa sposizione.

Giorgio. Ce n’ho un’altra migliore; un’altra sera: a rivederci, a Dio!

Neri. A Dio, poi che siamo, dell’allegoria, pervenuti al desiato fine.