Gli sposi promessi/Appendici/H

Appendici - Appendice H (al cap. I, tomo IV)

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Chi nasce in questo mondo è simile ad un sonatore d’una grande orchestra che si risveglia nel mezzo d’una sinfonia, e trova una musica avviata; bada un momento per coglier bene il tuono e la misura, e poi piglia il suo strumento, entra in concerto come può. Così quelli spagnuoli che nascevano per essere governatori dello stato di Milano, trovavano come un gran concerto di faccende in corso, una consonanza di massime politiche fra le quali e colle quali questa: che importava al decoro e all’interesse della Spagna l’estendere il più che fosse possibile il suo dominio e la sua preponderanza in Italia. Quando poi uno veniva spedito al governo suddetto, vi portava l’idea fissa che questa doveva essere la sua grande e, per così dire, unica occupazione. Lo era infatti, e lo sarebbe stata, quand’anche, per impossibile, egli non avesse avuto a ciò né predisposizione, né istruzioni: perché da [p. 822 modifica]una parte egli veniva a trovarsi nel bel mezzo di operazioni avviate, di fili tesi di lunga mano a quel fine; dall’altra vedeva d’intorno a sé, a fronte, da lato, di dietro tante altre operazioni avviate, tanti altri fili tesi pel fine contrario da altre potenze le quali non volevano quell’ingrandimento e quella preponderanza, e ne stavano sempre in sospetto: un ordinamento vasto e mutabile, nn giuoco incessante di resistenze, di difese, d’offese: emoli e aderenti entrambi antichi, amici e nemici, spiegati, o coperti, pei quali, contra i quali dei quali bisognava far sempre qualche cosa. Bisognava vigilare tutti i principi e gli stati d’Italia, mantener questo nella devozione consueta, tener quell'altro in rispetto, o attirarlo, o cercar di rovinarlo, conoscere i loro andamenti, e i pensieri se si poteva, inimicarli, riconciliarli, eccitare o reprimere la loro ambizione: un mondo di cose. Oltracciò i governatori erano capitani generali degli eserciti spagnuoli in Italia, e conducevano in persona le guerre che vi avevan fatte nascere, o che non era loro riuscito di stornare. La loro, come dicevano, gloria, e la loro fortuna alla corte, dipendevano da ciò che avessero saputo fare in quest’ordine di cose, delle cose cioè destinate a passar nella storia, propriamente o impropriamente detta. Avevano quindi sempre gli occhi e le mani in quella grande matassa, che avevano presa scompigliata, e scompigliata lasciavano, partendo dal governo o dal mondo; e di necessità non restava loro molto tempo né voglia per le cose di reggimento interno; sulle quali però avevano un potere d’assai più vasto e più libero che sulle altre, spropositato2 leggi sopra qualunque soggetto, senza essere astretti a nessuna norma stabilita, derogare alle veglianti, attribuirne l’esecuzione, o riserbarla a sé stessi, o far le due cose in una volta, imporre obblighi particolari, dispensare dai comuni, costituire qualunque pena, e volendo, giudicare il fatto e applicare la pena da loro intimata, o quell ’altra qualunque chea loro fosse paruto, e che, rigorosamente parlando, veniva ad esser legale, perché nella legge stessa si consacrava questo arbitrio illimitato; e molte altre cose sìmiglianti. Le quali tutte si facevano realmente in loro nome; ma la maggior parte ch’essi vi avessero era di mettere appunto il loro nome, o un ghirigoro in fondo a molte [p. 823 modifica]carte, nelle quali si diceva ch’eglino erano risoluti che le tali cose andassero nel tal modo. Per fare le loro risoluzioni c’era un avviamento di persone che procedevano in quella faccenda con un filo di consuetudine e di tradizione, procurando anche nei diversi casi or l’uno or l’altro di tirarlo, secondo il suo potere, verso qualche mira particolare. Questa distinzione di operazioni si può ancora riconoscere osservando i fatti e i documenti di quell’epoca. Per ciò che risguarda le relazioni cogli altri stati, la guerra, la pace, i trattati, in ognuno di quei governi si scorge agevolmente un carattere particolare, pacifico o turbolento, guardingo o arrischiato, lento o precipitoso, e va discorrendo, secondo l’indole e le circostanze particolari del governatore: per le cose di governo civile, si piglino le gride di venti governatori e di tutto un secolo, e si leggano di seguito, tolte soltanto le date e le ripetizioni, e potranno benissimo parere fattura d’un uomo solo, né più né meno dell’Iliade.

Il nostro povero montanaro, per aver voluto troppo uscir del manico quel giorno di san Martino, si era trovato ora esposto alla azione di tutti e due quei principii in una volta.

Il consiglio-segreto, in quel primo bollore di collera che veniva dietro a un po’ di spavento, rendendo conto per dispaccio, al governatori di ciò che s’era fatto per reprimere e per punire la diavolerie di quel giorno fatale, aveva fatto menzione con parole molto risentite della evasione ribelle e clamorosa di Renzo, e dei fatti veri e supposti che avevan dato cagione alla presa di lui. In un altro dispaccio, informando ch’egli s’era rifuggito sul territorio bergamasco, aggiungeva che sua eccellenza, qualora le fosse paruto, avrebbe potuto su di ciò fare colla serenissima republica di Venezia quelle dimostrazioni che fossero per sembrarle opportune.

3 nella Provisione era vergogna attonitaggirìe, incertitudine. Si consultò, si udì il parere della Sanità; altro non si trovò che di disfare il fatto con tanto dispendio, con tanto apparato, con tanta angheria. Si aperse il lazzeretto, e si diè licenza à tutti i poveri [p. 824 modifica]validi che vi rimanevano, e che ne scapparono con una pressa, con una gioia furente. La città tornò a risonare dell’antico clamore, ma più fievole e più interrotto, rivide quella turba più rada, e più miserevole, dice il Ripamonti, chi pensava come ella fosse tanto scemata. Gl’infermi furono trasportati a santa Maria della Stella, allora spedale di mendicanti, dove la più parte perirono.

Ma intanto cominciavano quei benedetti campi ad imbiondire. I poveri del contado a cui reggevano le gambe uscirono tutti per quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiàtò con un ultimo sforzo e con un nuovo trovato di carità: ad ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado fe’ dare un giulio e una falce da mietere. Finalmente la messe venne a salvare quei che potevano ancora esser salvati; giacché la mortalità straordinaria, effetto d’estenuazioni già disperate, e probabilmente di contagio ancor serpeggiante si protrasse fin dentro l’autunno.

Cessata o ridotta a pochissimo anche questa, si cominciava a respirare, quand’ecco un nuovo flagello, un passaggio di truppe, che desolò un gran tratto di Lombardia, lasciando poi dietro sé tale altro flagello che la disertò tutta quanta, e con essa una buona parte del rimanente d’Italia. Ciò che diede occasione a questo passaggio fu la guerra per la successióne di Mantova e del Monferrato, quella di cui abbiam già più d’una volta fatto cenno per incidenza e alla sfuggita. Ora ne diremo più per ordine l’origine e i primi successi, scorrendo con la brevità e colla chiarezza che potremo maggiori per uno spinaio di genealogie, per un labirinto di maneggi e per un andirivieni di fatti.

Nel 1627, Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova, ultimo maschio della linea di Guglielmo suo avo, senza prole, consumato dagli stravizzi d’ogni genere, e in età di trentatré anni vicino al sepolcro; stimolato dagli ufizii e condotto dai maneggi del cardinale di Richelieu e dei signori veneziani, aveva rivolto l’animo ad assicurare, per quanto poteva dipendere da lui, la successione de’ suoi stati al capo della linea più prossima trapiantata in Francia circa mezzo secolo innanzi, Carlo duca di Nevers. A tale intento aveva acconsentito che questi mandasse a Mantova il figlio duca di Rethel, il quale al momento che il [p. 825 modifica]governo verrebbe a vacare, ne pigliasse possesso in nome del padre.

Lasciava però indietro Vincenzo una giovinetta nipote per nome Maria, figlia del fratello e antecessore di lui Francesco IV, e di Margherita di Savoia. E al ducato di Mantova, dal quale erano senza controversia escluse le femine, si trovava annesso quello del Monferrato, soggetto di antiche quistioni coi duchi di Savoia: quistioni già diffinite o sospese con uno stralcio di Carlo V imperatore, risuscitate in ultimo da quel Carlo Emanuele I così attivo e mobile nelle pratiche, come ardito nell’armi: quistioni, dico, che dovevano esser ben imbrogliate, giacché ogni volta che tornavano in campo si dava il caso che i giuristi del duca di Savoia trovavano ch’egli aveva ragione, e quelli del duca di Mantova, che aveva ragione il duca di Mantova. Noi, senza cercare ora chi l’avesse, né se una ragione vi fosse, diremo soltanto che Carlo Emanuele, dando in moglie a Francesco Gonzaga la sua figlia Margherita, aveva cedute a favore di questa e della sua posterità le sue pretensioni, fino a un certo segno però, e con certe condizioni, in modo insomma di poterle riprendere, come erano i trattati d’allora; e che nel 1613, dopo la morte del genero Francesco, pretendendo, come avo materno la tutela della fanciulla Maria nata di quel matrimonio, e mettendo innanzi le ragioni di questa, poi mescolandovi quelle antiche sue, aveva mossa alla casa di Mantova una guerra, alla quale per poco non avevan presa parte tutti gli stati d’Europa. Un nuovo trattato aveva cessate le ostilità, senza terminare la quistione.

Ora, per antivenire, quanto era fattibile, torno a dire ogni nuovo pretesto, e per riunire quanto più si poteva di ragioni sul capo del duca Nevers, pensò il duca Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare in matrimonio quella giovane Maria al giovane Rethel quando giugnesse. A questi trattati che non potevano non traspirare, si opponevano con aperti ufizii e con segrete pratiche il duca di Savoia soprannominato, e il ministero di Spagna, il quale, aborrendo sopra ogni cosa lo stabilimento in Italia d’un principe naturalizzato francese era disposto a secondare tutti i maneggi e tutte le mosse che avessero per fine di stornarlo. Ma prevalendo presso il duca Vincenzo gli ufizii e le pratiche francesi, [p. 826 modifica]fu concertato che il Rethel venisse segretamente d’improvviso, come riuscì. Giunse in Mantova che il duca era agli estremi; le nozze si fecero nella notte dopo il natale del 1627, mentre quegli moriva. Al mattino il novello marito comparve in abito di lutto col titolo di principe di Mantova; e padrone dell’armi e della cittadella ricevè per nome del padre il giuramento di fedeltà degli abitanti favorevoli e contrarii.

La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro, ma sovente danno principio a quelle del mondo reale. Qui tutto si disponeva alla tragedia. Il duca di Savoia e il governatore di Milano, concertarono la presa del Monferrato, di cui fecero innanzi tratto le parti: del qual trattato don Gonzalo ottenne facilmente l’approvazione dal conte duca; persuadendogli facilissimo l’acquisto di Casale che per quello era assegnato alla Spagna. Siccome però per muovere una guerra è necessaria una ragione, altrimenti la guerra sarebbe ingiusta; cosi il ministero spagnuolo addusse per sua ragione di voler sostenere quella che pretendevano d’avere, sopra il4 Ferrante Gonzaga Principe di Guastalla parente del duca defunto un grado più indietro del Nevers, e5 Margherita Gonzaga duchessa vedova di Lorena, il primo sul ducato di Mantova. la seconda su queilo del Monferrato. Nello stesso tempo le due corti facevano ogni uficio a quella dell’imperatore perché non si desse l’investitura al Nevers; al quale, come a francese, Ferdinando per sé non era niente inclinato. Ricusò infatti di ricever l’omaggio, anzi non volle accogliere come ambasciatore il vescovo di Mantova inviatogli dal duca che s’era tosto portato quivi, e al quale fece intimare che riponesse nelle forze imperiali gli stati controversi; deciderebbe poi egli secondo il diritto. La condizione parve al Nevers dura e sospetta. Confidando nelle sue forze e ancor più nell’aiuto del re di Francia, dei veneziani e del papa per resistere ai nemici attivi, e sperando che l’imperatore non verrebbe a fatti disubbidiva con tutto il rispetto possibile.

Ma il cardinale di Richelieu era impegnato nell’assedio della Roccella; i veneziani non volevano muoversi, né anche [p. 827 modifica]dichiararsi fin che un esercito francese non fosse calato in Italia; il papa animava gli amici, esortava i nemici, proponeva accomodamenti, d’entrare in guerra non ne voleva sapere.

Intanto il duca di Savoia condotto l’esercito nel Monferrato, ne aveva presa la sua parte e un po’ di quella del compagno. Don Gonzalo se ne rodeva, ma temendo, se faceva appena un po’ di scalpore, che il duca si voltasse alla Francia, doveva chiuder l’occhio e far buon viso; e stava, stava, stava sotto Casale, dove trovava più resistenza che non aveva creduto e fatto credere.

Un corpo francese assoldato de’ danari del duca di Nevers, e comandato dal marchese d’Uxelles tentò nell’agosto del 1628 di scendere in Italia, ma affrontato e malconcio da Carlo Emanuele se ne tornò col capo rotto nel Delfinato, dove per mancanza di soldi si sbandò. Ma arrendutosi finalmente ai 30 di ottobre la Roccella, il cardinale di Richelieu propose nel consiglio l’impresa d’Italia, e che il re la conducesse in persona; e con quella sua forza d’eloquio tanto potente perché era l’espressione d’una gran forza di penetrazione di volontà, fé prevalere il partito alle opposizioni della regina madre avversa al Nevers perché suo avverso nel tempo della reggenza, e di giunta, perché una figlia di lui piaceva al secondo figlio di lei Monsieur duca d’Orleans al quale ella avrebbe voluto dare una principessa de’ Medici sua famiglia paterna. Fatti i preparativi, il re e il cardinale alla testa d’un esercito si affacciarono in marzo all’Italia, chiesero il passo al duca di Savoia; si trattò; non si conchiuse; si venne alle mani; i francesi ebbero il vantaggio; si trattò di nuovo, e si fece una pace, nella quale il duca6 s’impegnò a dare il passo ai francesi per portarsi a liberar Casale se il Cordova non levasse spontaneamente l’assedio, nel qual caso s’impegnò ad unire le sue forze a quelle del re per invadere il Milanese: in compenso gli si manteneva una parte di ciò che aveva preso del Monferrato. Don Gonzalo obedì con quell’animo che si può presumere al nemico vincitore e all’amico mutato, ratificò l’accordo, mise le sue trombe nel sacco, e si levò da Casale. [p. 828 modifica]Fu per questa occasione che i’Achillini scrisse a Luigi quel suo famoso sonetto:

«Sudate o fuochi a preparar metalli»


e un altro con cui lo esortava a tentar l’impresa pel santo Sepolcro. Quando la poesia ha avuto una parte celebre negli affari di questo mondo, non si vuole dissimularlo. Ma il cardinale di Richelieu pensava in quella vece di tornarsene in Francia.

Note

  1. Principio del Cap. XXVII, messo già nel brano dell’Innominato con qualche differenza. A margine del foglio (27), il Manzoni scrisse: «Trasportato nel vol. 3° e poi stralciato anche da questo». Si veda qui il Cap. I, tomo IV, in fine.
  2. Lacuna.
  3. Dai fogli 49 /3 50, 51, 52 (già 51) di trascrizione, o seconda stesura, staccati nel fare la copia. Si lega al Cap. XXVIII della redazione definitiva, e qui il Cap. I, tomo IV, come il brano precedente.
  4. Lacuna. In principio della pagina (49) si ha cancellato: «ducato di Mantova don»
  5. Cancellato sul Monferrato
  6. Variante acconsentì