Giaffà/Le disgrazie che può causare il denaro

Le disgrazie che può causare il denaro

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Le disgrazie che può causare il denaro
Nostra Signora del Buon Consiglio Son Giaffà o non Giaffà?

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Le disgrazie che può causare il denaro.

Un giorno, una gallina raspando tra la rena e il fieno secco del cortile, trovò un centesimino. Non è a dire quale fu la sua gioia e il suo contento. Dopo aver fatto mille progetti, come sempre accade allorché ci troviamo in possesso di una grande e improvvisa fortuna, decise di recarsi al mercato e comprare grano. Detto fatto. All’insaputa della padrona, uscí dal cortile, e se ne andò verso il mercato della vicina città. Cammin facendo incontrò una bella tortorella grigia, dai dolcissimi occhi pieni d’amore.

— Dove andate, comare, da queste parti? — chiese la tortorella alla gallina.

— Vado — rispose questa — vado al mercato a comprare del grano. Volete venire con me? [p. 80 modifica] Faremo due chiacchiere e vi darò parte della mia provvista di grano. —

La tortorella accettò con gioia, e le due comari proseguirono la via insieme attraverso i campi pieni di stoppia, sui cui ciglioni cominciava a rinascere l’erba tenera d’autunno.

La gallina e la tortora ragionavano fra loro del piú e del meno, facendo anche un po’ di maldicenza: a un tratto però stettero zitte, ascoltando. S’udiva un canto allegro e sottile: una vocina acuta che cantava una fresca musica sopra un pioppo solitario.

— Compare pettirosso, compare pettirosso, dove siete? — cominciò a gridare la gallina, allungando il collo.

Voleva far sapere a tutti la sua fortuna.

Il pettirosso, che tra le argentee foglie del pioppo sembrava da lontano un fiore rosso, sporse la testolina gentile e salutò:

— Oh, comari, buon giorno. Io sono qui; e voi dove andate?

— Andiamo al mercato per comprare grano, — rispose tutta tronfia la gallina. — Volete venire? Ci terrete compagnia e faremo due ciarle per la strada. — [p. 81 modifica]

Il pettirosso meditò un poco, senza scendere dal suo alto palazzo.

Egli era intelligentissimo, furbo e savio. Non si esponeva mai alle avventure, e si guardava dai pericoli.

— Venite o non venite? — chiese la gallina. Il pettirosso pensò che, dopo tutto, non rischiava nulla, e dopo essersi fatto pregare ancora un poco, volò giu. Le due comari se lo posero in mezzo, e ripresero la via ridendo e scherzando, perché il pettirosso era anche spiritoso e rivolgeva loro delle galanterie.

Poco piú in là incontrarono, vicino ad una fattoria, un bel gallo nero dal collo e dalla coda d’oro. La cresta poi e i barbigli sembravano di porpora. La gallina fece anche a lui l’invito, e il gallo accettò. In fila serrata i quattro importanti personaggi proseguirono la via, sempre allegri e felici. E già si scorgeva il profilo della città, quando una volpe gialla, dagli occhi lucenti, sbucando da una macchia, venne incontro alla nostra comitiva. In quel tempo non esisteva ancora inimicizia aperta tra la volpe e gli altri animali.

Godeva, sí, cattiva fama, e si narravano sottovoce storie spaventose di delitti e imbrogli com[p. 82 modifica] messi da lei; ma taluni dicevano ch’erano calunnie. Ad ogni modo i nostri amici non si spaventarono del suo incontro; anzi si fermarono un tantino per salutarsi.

Quella pettegola e vanitosa gallina, non potè resistere dal partecipare alla volpe la sua fortuna, e finí col solito invito. Veramente, la volpe grano non ne mangiava, tuttavia accettò, e sprofondandosi in ringraziamenti e complimenti disse:

— Benissimo: prima però bisogna che vada ad avvertire mia moglie Felissia, perché non si inquieti della mia assenza, poverina. Anzi, se volete venire con me, passeremo per una scorciatoia e faremo piú presto ad arrivare.

Il pettirosso tenutosi un po’ a distanza, guardava la volpe, o per dir meglio, il volpone, giacché essendo ammogliato doveva essere un volpone. Se fosse stato lui il padrone del centesimo, pensava, non avrebbe certo invitato quel messere. Ma, pazienza. La padrona era la gallina, e lei faceva quel che le pareva e piaceva. Il pettirosso pensò anche che non era una bella cosa seguire la scorciatoia indicata dal volpone, e tanto meno passare da casa sua, ma non osò dir nulla, e mogio mogio seguí la compagnia. Il volpone, che con la coda [p. 83 modifica] spazzava le tracce dei loro passi, gli rivolse belle parole, chiedendogli perché era così di malumore; ma il signorino si contentò di rispondere che si sentiva un po’ male. Aveva mangiato molti vermi sul pioppo, e forse gli causavano indigestione.

Giunti presso la casa del volpone — una bella casa di granito con un gran giardino di rovi, mirti e caprifogli — accadde ciò che doveva accadere. Il messere giallo dagli occhi lucenti, invitò la compagnia ad entrare. Disse:

— Piglierete un rinfresco, e poi ripartiremo. —

Lo disse con tanta grazia e tanta insinuazione, che quei babbei, la gallina, il gallo e la tortora, entrarono senz’altro. Ma il pettirosso restò fuori accigliato, pensando con amarezza:

— E cosa sarà mai questo rinfresco?

— E lei non mi fa l’onore? — chiese il volpone inchinandosi.

Il pettirosso si scusò, ripetè di sentirsi male, di voler aspettar fuori per prendere un po’ di fresco, e cento altre cose; ma furon tali le preghiere e le insistenze della volpe e dei compagni stessi, che alla fine dovette cedere. Ed entrò. Il padrone fece attraversare ai suoi ospiti un lungo corridoio, poi varie stanze, e infine si fermò in una specie di gal[p. 84 modifica]leria, ampia, illuminata da una finestrina piccolissima, ovale, aperta sulla volta. C’era una grande aria di mistero li dentro. La luce era scarsa, il silenzio profondo. Ossi bianchi e ossi appena spolpati ornavano la galleria.

Del rinfresco è inutile parlare: non ce n’era neppure l’ombra, se pure i rinfreschi hanno ombra.

— Aspettate un momentino — disse il volpone — vado a salutare Felissia, la mia signora, ed a baciare i miei piccini.

— Andiamocene di qui — disse il pettirosso, appena furono soli. — Andiamocene, signore mie, andiamocene. —

I compagni, in attesa del rinfresco, gli risero sul... becco. Invano l’uccellino fece loro notare il sinistro aspetto del luogo, invano additò gli ossi.

La gallina trovava tutto artistico e pittoresco, e voleva scommettere che gli ossi non erano ossi, ma ornamenti antichi che solo un signore come il volpone poteva permettersi in casa sua. Il gallo diceva la stessa cosa, e la tortora, spirito soave ma debole, seguiva l’opinione degli altri.

— Andiamo, andiamo — ripeteva il pettirosso, ma già, era come dirlo al muro. Il volpone [p. 85 modifica] rientrò, e il pettirosso tacque. Tacque con gli occhi rivolti al cielo, fissi verso la finestrina, come alla ricerca di un sogno o di una mosca.

Il volpone portava seco una sedia a bracciuoli, una specie di cattedra, che depose nel mezzo della galleria, dopo aver chiuso la porta.

— Sarà questo il rinfresco? — pensò la gallina guardando la sedia — come si berrà?

Il volpone, però, invece di dargliela a bere, vi si assise comodamente, e si pose anche gli occhiali.

Poi, mentre gli ospiti se ne stavano a becco aperto, cominciò:

— Signore e signori, io sono un ministro della divina Provvidenza, ed oggi sento il dovere di farvi un sermone. Non sono più il vostro amico, l’ospite vostro. Quale mi vedete, io sono un giudice supremo incaricato d’una grande missione presso di voi.

— Diavolo, pensò il gallo — che cosa vuol dire tutto questo? —

E lo fissava spaurito, invaso da un sacro terrore. Gli occhi del volpone splendevano, e la sua magnifica coda bionda assumeva qualche cosa di maestosamente grande. «Sí, davvero, dev’essere un [p. 86 modifica]personaggio sovrannaturale...» — cosí pensava il gallo, la cui cresta diventava pallida.

Dopo un breve ma solenne silenzio, facendosi piú che mai severo, il volpone riprese:

— Signore e signori, io oggi sono costretto a compiere un penoso dovere, quello di giudicare le vostre azioni, e premiarvi e punirvi secondo che meritate.

— Altro che rinfresco! — disse fra sé la gallina. Anch’essa era pallida, ed aveva quasi dimenticato il suo centesimo malaugurato. E pensava che avrebbe fatto bene a seguire i consigli del pettirosso. Lo guardò. L’uccellino trionfava, ma era un trionfo ben triste e penoso.

— Compare Loccaso! — esclamò il volpone, chiamando il gallo. Nel suo accento c’era della prepotenza e della familiarità insieme, che proprio facevano male. Mogio mogio il gallo s’avanzò. Non pensava neppure a muovere gli artigli, perché si credeva sempre alla presenza di un ministro della divina Provvidenza.

— Cominciamo da voi — disse il volpone, eseguendo una giustizia molto spiccia e sommaria. — Voi siete il piú indegno degli animali di questo mondo e di quello celeste. A parte la vo[p. 87 modifica]stra inutilità, la vostra indole cattiva, battagliera e vana, a parte tutti i vostri difetti e peccati particolari, che non accenneremo per ragioni di moralità, e per non offendere l’orecchio delle signore qui presenti, voi siete imputato di questo delitto capitale:

«Nella notte voi cantate, o meglio ragliate, senza un motivo onesto, ma solo con l’idea perfida di far del male. Infatti, al fracasso da voi causato, oltre gli altri danni immensi che non accenneremo per non impazientire l’uditorio, (la gallina fece una specie di smorfia), i buoi si spaventano, corrono per le campagne e si smarriscono. Perciò il contadino perde le sue notti e le sue giornate nel cercarli, e cosí la sua famiglia soffre la fame e la miseria. E quindi ecco la vostra pena: testa a Felissia, piedi ai piccini e cassa a me!...»

In men che si dica il giudice e carnefice eseguí la sua sentenza tremenda. Squartò il gallo, mise da una parte la testa per la moglie, dall’altra i piedi per i volpicini, e divorò rapidamente il resto, lasciando appena le penne e qualche osso, che andò a raggiungere gli altri.

Vi figurate voi ciò che provarono la gallina e i due compagni, durante questa terribile scena? Se [p. 88 modifica]non ve lo figurate, permettete che non ve lo dica io, perché ciò ci farebbe piangere dirottamente tutti, voi e me; e noi abbiamo bisogno di coraggio e forza per continuare la narrazione di questa storia, tanto pietosa quanto vera, che io ho tratto da un libro di cronache, scritto da un fra’ Picchio, monaco in un convento di uccelli e morto di fame durante la terribile carestia dell’anno mille.

La gallina e la tortora erano indietreggiate. Ormai pensavano che gli ossi della galleria erano ossi, e facevano l’esame di coscienza. Solo il pettirosso restava nascosto nel suo cantuccio, cogli occhi in su.

— Comare Loccasa, ora a voi! — disse il volpone, apostrofando la gallina.

Lei non si mosse, ma il giudice non ne fece caso, e cominciò:

— Voi siete la piú grande pettegola del mondo; siete un pessimo soggetto. Su voi si hanno grandi accuse e gravissime imputazioni. Cose proprio da far rizzare i peli della mia coda. Ma lasciamo stare. Io vi perdonerei ben volentieri ogni cosa, se non altro per il grazioso invito che ho da voi oggi ricevuto, ma non lo posso; contro di voi c’è un capo di accusa che vi atterra: voi siete la pietra [p. 89 modifica]della discordia del genere umano. Andate per le case, e lasciate le vostre uova di qua e di là, col deliberato proposito di causare guerre. Infatti, le massaie si bisticciano per voi, per le uova vostre, si dicono male parole e vengono persino alle mani. Ergo, testa a Felissia, piedi ai piccini e cassa a me! —

Il volpone ridiscese dal suo trono e... chi ha coraggio di descriver nuovamente la terribile scena?

In breve i resti mortali della gallina si confusero con gli altri sparsi per la galleria. Nel trambusto — giacché comare Loccasa aveva lottato e strillato un bel po’, — la tortorella, sicura della sua prossima fine, pregava; e il pettirosso coglieva l’occasione per acchiappare il famoso centesimino e nasconderselo indosso. Senza dubbio, l’uccellino non pensava a morire, sebbene la coscienza gli rimordesse, accusandogli molte colpe ed avventure.

— Voi, — disse il volpone giudice alla tortora, dopo averla caricata d’improperi e d’insulti, come avviene sempre, allorché ci si trova davanti a un debole che non può difendersi, — voi benché apparteniate ad una stirpe di gente buona e [p. 90 modifica]mite, voi siete sanguinaria e feroce. Giuochiamo a carte scoperte. Voi meritate mille morti. E cosa contano i falli dei due disgraziati or ora giustiziati, dinanzi ai vostri delitti? Voi un giorno avete visto un uomo a cavallo. Subito avete deciso la morte di questo nobile animale...

— Come mai l’avrò ucciso? — pensò la tortorella lagrimando, mentre il pettirosso la guardava con immensa compassione.

— Subito — proseguí il giudice — subito avete posto in opera il vostro infame progetto. Avete cominciato a svolazzare sulla testa della vostra vittima; il cavaliere infastidito trasse un’accetta per uccidervi, mentre posavate sulla testa del cavallo. E batté il colpo. Ma voi volaste via sghignazzando, e l’accetta spaccò il cranio del nobile animale che morí sul colpo. Non faccio commenti.

È un fatto che commosse tutta l’umanità. Perciò, ecc. ecc.

Ripeté la solita sentenza.

La timida tortorella fece quanto non aveva tentato neppur il gallo coraggioso. Cercò di difendersi, obbiettando:

— Ma io sono nata quest’anno!

— Che vi colga una palla! — imprecò il [p. 91 modifica]giudice, avanzandosi. — Quest’anno, quest’anno è accaduto il delitto! —

In un baleno se la divorò: poi tornò al suo posto.

Era pieno zeppo di mangiare, e quasi non ne poteva più. Ma la carne molle e fresca del pettirosso lo tentava ancora, e contava di papparselo con la solita cerimonia. Ma il pettirosso si avanzò e posandosi con aria umile e rispettosa sul bracciale della sedia, disse:

— Eccellenza, monsignore il giudice supremo, io so tutte le mie colpe, e so la sorte che mi spetta. Messere, concedetemi almeno la grazia di non farmi il dibattimento, e fatemi l’onore di divorarmi intero. Chiudete gli occhi e aprite la nobile bocca. Vi scenderò intero, messere...

— E sia! — esclamò il volpone, contento di non far piú chiacchiere, con aria di concedere un grande grazia.

Il pettirosso salí sulla spalliera della sedia; il messere chiuse gli occhi e aprí la bocca... Ma subito aprí gli occhi, sentendo in bocca qualche cosa di amarognolo e poco pulito... — dice il libro antico.

E con rabbia vide il pettirosso che volava via [p. 92 modifica] per la finestrina della volta. L’uccellino rideva insolentemente e diceva:

— Arrivederci, messere! —

Qui la storia parrebbe finita, ma invece no. Ha un lungo seguito, che vi narrerò un’altra volta, se Dio mi dà vita.

Per oggi sono stanca e vi saluto.

Ah, mi dimenticavo di dirvi che da quel giorno la volpe perdette il credito, e fu temuta e disprezzata.