Filocolo/Libro secondo/17

Libro secondo - Capitolo 17

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Alle parole state tra ’l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore, ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l’avea notate, ascoltando quello ch’ella non avrebbe voluto udire né che per altrui le fosse stato raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a Florio per l’amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò la vera e buona difensione di Florio fatta in aiuto di lei, le rendé molto il perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: - Poi che mandare mi dovete Biancifiore a Montoro, io v’andrò -, allora dolore intollerabile l’assalì, però che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re il quale questo impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sé così: "Oimè, Florio, solo conforto dell’anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t’hai tu lasciato ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perché tu consentissi, come tu hai fatto, all’andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii. Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te, ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste cose se’ stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo studio, ma di trarre me della tua memoria, t’allontana da me, acciò che per distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua Biancifiore? Ove n’andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più felice Fedra, che col suocero in nome d’amante finì il disiato cammino! Or mi fosse stata licita l’una di queste felicità: o l’essere stata da te con ingegno abandonata o d’averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m’hai più volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto della crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E’ non ti si disdicea, ché ciascuno sa che alcuno non può dar legge all’amorevole atto, però che la forza d’amore tiene l’uomo, più che alcun altro vinco, costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se ’l tuo amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per forza menare. Né in questo ti si disdicea l’essere al tuo padre disubidiente, però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per adietro non sono quali furono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la promessa fede e le vele della sua nave diede ad un’ora a’ volanti venti? O come potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch’io l’avea nelle mie mani e che io sola era l’anima e la vita tua: ora se tu sanza queste cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, né hai avuta alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia t’incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai, partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa che morte non ci falla! Tu te n’andrai a Montoro col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai, e niun diletto da te ha preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti addesso. Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl’iddii hanno ragione d’essere avversi a’ nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto spazio di potere toccare l’ultime possanze d’amore, e mai non le tentammo: la qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte soluto, né mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso credo che forse gl’iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, né già per tale speranza il mio dolor non scema! Or volessono gl’iddii che, poi che dividere mi debbo da te, che se’ solo mio bene mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire! Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, né però si muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t’era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone, però ch’io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi iddii, se i miseri meritano d’essere uditi, io vi priego che di me v’incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più che crudele, te ne va’, ché in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti giuro per l’anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com’io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".